Eccomi con il secondo, sofferto capitolo di
Carival! sta ff mi priva delle energieXD Ormai sto diventando esperta di
arredamenti, di significati di maschere veneziane e di cene importanti !
Fortuna che c'è internet...altrimenti già mi vedevo sfogliando libroni in
bibliotecaXDDD
Dea73: Cara…lo sai che questa storia è dedicata
a te, no? Per tutto il sostegno che mi dai^_^
A tutte...Buona lettura^________^
Carnival
Parte II
di Releuse
Quel profondo silenzio, carico d'attesa e celata tensione, si riversò nell’aria solo per brevi istanti. In lontananza, al di là della porta, si udivano già i passi che riecheggiavano per il lungo corridoio facendosi sempre più vicini, più numerosi, sempre più disturbanti. Avevo l'impressione di essere nella mia stanza, quando, in dormiveglia, coglievo lo zampettare di quei piccoli insetti dalla corazza dura che mi faceva sussultare, rendendomi particolarmente attento a tutto quello che avevo intorno. Inquietato, pregavo sempre di averne avuto solo l'impressione, di essere solo, nella mia stanza. Perché l'idea di poter diventare il bersaglio di quel piccolo essere mi faceva gelare e rabbrividire.
E un brivido la percorse la mia schiena, non appena gli ospiti varcarono la soglia per prendere posto in quell’ampia sala. Qualcuno probabilmente avrebbe descritto quella scena come una semplice sfilata di maschere colorate, eppure l'impressione che n’ebbi fu quella di una solenne processione.
Una processione di bambole inanimate, burattini i cui fili invisibili sarebbero stati ben presto manipolati abilmente dai loro padroni, durante tutta la serata. Fili per guidare il proprio vero io attraverso una maschera.
Mi chiesi che cosa ne pensasse Hypnos di tutto quello.
Pensava che fosse una semplice carnevalata o anche lui provava la mia stessa inquietudine? Mi voltai impercettibilmente verso la sua direzione, mentre i commensali passavano davanti ai miei occhi. Sapere di non essere il solo spettatore esterno, devo ammettere che mi confortava. Sapere che Hypnos condivideva con me quella situazione paradossale, mi rendeva meno nervoso e più capace d’autocontrollo.
Vidi la mia antitesi argentata catturata da quel singolare spettacolo: scrutava minuziosamente ogni persona che passava al nostro fianco, seguendola con lo sguardo, finché non avanzava troppo in avanti, per poi rivolgere l'attenzione all'ospite successivo.
Infine entrarono tutti. Quattordici ospiti, sette uomini e sette donne. O almeno così apparivano dagli abiti e dalle maschere che indossavano. Abiti sontuosi ed eleganti, coloratissimi, alcuni colmi di pizzi e decorazioni, altri più semplici e tutti accompagnati da un pesante mantello. Si disposero ognuno dietro di una delle sedie della tavolata, a pochi passi da esse, rimanendo in piedi. Sembravano proprio avere ricevuto dei precisi ordini a proposito. Rimasero ancora in silenzio ed immobili. Le uniche forme che si muovevano erano le loro ombre che ondeggiavano sotto la luce smossa emanata dalle candele.
Intanto l'aria della stanza si faceva sempre più torbida, non so se per la combustione delle fiamme o per la nauseante sensazione che mi procurava stare in quella sala, con tutte quelle maschere anonime più simili ad anime vaganti che a persone in carne ed ossa.
Erano maschere di diversa forma, decorazione e colore, tutte bellissime e particolari, degne ognuna di una qualche osservazione o riflessione. Alcune ricoprivano l'intero viso, altre erano a mezzo volto e lasciavano scoperte le labbra o erano accompagnate da un velo di seta che le celasse. Ricordo una maschera femminile di metallo con un ampio ornamento, che partiva dalla guancia sinistra fino ad espandersi per tutta la testa, come se fosse una fiamma; oppure un'altra, maschile e totalmente bianca, priva di dettagli, indossata su un viso incorniciato da un velo rosso, protetto da un copricapo cilindrico e decorato, dal quale traboccava un lunghissimo telo bianco candido, usato come un mantello dal suo indossatore.
Ero catturato da tutto quel fasto, da quei colori e abiti egregiamente ostentati. Così immobili, in posa statuaria, sembravano dei manichini privi di vita e quella sensazione fece accelerare per pochi secondi il mio battito cardiaco. Ma prima di riuscire a chiedermi che cosa stavano aspettando, vidi che la piccola porta che si trovava dalla parte opposta della sala si spalancò, mostrando tutta la maestosità del padrone di casa.
Mio zio avanzò lentamente, con passo regale e distinto, avvolto nella sua imponente toga nera, accompagnata da un pesante mantello in lana scura che copriva tutta la parte destra del suo corpo e dal cappello a tre punte che si poggiava elegante sul suo viso. Il tutto sempre e testardamente nero. Deglutì, sotto la maschera, di fronte a quella visione lugubre ed affascinante nello stesso tempo. Sentivo che il sangue zampillava nelle mie vene, mentre ero rapito dalla solennità di quella figura. Sul viso aveva una maschera che presentava due fori ellittici per gli occhi, singolare per lo spiovente che partiva da sotto il naso per sporgersi poi come un becco, particolare che gli avrebbe permesso di mangiare senza doversela sfilare.
'È la bauta, caro nipote. Una maschera che originariamente, nell’antica società veneziana, fra il 1600 e il 1700 era nera, come lo erano gli abiti di chi la indossava. Veniva usata sia durante il carnevale sia nella vita quotidiana. Chiunque poteva indossare la bauta e il suo vestito nero. Chiunque, senza distinzioni di sesso...nessuna differenza...'
'Tutti simili e tutti perfettamente confondibili, quindi...'
'Vedo che inizi a capire, Hana. Maschere e vestiti neri, tutti uguali. Con essa si nascondeva, si annullava l'identità e si creava confusione. In questo modo si sfuggiva agli inquisitori...e ci si sentiva più liberi...'
La bauta di mio zio non era nera, ma di un color oro, più chiaro e lucente della mia. L'oscurità dei suoi abiti si scontrava con quella maschera sfavillante sotto la luce delle candele e delle lampade ad olio. Tutto il viso, compreso il contorno degli occhi, era ornato da brillantini bianchi che protendevano verso il brillante al centro della fronte, accompagnando tutta la superficie con linee arabesche in rilievo. Sorrisi fra me pensando al discorso di mio zio. Con quella maschera si era reso in ogni modo diverso, regale, come per voler ricordare di essere uno fra tanti, è vero, ma comunque sempre il padrone del suo stesso gioco.
Tipicamente nel suo stile.
“Benvenuti alla mia umile cena, graditissimi ospiti...”
Cominciò mio zio, posizionandosi a capo tavola. Mi stupii di come quella maschera aveva modificato il tono della sua voce, rendendolo più grave e profondo. Il suo discorso, che riecheggiò fra lo spazio vuoto ed immenso di quel salone, si tinse di toni solenni, di parole ricercate e studiate, assumendo a tratti l'aspetto di una poesia lirica, a tratti quello di un lamento funebre.
Ringraziò gli invitati, uno ad uno, chiamandoli con i nomi che avevano scelto per quell'occasione, esprimendosi sul senso di quegli incontri e sull'importanza d’essere se stessi indossando una maschera. Sbuffai, pensando che avevo già sentito le sue assurde spiegazioni e maledicendomi ancora per aver accettato quel lavoro. A quell'ora potevo essere con Yohei e gli altri ragazzi a giocare al pachinko. Almeno era qualcosa di giapponese, nulla a che vedere con quella sceneggiata occidentale.
Ma improvvisamente, mentre mi assentavo con la fantasia dei miei pensieri, qualcosa nelle parole di mio zio risvegliò la mia attenzione. Qualcosa che forse mi era sfuggito. O di cui lui non mi aveva parlato. Ogni serata avrebbe avuto un argomento principale, un argomento di cui parlare, su cui esprimere le proprie considerazioni ed esperienze. Rivelando sentimenti nascosti, cose mai dette, per paura o per morale.
“E cosa c'è di più personale, ma anche di più abietto dell'ira? Ahhh, l'ira, miei cari ospiti! Qualcuno ha affermato che l'ira è qualcos'altro da noi, una forza oscura che si può impossessare di noi, facendoci perdere la capacità di controllo e l'uso della ragione. L'ira è un abito, signori! Un abito che c’inclina in una certa direzione, l'abito del male, come lo chiamava il Grande Aristotele! Un abito come quello che indossiamo. E che spesso siamo costretti ad ignorare, perché essa è stata relegata ad essere un peccato capitale, ammonito, maledetto e quindi bandita dalla nostra esistenza. Ma questo non è impedirci d’essere noi stessi? Impedirci di riversare le nostre frustrazioni all'esterno? No, signori! La società di oggi lo impedisce! Dobbiamo essere retti, equilibrati, calmi. Il nostro vero io è relegato dentro di noi, non si può, non lo si deve mostrare. Muore dentro di noi.”
Il tono della voce di mio zio si fece più acceso.
“Ebbene, io voglio che qui, stasera, voi tutti possiate esprimervi serenamente. Raccontiamo l'ira che abbiamo dentro di noi, raccontiamo di come siamo costretti a ricacciarla indietro in nome della morale e di questa società...”
Infine fece un grosso respiro e tornò al suo atteggiamento calmo e ironico.
“…con questo è tutto, cari ospiti. Nell’attesa della cena, vi do il benvenuto nel mio personalissimo Quinto Cerchio*!”
Un inchino, quello di mio zio. Un intenso applauso quello che seguì.
Ed io sconvolto da tutta quella follia. Ero talmente scioccato da quelle parole, da non accorgermi di aver smesso di respirare gli ultimi istanti in cui lui stava parlando.
“Hey, Thanatos, mi senti?” Udì la voce bassa di Hypnos poco distante da me, scocciata, come se mi avesse chiamato non so quante volte. “Sì?” Mi voltai, sussurrando. Eravamo ancora in piedi ai lati della porta. “Ti sei imbambolato? Dobbiamo andare a prendere le portate!”
Il tono seccato e scontroso di Hypnos m’innervosì parecchio. Avrei voluto controbattere, ma in quella situazione non sarebbe stato il caso. Anzi, almeno, grazie a lui, ero tornato in me. Ci congedammo silenziosamente dalla sala e cominciammo a percorrere il corridoio verso le cucine.
“Mio z...il padrone di casa è proprio fuori di testa!” Sbottai durante il tragitto, forse per rivelare davvero le mie perplessità su quello che avevo sentito, o forse solamente per riempire il vuoto che mi divorava, mentre attraversavamo quel silenzioso corridoio. Eravamo sue maschere anonime e quel pensiero a tratti mi turbava. Era come se cercassi un continuo appiglio alla realtà con le mie parole.
“L'hai sentito il discorso? Fare emergere l'ira? Ma cos'è, una nuova terapia di gruppo?” Sbraitai, buttando lì quella specie di battuta che scivolò senza indugi sul mio collega. “Ti stai facendo coinvolgere troppo...” Disse Hypnos, con voce atona, ma che credo nascondesse un sottile rimprovero nei miei confronti. “Che diavolo dici? Io non mi sto facendo...” “Siamo arrivati...” M’ignorò lui, fermandosi davanti ad una porta dalla quale provenivano diversi e mescolati profumi deliziosi.
Mi stupii di come Hypnos trovò subito quella stanza, con facilità. Mio zio l’ultima volta me l’aveva indicata, ma probabilmente se fossi stato da solo mi sarei perso in quel labirinto di corridoi tutti uguali. Non capivo se l’atteggiamento del mio collega era dovuto ad un comportamento meccanico o ad un forzato tentativo di mantenere la calma. Mi riusciva difficile pensare che la sua fosse un’autentica naturalezza.
Entrammo in una piccola stanza semi spoglia, al centro della quale stava un tavolo tondo di legno scuro, su cui erano poggiati degli enormi vassoi ovali ed argentati colmi dei più svariati antipasti, preparati e curati nei minimi dettagli, nelle decorazioni, creando delle perfette combinazioni di forme e colori. Così belli da guardare che era quasi un peccato doverli servire per la cena. Inoltre c’erano anche alcune ciotole di fine porcellana, che contenevano stuzzichini come olive verdi e nere.
“Ma chi li ha…” M’interruppi, accorgendomi solo in quel momento del rumore di stoviglie e passi frettolosi che si confondevano aldilà di un’altra piccola porta che divideva la parete di fronte a me. C’era la cucina oltre quella soglia. E c’erano delle persone che ci stavano lavorando. Mi chiesi se anche loro indossassero delle maschere e, ancora una volta, il pensiero di non essere solo dentro quella villa mi trasmise conforto, nonostante, nello stesso tempo, provavo come una sorta di vuoto e distacco da quella realtà. Eravamo tutte maschere, maschere che si occupavano dei propri compiti con dedizione, ma era come se ognuna lavorasse in una specie di realtà parallela, senza entrare in contatto con le altre. Si svolgevano i compiti per gli altri, è vero, ma in una sorta di reciproca indifferenza.
“Allora ti vuoi dare una mossa o rimani lì imbambolato ancora per molto?” Hypnos mi riprese, con tono molto più infastidito di quello usato pochi minuti prima. “Insomma, tu! Ma hai sempre qualcosa da dire! Perché non fai il tuo lavoro e mi lasci in pace?” Risposi, davvero irritato dai suoi modi da signorino perfetto. “Perché questo lavoro dobbiamo farlo in due e se non correggo i tuoi modi rischi d’intralciarmi, scemo!” Ribatté, stavolta annoiato. “Scemo a chi!” Mi gettai su di lui prendendolo alla collottola con rabbia. “ Senti maledetto baka k…” La voce mi morì in gola. “Hn? Vuoi fare a botte?” Domandò lui, per nulla intimorito. Ma non lo ascoltai.
Lo stavo per chiamare ‘kitsune’, come facevo con Rukawa. Quel ragazzo era riuscito a suscitare in me le stesse reazioni che avevo con lo scaltro volpino. Certo, i loro modi si somigliavano, ma sicuramente Kaede era molto meglio di quel pallone gonfiato con una maschera argentata sul volto e con gli occhi blu cobalto, nei quali ancora una volta mi stavo perdendo. Allentai la presa, sbuffando parole confuse contro di lui.
“Non abbiamo tempo per una rissa…” Dissi infine, dirigendomi verso i vassoi, pronto a caricarli sulle braccia. Potevo perdonarlo per quella volta, pensai. In fondo mi aveva ricordato la mia kitsune. Chissà cosa stava combinando quel baka in quel momento. Probabilmente si stava allenando o si era addormentato da qualche parte. Perso nei miei pensieri sul numero undici, rischiai di fare cadere un vassoio dal mio braccio, che afferrai all’istante.
“Vedi di non farci la festa!” Mi sgridò con ironia Hypnos.
Ok, dissi fra me, ritiro tutto quello che ho pensato. Volevo tirargli una sonora testata, così magari la smetteva di punzecchiarmi per ogni cosa, ma poi pensai alla mia maschera. Avrei rischiato di romperla. No, non era il caso. Preferii allora ridimensionarmi e agire con le parole.
“Quando tutto questo finisce, giuro che ti ammazzo!” Ringhiai. Lo sentii ridacchiare. “Vedremo!”
Alla fine riuscii a sistemare vassoi e ciotole sulle mie braccia, tenendole in perfetto equilibrio. Ero soddisfatto! In fondo era da tempo che facevo il cameriere qua e là e quindi non mi risultava più un’impresa difficile.
“Ah, ah, ah! Sono un vero ten…un vero mago nelle portate!” Mi corressi. Meglio non rivelare di essere il Tensai. Mi avrebbe scoperto subito, dato che ero l’unico ed immenso tensai, pensai scherzoso, fra me. Ma Hypnos non mi aveva ascoltato. Lo vidi in difficoltà con l’ultimo vassoio e una delle ciotole bianche. Non era quella la posizione adatta, così le avrebbe fatte davvero cadere! Potevo prendermi la mia rivincita, era il momento adatto, ma non lo feci. Non so il motivo, ma sta di fatto che mi avvicinai a lui.
“Aspetta…” Gli dissi gentile, poggiando nuovamente i miei pesi sul tavolo in modo da avere le mani libere. “Ti aiuto io…” “Ma… tu?” Anche se non potevo vederlo in viso, compresi che si stupì per il mio gesto. “Tranquillo, è facile, ci metterò un attimo.” Lo rassicurai, mentre lo liberavo dai vassoi percolanti.
“Ecco…fai forza così, metti questo qui, sposta quello più indietro. Ecco fatto, equilibrio perfetto!” Esclamai soddisfatto, vedendo che Hypnos teneva perfettamente i vassoi senza pericolo. “Visto? È semplice!”
Non lo sentii parlare. Udivo solo il suo respiro amplificato dall’involucro della maschera.
“Tutto bene?” Gli chiesi incerto. “…grazie…” Disse, senza aggiungere nulla di più.
“Vedi? Non sono poi una frana in tutto!” Scherzai, come per dimostrargli qualcosa. Come se non avessi aspettato altro che di pronunciare quelle parole, per ottenere una rivincita. Mi resi conto che quelle erano le parole che spesso avrei voluto dire a Kaede.
E che invece emersero lì e morirono lì, in quella stanza.
Nelle due ore successive io e Hypnos servimmo tutte le portate della cena, dagli antipasti al dolce finale, una specie di crostata di colore rosso e dall’intenso profumo; credo fosse intrisa di liquore cherry. Scelta azzeccata, pensai, per quella cena così sontuosa, ma non eccessivamente pesante, fatta soprattutto di piatti a base di pesce. Ottimo per rimanere leggeri durante una serata dalla quale ci si poteva aspettare di tutto. Era strano vedere quelle bambole nutrirsi; alcuni invitati per farlo, dovevano sollevare leggermente la propria maschera, il tanto giusto per permettere alla forchetta di raggiungere le labbra.
La cosa che più mi sorprese era l’atteggiamento degli invitati verso me e Hypnos. Come passavamo fra loro, si sporgevano leggermente per permetterci di servire, senza mai rivolgerci uno sguardo o una parola. ‘È la regola’, ricordai. Eppure era così strano. Quell’atteggiamento mi creava una singolare sensazione d’estraniazione. Come se fossi lo spettatore esterno e neutrale di uno spettacolo; anche se parlare di neutrale sarebbe eccessivo. Ero lo spirito invisibile che errava fra quei fantocci, eppure quelle maschere, immutabili nella loro espressione, non facevano che turbarmi, invadendo la mia testa insieme al rumore continuo delle posate sui piatti, del tintinnio dei calici nei quali veniva di continuo versato un corposo vino rosso scarlatto.
E poi i loro discorsi sull’argomento della serata: l’ira. Non credevo che avrebbe avuto tanto consenso, invece a poco a poco quasi tutti gli invitati cominciarono a raccontare le loro personalissime vicende. Quante volte ognuno di loro avrebbe voluto lasciarsi possedere dall’ira, permettere a quel flusso d’impulsi energici e impetuosi di eruttare, come disse la ghignante maschera del jolly. E quante volte sono stati costretti a rigettare indietro quella energia, tenendosela dentro, permettendogli di dilaniare le loro viscere, per rispetto verso la morale, verso l’immagine che si erano faticosamente costruiti nella loro vita sociale. ‘Negazione silenziosa delle proprie vere emozioni’, la chiamò la più elegante maschera femminile del gruppo. Mi impressionò il suo racconto, in cui rivelò di aver spesso desiderato di passare un coltello alla gola del padrone dell’azienda dove lavorava, per averla più volte offesa ed incaricata di mansioni inutili, soprattutto quando lei rifiutava alcune sue velate attenzioni.
“Devo sempre ingoiare la rabbia e sorridere, come la maschera che ho ora in volto. Con lui ho sempre la stessa espressione. Ah, quante volte ho sognato e desiderato farlo a pezzi con le mie stesse mani!” Aveva esclamato la donna con un certo gusto nel pronunciare quella parole.
All’inizio non avrei voluto dare peso a quei discorsi, anzi, ero convinto che non mi avrebbero toccato minimamente. Invece all’improvviso e senza rendermene conto, senza che intervenisse la mia volontà, quelle parole mi catapultarono indietro nel tempo, riportandomi alla mente quel pomeriggio di tre anni prima.
Potevo sentire ancora il terrore provato nel vedere mio padre riverso a terra, di fronte all’ingresso della nostra casa. Mi sembrò di vedermi lì, ancora con gli occhi sbarrati e irrigidito da quella visione. Con quel poco di sangue freddo che mi era rimasto. Ero corso subito fuori, per andare all’ambulatorio medico non molto lontano. Ma non percorsi che pochi metri, quando quei teppisti mi fermarono. Teppisti che avevo sfidato e sconfitto quella stessa mattina. E che si presentarono con i rinforzi. A nulla valsero le mie suppliche. Le prime nella mia esistenza. E le ultime. Mio padre stava morendo, ma a loro la cosa non importò. Fui picchiato nella maniera più brutale, senza che riuscissi a difendermi, troppo sconvolto per quello che avevo appena visto.
“Thanatos…”
Potevo ancora sentirle le urla di dolore di mia madre, quando ci diedero la notizia della morte di papà. Dalle mie labbra non uscirono suoni, ma il mio petto stava per esplodere.
“Thanatos…”
Odio. Rancore. Vendetta. Questi sentimenti si confusero e mescolarono in un’amara soluzione, che ribolliva nel mio sangue, che pulsava nelle mie tempie. Avrei voluto abbandonare l’ospedale in quello stesso momento e correre dagli artefici del nostro dolore. Trovarli, aggredirli. E forse…ucciderli.
“Thanatos! Mantieni la calma!”
Sussultai, nel sentire la voce di Hypnos chiamarmi in maniera tanto grave. Fu come tornare da un’altra dimensione. Ancora in stato confusionale, mi resi conto di essere in piedi vicino alla porta, alla cena di mio zio. Avevo le mani sudate, strette in un pugno nervoso. Il mio collo si era irrigidito, gonfiando le sue vene. L’aria all’interno della maschera si era fatta più pesante, per i respiri affannati che avevo liberato, e bruciava la mia gola, come se stessi inalando del vapore caustico.
La voce di Hypnos, ancora una volta, mi aveva risvegliato.
“…noi ne siamo fuori, ricordi?” Aggiunse, continuando a guardare dritto di fronte a sé. Sembrò ammonirmi e confortarmi allo stesso tempo.
Al suono delle sue parole cominciai ad avvertire il mio stomaco, fino a quel momento teso e compresso, rilassarsi e dilatarsi. Annuii meccanico, ancora sconvolto da quello che mi era appena successo.
Mi ero lasciato coinvolgere in quello spettacolo diabolico. Come quei ragazzini che davanti ad un film o ad un videogioco non sono capaci di scindere realtà e finzione. Mi sentii mancare per pochi istanti e barcollai.
“Vieni, usciamo fuori…” Disse all’improvviso Hypnos, afferrandomi il polso destro con decisione e portandomi fuori della sala. Mi sembrò che il suo guanto bianco si fondesse con quello che indossavo anche io. Avevo le mani troppo sudate.
Il ragazzo dalla maschera argentata mi guidò in corridoio, fermandosi di fronte ad una delle piccole porte- finestre ad arco che si trovavano lungo esso. Il vetro tintinnò, quando Hypnos aprì una delle due ante trascinandomi sul piccolo balcone semicircolare, che si affacciava all’entrata della villa. Senza riuscire a formulare un qualsiasi pensiero, mi gettai sulla ringhiera di ferro battuto, afferrandola con forza, per poi sollevare leggermente la maschera dal mio viso e permettermi di respirare a pieni polmoni. Quell’aria fresca e pungente mi risanò, diminuendo i battiti agitati del mio cuore e facendo perdere colore alla pelle che sentivo bruciare sulle mie guance.
Risistemai la maschera sul viso e appoggiai le braccia sulla ringhiera, abbandonandomi sopra di essa. Osservai con cura lo zampillare dell’acqua della fontana sotto il balcone; i suoi getti, amalgamati ai raggi della luna piena, sembravano fasci di luce sfavillanti. Intanto percepivo la presenza di Hypnos in piedi, dietro di me. Non aveva ancora detto niente, non mi aveva chiesto nulla, ma aveva capito cosa mi era successo. Il suo rispettoso silenzio mi rincuorò.
“Non dovremmo stare qui…” Gli feci notare, più per cercare di dire qualcosa, che convinto delle mie parole. Avrei dovuto ringraziarlo, ma purtroppo il Tensai non è molto bravo nei discorsi complessi.
“Ne avranno ancora per una buona mezzora di là…prenderci una pausa non ci farà di certo male…” Rispose lui, noncurante, mentre si appoggiava alla ringhiera, affiancandomi, per chiudersi poi in un imperscrutabile silenzio.
Dall’inclinazione del suo volto, sembrava stesse osservando anch’egli il movimento vorticoso delle acque della fontana, ma in realtà chissà dove guardavano i suoi occhi. Mi scoprii così a scrutare ancora una volta la sua slanciata figura, il lattescente riflesso dei raggi di luna sul metallo di quella maschera alata.
Ancora una volta rapito da quella immagine surreale.
Non so bene perché gli feci quella domanda, pochi minuti dopo, ma nell’osservare il suo corpo snello, i suoi capelli neri tirati all’indietro, quelle parole affiorarono spontanee dalle mie labbra, spezzando l’atmosfera che ci avvolgeva.
“Giochi a basket?”
Le sue labbra si mossero prima del suo corpo, nascondendo un impercettibile tremore che in quel momento sfuggì alla mia attenzione.
“No!” Rispose con pronta lucidità Hypnos. “Perché me lo chiedi?” Aggiunse poco dopo.
Mi sentii in imbarazzo. Come mi era saltata in mente una domanda del genere? Dentro di me conoscevo la risposta. Certo, il ragazzo somigliava vagamente a Kaede…ma Hypnos, mi resi conto, era di certo più gentile del volpino.
“Ma, no, così. Per l’altezza…” Risposi con una scusa, accennando una risata.
“Perché, tu giochi a basket?” Controbatté Hypnos, prendendomi alla sprovvista. “Ah? Eh…bè…ogni tanto…ma nulla di che…” Non riuscii a mentire altrettanto bene, ma speravo lo stesso di non aver destato sospetti. Alla fine Hypnos non aggiunse altro.
Ed io intanto continuavo a pensare…Rukawa non era il tipo da riservare quelle gentilezze alle persone, mentre l’argentata maschera di fianco a me, nonostante gli somigliasse nei modi, era di certo più disponibile e meno irritante.
Oppure… ero io ad essere diverso. Se fossi stato l’Hanamichi che si mostra costantemente a scuola e in palestra, Hypnos sarebbe stato altrettanto gentile con me? O forse se Rukawa mi avesse conosciuto per quello che sono, probabilmente fra noi sarebbe stato tutto diverso.
Questi pensieri si mescolarono nella mia testa in quegli istanti, collegandosi a quanto accaduto in sala pochi minuti prima, portandomi infine ad esprimere, con voce seria e atona, quella confessione che forse era più rivolta verso me stesso che al mio collega.
“Vorrei poter indossare sempre questa maschera…sembra un paradosso, ma mi fa sentire veramente me stesso…”
Ridevo di me, mentre scandivo quelle parole.
“Forse lui aveva ragione. La vera maschera è quella che s’indossa ogni giorno della nostra vita. Una maschera che si è confusa con la realtà. E a me che sembrava tutto una follia…”
Ridevo, per alleggerire la dolorosa verità che si era aperta dentro il mio cuore.
“Nella vita di tutti i giorni non faccio che fingere…e nascondere chi sono veramente. E faccio conoscere agli altri solo la mia maschera.”
Nei miei ricordi, il mio atteggiamento per riuscire ad ottenere i miei famosi cinquanta rifiuti. Bè, evitai comunque di rivelare quel particolare.
Seguirono minuti di silenzio, in cui udivo solo lo scrosciare dell’acqua e il fruscio delle frasche smosse dal vento. Diedi le spalle alla ringhiera, poggiandomi con la schiena su di essa e sollevando il volto. In alto sopra di me, un immenso cielo stellato.
“Scusa se ti ho annoiato, non è da me. Ma so che parlarne con te non comporterà alcuna conseguenza, o alcun giudizio. In fondo noi non esistiamo…” Sospirai con cruda amarezza. Hypnos non disse nulla. Abbandonò la ringhiera e mi superò, avviandosi verso l’entrata.
“Le maschere sono viste solo da chi non vuole andare oltre…” Disse, scrollando le spalle, prima di rientrare nel corridoio, sorprendendomi con le sue parole.
Lasciandomi completamente muto ed attonito.
Nell’ora successiva dovevamo servire da bere in un altro salone, dove mio zio e i suoi ospiti si erano spostati per dedicarsi alle danze. Sospinto dalle concitate note di un valzer, ebbe così inizio quel vivace ballo in maschera, durante il quale le coppie di ballerini si scambiavano in continuazione, mentre gli abiti pomposi delle dame roteavano nell’aria.
I colori degli abiti e delle maschere venivano esaltati dalla luce intensa dei tre lampadari, le cui gocce di vetro sembravano riversarsi come pioggia sulla testa degli ospiti danzanti. Io e Hypnos stavamo l’uno di fronte all’altro, davanti a pareti opposte, in piedi, di fianco ad un piccolo tavolino circolare sul quale c’erano bicchieri e brocche colme di bevande che avremmo dovuto servire a chiunque si avvicinasse. Notai come il mio collega stava proprio di spalle all’enorme finestra del salone, resa ancora più maestosa dalle pesanti tende color fumo che si adagiavano sui lati. Il contrasto fra la luce bianca della luna, che si rifletteva sul vetro alle sue spalle e quella intensa della sala, dava l’impressione che la figura di Hypnos dovesse dissolversi da un momento all’altro sotto i miei occhi.
Le danze continuarono a lungo e s’interrompevano solamente quando un ospite decideva di parlare. In quell’occasione il centro della sala si liberava, permettendo alla maschera di esprimere i suoi pensieri, sempre riguardanti il famoso argomento della serata. Dopo che terminava, le danze riprendevano.
Non mi feci più coinvolgere dai loro discorsi. Grazie ad Hypnos ero riuscito a riappropriarmi della mia posizione. Noi n’eravamo fuori.
“I camerieri non si toccano, è la regola. Loro sono come delle ombre, delle parvenze onnipresenti che tengono sotto controllo tutto, ma non interagiscono.”
Erano state queste le parole di mio zio, era la regola. Ma si sa, a volte le regole spingono la persona ad infrangerle.
M’irritai subito nel notare quell’invitato con la maschera da jolly avvicinarsi ad Hypnos con fare lascivo. Non c’era bisogno di vedere il suo viso per capire le sue intenzioni. Non gli stava certo chiedendo qualcosa da bere. Anche perché non poteva chiedere, poteva solo indicare.
La musica era troppo alta, non sentivo cosa l’uomo gli stava dicendo, non sapevo se Hypnos stesse rispondendo. Sta di fatto che non appena vidi quella maschera afferrare il braccio di Hypnos e cercare con l’altra di afferrarlo per la vita, fui preso da una cieca rabbia e scattai fulmineo verso di loro.
Fu un attimo. Vidi Hypnos cercare di divincolarsi, l’uomo lo stava tirando verso di sé, io stavo per raggiungerli, ma nell’attimo prima che afferrassi la spalla di quell’infame, lui aveva già mollato la presa, lasciando che Hypnos si sbilanciasse all’indietro.
Sotto le note del valzer sentii il vetro infrangersi, trapassato dal braccio di Hypnos che aveva urtato contro di esso con forza. Una pioggia di schegge si riversò sul ragazzo, che vidi cercare di proteggersi gli occhi con l’altro braccio, mentre il suo corpo s’irrigidiva.
“Hypnos!” Gridai spaventato, scaraventando lontano da me l’uomo che tenevo bloccato, per sorreggere Hypnos che stava per perdere l’equilibrio nel tentativo di liberare il suo braccio incastrato nel vetro. La manica della giacca si strappò durante quel movimento.
Qualcuno fermò la musica, ma non me ne resi conto subito.
“Sto bene…” Disse il ragazzo con un filo di voce, allontanandosi da me e rimettendosi in piedi da solo. Mi sollevai nel sentire quelle parole, ma questo non attenuò la mia rabbia che mi portò subito dopo a cercare l’autore di quel gesto.
Mi voltai, cercandolo con lo sguardo. Ero fuori di me. Senza accorgermi che era circondato dagli altri invitati, mi gettai su di lui afferrandolo alla camicia e sollevandolo da terra.
“Io ti ammazzo!” Ringhiai furibondo, mentre lui si dimenava gridando parole confuse. Probabilmente si stava scusando, probabilmente affermava che non era sua intenzione fare tutto quel casino, forse aveva bevuto troppo, ma non volevo sentire ragioni.
“Thanatos…”
Solo la mano di mio zio che si poggiò comprensiva ma decisa sul mio braccio teso, riuscì a calmarmi.
“Qui ci pensiamo noi. Quest’uomo sarà subito allontanato dalla villa. Tu pensa a Hypnos…”
Allentai la presa liberando l’uomo, ma non afferrai subito il senso di quelle parole. Mi voltai perciò verso Hypnos e solo in quel momento notai che con una mano stava stringendo il suo braccio sinistro, troppo rigido perché andasse tutto bene. Abbassai gli occhi e vidi che il guanto della mano di quello stesso braccio stava perdendo il suo colore bianco, assorbendone uno rosa che si faceva sempre più intenso.
“Hypnos…” La mia voce tremò, Hypnos stava sanguinando. Compresi allora le parole di mio zio e mi riappropriai della ragione. “Vieni con me!” Dissi con decisione, spingendo Hypnos a seguirmi.
La stanza che mio zio mi aveva assegnato era abbastanza ampia e spaziosa. Oltre al letto a baldacchino, particolare non troppo singolare per lo stile di quella villa, c’erano due comò di legno su ognuno dei quali stava appoggiata una lampada. Furono queste ad accendersi non appena cercai l’interruttore sul muro. La finestra non era molto grande, ma si affacciava su un curatissimo giardino. Anche i colori erano perfettamente combinati. Le tende del letto e quelle della finestra davano l’impressione di essere fatte di terracotta, intrise di tonalità più scure a tratti tendenti all’arancio, a tratti al marrone chiaro. Secondo l’inclinazione della luce si riuscivano a scorgere delle sfumature rossastre.
Poggiato sulla parete stava un tavolino sferico circondato da alcune sedie con lo schienale a medaglione e la base morbida.
Su una di quelle stava seduto Hypnos, mentre io tiravo fuori dell’armadio una scatola di legno dentro la quale stavano garze e disinfettanti. Mio zio me l’aveva indicata, quando mi mostrò la stanza, dicendo che poteva sempre servirmi se per caso mi fossi ferito rompendo un bicchiere o un piatto. Mi era sembrata una buona idea, ma non potevo certo immaginare mi sarebbe servita per quello.
Fino a quel momento né io né Hypnos avevamo proferito parola, ma come appoggiai la scatola aperta sul tavolino, fu lui il primo a parlare.
“Sto bene.” Ribadì seccato.
Immaginai avesse detto così. Hypnos non era il tipo da lamentarsi o da volersi accudito da qualcuno. Perciò decisi di cercare di guadagnarmi la sua fiducia.
“Lo so.” Gli risposi altrettanto serio, cerando i suoi occhi. “Ma anche una piccola ferita può infettarsi se non la medichiamo subito. Entrare in contatto con i vestiti non gli farà di certo bene…” Solo in quel momento mi accorsi che la guancia destra della sua maschera era scheggiata.
Lui non rispose, ma dopo qualche secondo in cui sembrò valutare bene la situazione, iniziò a sfilarsi la giacca dello smoking, in silenzio. Avrei voluto aiutarlo, ma so che non me lo avrebbe permesso. Rimasi allora ad osservare quei gesti lenti ma comunque eleganti, senza perdermi alcun istante dei movimenti del suo corpo.
Lo vidi sorprendersi, nel vedere il braccio della camicia completamente sporco di sangue. Anche io mi sorpresi, nonostante lo immaginassi. In verità quello che più mi sorprendeva era l’agitazione che incontrollata cominciava a dilatarsi dentro di me, invadendo il mio stomaco, serpeggiando giù per il ventre. Non avevo ancora capito cosa mi stava succedendo.
Quando cercò di sbottonarsi la camicia, Hypnos non ci riuscì a causa dei guanti. Lo osservai ancora, mentre li sfilava con cura, attento ad evitare movimenti bruschi che potessero causargli dolore al braccio ferito. Vidi per la prima volta le sue mani nude che andavano a slacciare ogni singolo bottone, le sue dita affusolate che si perdevano fra la stoffa, scendendo sempre di più. Durante quei minuti interminabili, sentivo che il sangue nelle mie vene reagiva a quella visione, facendosi sempre più bollente. Mi morsi il labbro, quando lo sentii mugolare, mentre cercava di staccare i lembi di stoffa che si erano saldati sulla sua pelle.
La sua camicia gli scivolò lungo la schiena, offrendo ai miei occhi il suo petto scolpito e la sua pelle diafana, risaltata dalla luce delle due lampade.
Non ricordo quanti minuti passarono prima che riuscissi a tornare in me e a mettere a fuoco le ferite sul suo braccio. Anche io mi sfilai i guanti, ma non osai toccarlo.
“Sembra non ci siano residui di vetro…” Dissi, cercando di non dare ascolto ai pensieri confusi che si affacciavano nella mia testa.
“Per fortuna…” Rispose inaspettatamente Hypnos. Sorrisi fra me, capendo solo allora che era comunque preoccupato. “Stai tranquillo, sono solo dei tagli e non troppo profondi. Ora ti medico e vedrai che andrà subito meglio.” Mi sentivo di rincuorarlo. E lui mi diede corda a modo suo. “Ah…non vorrai dirmi che sei un medico nella vita reale?” Mi prese in giro.
Io liberai una risata. “Certo! Il migliore in circolazione!” Non potevo certo dirgli che con tutte le risse in cui m’imbattevo, ormai l’automedicazione era il mio pane quotidiano. “Andiamo bene. Con un medico che si chiama Thanatos allora c’è da fidarsi…” Aggiunse lui, stupendomi ancora per il suo scherzare. “Sì, sì, appunto. Fidati di me, fidati!” Lo punzecchiai sghignazzando.
L’atmosfera si era fatta più rilassata, quindi mi concentrai per la medicazione. Ma non potevo immaginare quello che sarebbe successo.
Non potevo immaginare che nel momento in cui le mie mani si sarebbero poggiate sul suo braccio, sciogliendo il loro calore sulla sua pelle fredda, il mio corpo avrebbe sussultato in quel modo. Un brivido troppo evidente per essere ignorato.
Sia il mio. Sia il suo. Entrambi i nostri corpi avevano reagito a quel tocco. Alzai tremante gli occhi incrociando i suoi.
Ricordo che nell’ultimo barlume di lucidità, udii il rotolare della boccetta di disinfettante che era caduta a terra dalle mie mani.
Poi, più nulla, al di fuori di noi due.
Con un impulso isterico spinsi Hypnos per terra che cadde con la schiena sul pavimento, trascinandomi con sé. Vidi le sue mani cercare di sbottonare in modo incontrollato la mia camicia, ma il dolore lo costrinse a bloccare il braccio ferito. Non mi preoccupai del suo lamento, ma cercai di portare a termine il lavoro che lui stesso aveva cominciato. Come se fossi in uno stato ipnotico mi liberai con pochi movimenti della giacca e della camicia, che quasi strappai, prima di lanciarla su di un lato della stanza, senza capire dove. Mentre mi spogliavo, non distoglievo il mio sguardo da Hypnos. Stare così, inginocchiato fra le sue gambe e vederlo inerme, disteso sotto di me, mi scatenava un irrefrenabile desiderio di potere. Di dominio.
E questo mi eccitò terribilmente.
Potevo sentire il respiro di Hypnos farsi più affannato, così anche il mio. Chissà se anche lui sentiva l’aria bollente dentro la maschera soffocare il suo respiro ed ustionare le sue guance. Chissà se anche lui sentiva la maschera aderire sempre di più al suo viso, mentre la sua pelle sudava copiosamente.
Non appena denudai completamente il mio petto, le mie mani si gettarono bramose su quello di Hypnos, per tastare la consistenza di quel torace scolpito. I gemiti che uscirono dalle sue labbra, quando avvitai i suoi capezzoli fra le mie dita, non facevano altro che amplificare il desiderio che avevo di lui. Era come se avessi la mente totalmente annebbiata. La sua mano sinistra frizionava con forza qualsiasi lembo della mia pelle riusciva a toccare, dalle braccia, le spalle, il petto, finché non raggiunse l’apertura delle mie gambe, scoprendo il mio sesso duro che si affacciava fra esse.
Ansimai ancora di più, quando la sua mano sfregò sulla stoffa dei pantaloni.
Senza controllare i miei movimenti, afferrai il polso di quella mano e lo portai sopra la sua testa, bloccandogli ogni movimento. Ero completamente sopra di lui.
Per un istante i nostri occhi s’incrociarono da dentro quella maschera. O forse si cercarono, per avere una conferma. Conferma dello stesso desiderio.
L’attimo successivo stavo abbassando la lampo dei suoi pantaloni ed afferrati i bordi glieli sfilai come se li stessi sradicando. Riservai lo stesso trattamento ai boxer che indossava sotto di essi, spogliandolo totalmente, così da aver finalmente tutto il suo corpo nudo asservito ai miei occhi.
Corpo perfetto e meraviglioso.
Sollevato sulle mie braccia, non mi vergognai di quegli istanti in cui mi soffermai a scrutarlo minuziosamente, perché ogni secondo che passava non faceva altro che accendere quella bramosia che impastava la mia gola e vorticava nel mio stomaco. Sete che chiedeva di essere appagata.
Ancora sopra di lui, allungai la mia mano facendola scivolare fra i nostri corpi, fino ad afferrare il suo sesso teso che strinsi con forza, cominciando a muoverlo subito con un ritmo serrato. Hypnos inarcò la schiena gettando la testa all’indietro, mentre tutti i muscoli del suo corpo rispondevano agli impulsi che venivano dal suo basso ventre.
Potevo sentire i gemiti sommessi provenire dalla sua bocca e mi piaceva immaginarlo mordersi le labbra nel tentativo di placarli.
Mentre continuavo a tormentare il suo sesso, lo sentivo gonfiarsi sempre di più, stava per raggiungere l’apice del piacere. Ma Hypnos decise di non soddisfarlo, non in quel momento. Con uno scatto di reni sollevò il suo bacino da terra afferrandomi allo stesso tempo la mano e strappandola via dal suo membro eretto. Senza dire una parola mi diede subito le spalle, poggiandosi poi sulle ginocchia e saldando i palmi della mani a terra.
Vidi i suoi fianchi protendersi verso di me. Si stava offrendo, completamente.
Non riuscii a pensare a nulla, non volli pensare a nulla. Non n’ebbi il tempo. Di riflesso abbassai con un solo colpo la cerniera dei mie pantaloni, facendoli scivolare sulle ginocchia. Poi, come se fossi dominato dagli istinti più feroci, quelli di una bestia incapace di reagire all’istinto, mi gettai sopra il corpo di Hypnos, penetrandolo con forza. Con un solo colpo, deciso e violento, fui dentro di lui. Compresso nella sua carne più viva.
Questa volta lo sentii gridare con tutto il fiato che aveva in gola. Sembrava gli si stessero lacerando i polmoni. Lo vidi poi affondare le dita sul pavimento, nel tentativo di cercare un appiglio, poi strinse i pugni in maniera nervosa e avvertii i tremori del suo corpo in preda agli spasmi.
Ancora una volta incurante dei suoi lamenti, presi a muovermi dentro di lui, intossicato da quella sensazione totalizzante che si era impadronita nel mio corpo non appena lo avevo invaso. Non riuscivo a liberarmene ed anzi, si alimentava ogni secondo di più, ogni qualvolta assestavo una spinta dentro le sue viscere, tenendo stretti i suoi fianchi fra le mani.
Hypnos non si sottrasse al mio trattamento, anche se capivo non stesse condividendo il mio stesso piacere. Forse anche questa sua scelta m’impedì di fermarmi. Lo sentivo in balia di me, posseduto dal mio corpo ed io continuavo a trarre godimento da tutto quello. Vidi il braccio di Hypnos sanguinare ancora di più per lo sforzo che stava facendo nel tenersi sollevato da terra, ma ad un certo punto la sua forza cedette protendendo il suo corpo in avanti. Prima che lui cadesse a terra, riuscì ad afferrarlo con il mio braccio, cingendogli la vita, trovando l’appoggio su quello rimasto libero.
Ed intanto continuavo a spingere, affannato, sentendo la schiena di Hypnos strofinarsi sul mio petto, facilitata nel movimento dal sudore che ormai aveva intriso ogni angolo della nostra pelle. Non so se Hypnos stesse cominciando a provare piacere, ma mi resi conto che i suoi muscoli si stavano lentamente distendendo, portandolo ad assecondare i movimenti del mio bacino.
Improvvisamente contrassi il braccio, stringendo di più Hypnos verso di me, travolto da una feroce ondata di sensazioni impazzite che mi fecero svuotare dentro di lui, senza controllo. Gridai, dilaniato da quell’ accecante orgasmo, ed anche lui gridò, venendo a sua volta.
Rimanemmo ancora alcuni istanti attaccati, nel tentativo di riprendere il fiato, ancora troppo affannato. L’aria circostante era diventata umida ed asfissiante. Respirarla diventava sempre più difficile.
Potevo sentire il mio seme caldo scivolare sulle sue cosce, così come il sangue che zampillava dalla ferita sul suo braccio. Poi un tremore, che coinvolse entrambi i nostri corpi, annientando le ultime forze. Caddi a peso morto sopra Hypnos e lui si lasciò coprire dal mio corpo.
Sentivo ancora il mio cuore battere ad un ritmo impazzito sulla sua schiena, unendosi al suo, agitato allo stesso modo, che sentivo pulsare nella sua carne.
Iniziai ad avere paura. Paura dell’attimo successivo che ci attendeva. L’istante in cui la ragione si sarebbe impossessata ancora una volta dei nostri corpi grondanti di sudore. E delle nostre menti. Riportandoci dentro ciò che era la realtà. O forse finzione.
Fine II capitolo
Note:
* Quinto cerchio: Nell’Inferno di Dante, dove sono puniti gli accidiosi e, appunto, gli iracondi.
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