Buon giorno Finalmente
è arrivato questo Hana/Ru day ( o Ru/hana), ed in occasione della festa della
mia coppia prediletta, ho preparato il primo capitolo di questa nuova ff che
credo impegnerà parecchio la mia povera testa, nonostante non sarà
lunghissima^_^
Dediche: Alla mia amica e compagna di avventure Seika, alla mia personalissima Musa Dea73, i cui pareri e scambi sono sempre costruttivissimi*_*, Alla mia dolce sorellina Ranisha
Note:
lo scritto in corsivo e fra '....' (a parte un primo pezzo iniziale) sono
dialoghi ricordi che si alternano al racconto di Hana...^__^
Carnival
Parte I
di Releuse
'Chi ti credi di essere Rukawa?'
“...la Notte, dea primigenia della mitologia greca e figlia di Caos e di Caligine, rappresentava l'oscurità terrestre...”
'Questo è stato il mio primo pensiero su di te, quando ti ho visto sulla terrazza della scuola, due anni fa.'
“Erebo, suo fratello, simboleggiava invece quella infernale...”
'Ricordo ancora il contorno del tuo viso di profilo, il vistoso ematoma che sfoggiavi con fierezza sotto l'occhio destro e la scia di sangue che dalla tempia affluiva sul tuo collo pallido. '
“...dalla loro unione incestuosa si generarono Giorno e Etere...”
'Ai tuoi piedi i corpi di quei quattro teppisti capitolati sotto i tuoi pugni; avevi lo sguardo annoiato, perché quei bastardi avevano osato disturbare il tuo sonno... eppure sembravi un guerriero trionfante dopo aver vinto una battaglia.'
“...nonché Nemesi, il Destino, la Vecchiaia e l'Inganno...”
'Una visione affascinante, dopotutto. Eppure io ti ho odiato, sin da quel giorno. Il primo istinto fu quello di provare rabbia verso di te. Eri l'idolo delle ragazzine anche allora, non ti curavi di nulla e di nessuno e mostravi interesse solo per il basket. E per te stesso.'
“Oltre a loro, Erebo e la Notte generarono altri figli...”
'Odiavo la tua superbia, il voler mettere in mostra il tuo talento, la tua testardaggine, il dover sempre sottolineare la mia incapacità. Il tuo atteggiamento ha messo a dura prova il sottoscritto, ma nonostante tutto non potrai mai essere migliore del Tensai, lo sai no? Per questo motivo ti ho insultato in tutti i modi, ci siamo picchiati non so più quante volte, ho desiderato umiliarti ogni giorno della mia esistenza...'
“...i gemelli Hypnos e Thanatos...”
'Ma c'è una cosa che non mi è chiara. Quando? Quando... sono arrivato a chiedermi quali fossero i tuoi reali pensieri? Lentamente mi sono reso conto che qualcosa è cambiato nel mio modo di osservarti. Dietro al mio ^che tiro da schifo, baka kitsune^ spesso si nasconde un ^che canestro spettacolare, Kaede^; E quando nell'ultima partita contro il Ryonan ti ho gridato ^Ti sei fatto fregare la palla come un moccioso^, in verità volevo dirti ^Non ti preoccupare, ti ha fatto una finta, andrà meglio la prossima volta^'
“Thanatos, la personificazione della morte... ”
'Quando è successo che i miei pensieri si sono trasformati in questo modo? Non lo ricordo o, forse, non me lo sono mai chiesto...'
“...essere dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo...”
'Forse è iniziato tutto, quando ho cominciato ad accorgermi che i tuoi occhi hanno un colore, blu cobalto per la precisione, e che sono gli stessi che continuo a sognare ogni notte...e a pensare ogni giorno.'
“Hypnos, dio del sonno capace di addormentare uomini e dei, aveva il compito di sopire le sofferenze del genere umano...”
'Ora ti sto osservando, mentre sei assopito sul banco, durante questa lezione della quale non ho afferrato che pochi concetti, distratto da te e dalle dita delle tue mani che a tratti si muovono, come sottoposte ad una breve ma folgorante scossa elettrica. Chissà cosa stai sognando...'
“Egli dimorava in una grotta, sulle rive del fiume Oblio...”
'Vorrei cambiare il mio atteggiamento verso di te, cominciare a conoscerti per davvero. Eppure ogni giorno continuo a comportarmi come sempre e a fare lo sbruffone, mostrandoti solo questo lato del mio carattere...Un lato che mi rende forte e che mi ha sempre protetto, ma un lato falso, talmente finto da essere capace di radicarsi nella mia esistenza, occultando la mia vera natura. Ormai questo comportamento è diventato routine, ha preso possesso della mia persona e ha impostato il nostro rapporto...'
“...ed era raffigurato nudo, con delle ali sulla testa...”
'Non pensavo che questa recita potesse divenire così reale. Mi sento come se fossi ricoperto da una corazza di ferro. Mi ci sono infilato con le mie mani ed ora non riesco più ad uscirne. Non sono più in grado di separarmi da questa maschera, perché ha finito per diventare parte di me, senza che me ne accorgessi. Ed ora mi chiedo...'
“Hypnos e Thanatos non erano delle vere divinità...ma personificazioni di comportamenti umani e proiezione delle paure degli uomini...”
'Se non fossi più io, il Sakuragi che conosci, il do'hao, Kaede, mi accetteresti?'
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“Hana...”
La luce del sole era troppo bianca quella mattina, così pallida da riflettersi sul pavimento opaco della terrazza rendendolo traslucido, costringendo i miei occhi a rimanere socchiusi per evitare di esserne abbagliati.
“Hana mi ascolti?”
“Eh? Oh, Yohei...” All'ennesimo richiamo del mio migliore amico mi risvegliai da un rigido torpore, liberandomi da quella sensazione che narcotizzava i miei sensi. “Finalmente Hanamichi! È tutta la mattina che ti vedo assente, a lezione eri completamente distratto! Le vacanze invernali cominciano domani, mi sa che tu le hai anticipate!” Mi sorrise Mito. “Eppure la lezione era interessante devo dire...io, per la prima volta dall'inizio dell'anno, sono rimasto attento tutto il tempo...” Ammise poi, quasi con imbarazzo. “Bè qualcosa l'ho recepita, dai! Eh, eh, eh, il Tensai ha ben altro cui pensare! Ci sono nuove tecniche di gioco da imparare, così quello stupido volpino capirà chi è il numero uno! Wah, wah, wah!”
Io ridevo sguaiato, cercando di tornare quello di sempre: il Sakuragi vivace, allegro e un po' casinista. Eppure, a quell'ennesima manifestazione di ostilità verso Rukawa, sentii come se la tagliente aria invernale che si preannunciava nell'aria incidesse il suo passaggio sulla mia pelle, generando su di essa un confuso dolore.
Yohei mi osservava rassegnato, ormai conosceva ogni mio atteggiamento; sapevo bene di essere un libro aperto per lui. “Sei preoccupato perché questo week end lavorerai da tuo zio?”Mi chiese tutt'ad un tratto.
Io sussultai impercettibilmente. “Bè, sì...” Ammisi distratto. “Ma dai, devi solo servire ad una cena, vedrai che andrà tutto bene!” Mi rassicurò Yohei, sapendo bene quanto me la cavassi in quel lavoro. Infatti avevo spesso lavorato in alcuni bar per racimolare qualche yen in più, utili per le uscite con gli amici e per comprarmi qualcosa di personale. Sono sempre stato così, odiavo chiedere soldi a mia madre per i divertimenti o i piccoli sfizi.
Nell'ascoltare Yohei, però, mi distraevo ulteriormente, lasciando che le sue parole scivolassero nella mia testa finendo per perdersi in qualche anfratto nascosto del mio cervello, troppo occupato da altri tipi di pensieri per dare peso a quei suoni scomposti.
“Già, devo solo servire...” Ripetei meccanico, cercando allo stesso tempo di sorridere. Sorriso altrettanto automatico. “Caspita, ti paga bene almeno?” Chiese Mito, mentre, seduto sui talloni, mi osservava curioso. Io lo guardai negli occhi, lasciando che nella mia testa affluissero i ricordi di quella sera.
“Che cosa? Cinquantamila yen a sera? Stai scherzando?!” “Assolutamente no, Hanamichi...vuoi ancora rinunciare e andare a lavorare da un'altra parte?” “Ecco, io...” “Stai tranquillo...devi solo servire, in silenzio...dovrai essere invisibile...”
“Bè, abbastanza. È un buon stipendio.” Risposi infine, scrollando le spalle. “Cavolo, allora potevi dirgli di prendere anche me!” Scherzò il mio amico.
“...sei troppo basso...” Gli feci notare serio, scatenando lo stupore nel suo sguardo. “Come?” Domandò sorpreso, prima di notare il risolino che aleggiava sulle mie labbra; Mito finse allora di caricare un pugno in direzione della mia faccia. “Va al diavolo, Hana!” Esclamò mettendosi a ridere. “Ah, ah, ah! Sei nano, Yo! Eh, eh, eh!” Lo presi in giro, anche se sapevo, a malincuore, di aver detto una mezza verità. Odiavo dover mentire al mio migliore amico e odiavo il sapere di esserci riuscito perfettamente.
“Ma perché proprio io?” “Perchè sei alto, slanciato e hai un fisico robusto...sei di bella presenza insomma. Anche questo fa parte del gioco...”
“Mah, in verità aveva bisogno solo di sue camerieri...il secondo dice che l'ha già trovato...” Spiegai infine, coprendo uno sbadiglio con la mano.
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Percorsi soprappensiero la via di casa quel tardo pomeriggio. Con le mani infilate dentro la casacca nera e le spalle chiuse e tese, cercavo un po' di tepore nel mio stesso corpo indolenzito dal freddo pungente, che aumentava ogni minuto di più. Questo perché il sole stava ormai calando. Il cielo sembrava una tavolozza di colori caldi in cui risaltavano un forte arancio e un intenso viola: due tonalità che difficilmente si sposano insieme, ma che in quel frangente stavano dando vita ad un meraviglioso acquarello.
Ma ero troppo inquieto, troppo distratto, per potermi soffermare sulla bellezza di quei colori nel cielo. Per me rappresentavano soltanto la giornata che andava via e la notte che si affacciava. Avrei voluto avere un altro giorno, uno soltanto per abituarmi meglio all'idea di quel lavoro.
“I camerieri non si toccano, è la regola. Loro sono come delle ombre, delle parvenze onnipresenti che tengono sotto controllo tutto, ma non interagiscono, tranquillo. Siete muti, silenziosi, non dovrete interagire mai con gli ospiti. Anche questo fa parte del gioco...”
“Sarà...” Sospirai scrollando le spalle. Senza accorgermi del tempo trascorso ero arrivato davanti alla mia casa. Girai più volte la chiave nella serratura, rendendomi conto che mia madre non era ancora rientrata. Chiusi la porta alle mie spalle, accesi la luce dell'ingresso e sfilai la giacca per appenderla nell'attaccapanni di fianco al portone.
In casa c'era un profondo silenzio, ma nell'aria si poteva percepire l'odore del caffè ancora caldo e vivo, che penetrava nelle narici. Caffè misto ad una fragranza di pane tostato. Sorrisi, pensando alla mattina, quando con mia madre avevamo fatto insieme la colazione prima di uscire entrambi da casa, io per andare a scuola, lei per andare al lavoro.
Improvvisamente i miei occhi si soffermarono sull'orologio appeso alla parete, unico oggetto rumoroso inghiottito dal silenzio dell'abitazione. Erano le sei in punto. Mia madre, probabilmente, sarebbe rientrata alle otto, troppo tardi per potersi incrociare. Avevo solo un'ora di tempo, perché mio zio sarebbe venuto a prendermi alle sette, senza alcun ritardo. Di questo ne ero assolutamente certo.
Infilatomi nella doccia, mi lasciai coinvolgere dai primi flutti d'acqua calda che accarezzavano il mio corpo rianimando la mia circolazione, risvegliando le mie cellule. Il respiro, affaticato dai polmoni fino a quel momento ghiacciati, cominciava a normalizzarsi. Poggiando i palmi sulle pareti e tenendo le braccia distese, mi abbandonai totalmente sotto quel getto d'acqua che avevo spinto al massimo, portandolo a battere incessante sulla mia schiena, come se volessi purificarmi da qualcosa. Qualcosa che non aveva ancora avuto inizio.
Ed intanto pensavo.
Pensavo a mio zio. Kojiro Shibata, fratello di mia madre. Lo ricordavo come un uomo molto particolare, astioso verso il conformismo, ribelle, a tratti un po' eccentrico. Eppure una persona molto acuta ed intelligente, particolarmente astuta; questo lo sapevano tutti in famiglia. E nessuno si fidava di lui, perché era un falso, dicevano. Ma io sapevo bene che il motivo che portò i familiari ad allontanarlo era un altro. La sua vita dissoluta, il suo rifiuto per le regole e la morale, che loro non seppero mai accettare. Mio zio non si era mai sposato, ma tutti sapevano che le donne non gli mancavano. C'era chi sottolineava neppure gli uomini, con sarcasmo. Troppo diverso Kojiro per essere accettato, troppo diverso da loro.
Diverso dalla vera e sola massa informe e falsa appartenente alla famiglia.
Eppure l'unico veramente sincero. Veramente se stesso. Solo quando morì mio padre me ne resi conto. Tutti i famigliari, da parte di entrambi i miei genitori, parteciparono al funerale. Lacrime, pianti, parole in onore del defunto, ma, appunto, solo parole. Poi più nulla. Nessuno si curò della mamma, si preoccupò di lei che era rimasta sola, disperata perché priva di un lavoro, abbandonata al terrore del dolore che la stava divorando. Solo sorrisi ipocriti quelli che avevamo visto fino a quel momento. Menzogne nascoste dietro una maschera sempre sorridente e gentile, capace solo di dare giudizi verso gli altri e mascherare il proprio sè. Solo lui si fece avanti, Kojiro. L'uomo bandito dai fratelli, l'uomo che viveva seguendo le sue sole regole, il demone della famiglia, come l'avevo più volte sentito chiamare dai fratelli stessi. Mio zio fu l'unico a stare vicino a me e alla mamma, aiutandoci economicamente, aiutando la sorella a trovare un lavoro, senza chiedere nulla in cambio. La sua era una figura sempre presente, silenziosa e colma di rispetto verso il nostro dolore, mai invadente. Ci aveva sostenuti ed incoraggiati. Non potrò mai scordare le parole di conforto che ci sussurrava con pazienza e fermezza, anche quando avevo quegli scatti d'ira, divorato dai sensi di colpa per aver in qualche modo causato la morte di mio padre. Mio zio mi stette vicino e io non l'avrei mai dimenticato.
Avvolto solo da un asciugamani intorno alla vita, entrai nella mia stanza, cercando conforto in quell'ambiente conosciuto, distraendomi per un attimo di fronte al disordine che la governava. Titubante aprii un anta dell'armadio in legno, piegandomi sulle ginocchia per prendere fra le mani una lucida scatola nera. Aspettai qualche secondo, col cuore in gola, prima di rialzarmi e poggiarla sul letto. Periodo durante il quale meditai sulla possibilità di mandare tutto all'aria e mettermi semplicemente a dormire sul letto, dimenticandomi del resto.
Ma fu solo un pensiero fugace a seguito del quale aprii la scatola, sollevando il contenuto per tutta la sua lunghezza: uno smoking perfettamente nero, con un fazzoletto color vino che fuoriusciva dal taschino destro, tonalità identica al papillon e alla fascia girovita. Mi fece uno strano effetto averlo fra le mani, averlo davanti agli occhi.
Mi sembrava quasi una presenza altra da me. Come se fosse vivo.
Passai la stoffa fra le dita, rendendomi conto che l'abito doveva essere fatto di seta pregiata, data la sua morbidezza. Con un lento movimento che riassumeva in pochi gesti quella folle attesa, mi liberai dell'asciugamano che avvolgeva la vita, mostrandomi completamente nudo di fronte allo specchio dell'armadio, che sembrava studiarmi minuziosamente. Assorto, guardai dentro quel riflesso per pochi attimi, poi, lentamente e quasi con il timore di spostare l'aria che mi circondava, mi vestii. Ed indossai quell'abito. Indossai i guanti bianchi che lo accompagnavano.
Ed ebbi come l'impressione di indossare una seconda pelle: era già parte di me.
“Non capisco il senso di tutto questo, zio...” “Hana, la finzione purtroppo fa parte della vita di tutti i giorni. È radicata ormai e spesso non ce accorgiamo neanche, Perché non possiamo più farne a meno, è parte di noi. Puoi chiedere a chiunque e chiunque...ti dirà che non è vero, ovvio. Eppure ogni giorno le persone indossano sorrisi, indossano espressioni, indossano anche i sentimenti a seconda della situazione che devono affrontare. Donne e uomini che fingono di amarsi, di amare il proprio lavoro, di essere soddisfatti della propria vita. E che mentono, inesorabilmente. Persone che mostrano una granitica moralità, che fanno sfoggio dei propri valori, che non farebbero o direbbero mai qualcosa che potrebbe intaccare l'immagine che si sono così faticosamente costruiti. Ma cosa vogliono veramente? Noi siamo la menzogna che ogni giorno costruiamo, caro nipote...”
Mi sentii mancare l'aria nel ripensare a quel discorso fatto con mio zio, sentivo le pareti dello stomaco accartocciarsi e scricchiolare come sottile carta d'alluminio. Poi, però, un sorriso beffardo lentamente si dipinse sul mio viso, ricordandomi di come conoscessi bene quella situazione. Comportarsi da idiota e fare il gradasso era un buon modo per essere scaricato dalle ragazze, no? Per tenerle lontane. In fondo andavo fiero di quei cinquanta rifiuti, di quei continui insuccessi con il genere femminile. Se anche una, una sola di quelle ragazze avesse accettato la mia corte, per me sarebbe stata finita.
La mia maschera sarebbe caduta.
Allacciai i bottoni della camicia con eccessiva lentezza, come se volessi perdere tempo, ma alla fine anche l'ultimo si fissò al suo posto e fui costretto a voltarmi e a guardarmi in quello specchio, come se una voce impaziente mi chiamasse con false lusinghe. Pensai che quell'abito mi rendeva diverso dal solito, dandomi un tocco particolare e per un attimo mi inorgoglì assaporando quel fascino. Osservai a lungo il mio viso, come se lo stessi studiando. Avvicinai la mano al mento, con movimento incerto, sfiorandone il contorno, verificandone l'esistenza.
Come se avessi il timore di dimenticarlo.
“Non sappiamo più chi siamo, questa è la realtà, Hanamichi. Non voglio giudicare nessuno, ma solo permettere alle persone di mostrarsi per quelle che sono per una volta nella vita. Forse...”
Infine mi liberai dalla prigionia di quell'immagine, sfilando un'altra scatola nera dal cassetto alla base dell'armadio: una valigetta. Mi fermai ancora una volta, esitando. Intanto aldilà della finestra il cielo si era fatto denso e scuro ed anche la luna piena che si affacciava su quel vetro sembrava aspettare ansiosa la mia prossima mossa, cercando di illuminare con la sua luce l'opacità della mia anima.
“...l'unico modo per essere davvero se stessi è indossare una vera maschera...e cominciare a fare parte del gioco...”
Un 'clack' e le due chiusure in ferro della scatola furono allentate, permettendomi di aprire quella scatola e tenere fra le mani ciò che custodiva.
Una maschera. Una splendida maschera, color oro, di una lucentezza setosa, con le labbra rubine un poco sporgenti, ornate nel contorno da piccoli granelli dorati e brillanti. Mi eccitò averla nuovamente fra le mani. Un'emozione ambigua, cupa, indecifrabile. Un paio d’ali di farfalla erano poggiate sul naso, pronte a decorare gli occhi con le loro linee eleganti e sinuose che si aprivano al di fuori del viso, qua e là costellate da minuscole gemme lucide: sembrava una maschera poggiata su un'altra maschera. Sulla fronte ancora un ornamento, una pietra ambrata dalla quale partivano due piccole antenne incurvate che seguivano il movimento delle ali. Un cordoncino rosso carminio contornava infine tutta la maschera, finendo per scivolare su due lati grazie a dei pendenti dorati dentro i quali era infilato e oltre i quali fuoriusciva sfilacciato. Cucito sul cordoncino vi era un velo di raso nero, dettaglio aggiunto successivamente per coprire i miei capelli rossi, troppo particolari per passare inosservati.
Conscio di quello che sarebbe accaduto di lì a poco, ricordai ancora il sorriso di mio zio, quando scelsi quella maschera fra tutte le altre che mi aveva mostrato. Sembrò un sorriso di soddisfazione, come se avesse intuito la mia scelta. Forse mio zio mi conosceva più di quanto potessi immaginare.
Un clacson sotto la finestra portò la mia attenzione all'orologio poggiato sul comodino. Erano le sette in punto. Un magma di emozioni fuse cominciò ad agitarsi dentro il petto, rendendolo incandescente. Preso da una foga improvvisa chiusi la valigetta, l'afferrai e mi alzai di scatto portandomi in pochi secondi fuori dalla porta, giù per le scale, fuori dalla mia casa.
“Voi non sarete più...voi stessi. Nulla della vostra vita reale dovrà trapelare, ricordalo. Non dovrai mai parlare con nessun invitato, neppure se loro ti rivolgeranno la parola. Potrai solo interagire con la maschera che serve insieme a te. Ma anche in quel caso non dovrai dare alcuna informazione che possa portare a te...questa è una regola.” “Stai certo che non accadrà mai, figurati se voglio rivelare chi sono...” “Non puoi mai dirlo...” “Eh?”
Ad aspettarmi davanti alla porta di casa c'era un elegante Mercedes nero, che si confondeva minaccioso nell'oscurità della notte, sancendo la sua presenza con i fari intensi che s'impadronivano della strada di fronte ad essi. Scosso da brividi di tensione, aprii lo sportello posteriore e presi posto su uno dei sedili, in silenzio, dando un'occhiata fugace alla persona alla guida. C'eravamo solo noi due nel velivolo. Io e mio zio. “Sei pronto?” Mi chiese lui, con una sfumatura tagliente nella voce. Feci un profondo respiro che si perse fra il fragore della messa in moto. “Sì!” Risposi infine.
E l'auto partì silenziosa inghiottita dalle tenebre.
Durante il tragitto rimasi in silenzio, così come mio zio. All'interno del velivolo si poteva percepire solo il sibilo del motore e l'odore un poco nauseabondo provocato dai sedili in pelle e dal carburante; fuori solo il ritmico susseguirsi di abitazioni, di finestre illuminate e lampioni che, osservati in movimento, sembravano lunghe scie di luci artificiali. Un 'ora dopo il Mercedes si lasciava alle spalle la città per addentrarsi in una strada di campagna un poco buia, che sfociava davanti ad un enorme cancello in ferro battuto le cui sbarre terminavano in alto con punte aguzze, unite una all'altra da morbide curve in ferro che ne attenuavano l'aspetto minaccioso. Oltre il cancello vi era un lungo viale alberato: piante altissime, che suscitavano inquietudine per la loro immensa maestosità, per la devozione che dimostravano verso quel cielo notturno.
Ed eccola infine apparire all'orizzonte la villa di mio zio, quella preziosa dimora di cui andava tanto fiero, il mostro che quella sera ci avrebbe inghiottiti relegandoci in un mondo parallelo, una dimensione in cui verità e menzogna si sarebbero confuse e sciolte l'una nell'altra. Avevo già avuto modo di visitare quella villa, lo stesso giorno in cui mio zio mi chiese di lavorare per lui, in modo da prendere confidenza con l'ambiente ed essere pronto per l'attesa serata.
L'architettura era ispirata alle regge occidentali, quelle che avevo avuto modo di ammirare in qualche libro di storia o d'arte e che in qualche modo mi ricordavano un periodo chiamato Rinascimento. La facciata di davanti presentava numerose finestre, alcune con ampie vetrate, dalle quali si potevano scorgere delle fonti luminose: nell'osservarle riconobbi che non doveva essere la luce elettrica, il colore era troppo vivace e caldo, ma probabilmente si trattava di lingue di fuoco e di candele. Il tetto era invece ornato nei vari angoli da eleganti statue bianche, raffiguranti bellissime figure femminili ed esseri angelici disegnati in pose plastiche.
Rimasi affascinato nell'averla davanti agli occhi, come le prima volta. Non sapevo come l'avesse comprata, né se fosse il dono di qualche amante segreta. Sinceramente, non mi interessava.
Ero perso nell'osservare lo zampillare dell'acqua che fuoriusciva dall'ampia fontana di fronte all'entrata, quando mio zio fermò la macchina per voltarsi poi nella mia direzione.
“Devi dirmi un nome...” Mi disse con espressione seria. “Come?” Non afferrai subito quella richiesta. “Devi dirmi come vuoi essere chiamato. Abbiamo tutti un nome fittizio qui. Nessuno deve farsi riconoscere, ricordi?” Mio zio mi guardava negli occhi cercando una risposta; quei piccoli bulbi neri capaci di penetrare nel fondo dell'anima. “Io...” Subii un attimo di confusione, non avevo pensato a quel dettaglio che, per quanto piccolo, era davvero molto importante. Pensai così velocemente a tante cose, al basket, agli amici, ai fumetti, alla lezione della mattina...
“Hy...no, com'era l'altro? Thanatos!” Masticai dapprima confusamente, cercando di riesumare quella massa di ricordi. “Sì, può andare Thanatos!” Esclamai infine, deciso. “Eh?” Per un attimo mio zio mi guardò sorpreso, ma subito dopo distese il suo viso con un sorriso compiaciuto. Notai essere la stessa espressione assunta, quando avevo scelto la maschera dorata. Il sorriso di chi ha intuito, di chi ha previsto qualcosa.
“Credo che il destino abbia voluto dare una mano a questo gioco...” Mi sembrò accennare, sussurrando, mentre osservava il manto del cielo, prima di uscire dalla macchina. Io lo seguii aprendo la portiera, ma non scesi subito. Prima, presi ancora una volta fra le mani la mia maschera, scrutandola attento, per imprimerla per bene nella mia testa; poi la portai al viso finché essa non ne prese completamente possesso.
Un istante di soffocamento. Un istante in cui il vuoto fagocitò la mia anima, spazzandola via.
Gettai all'indietro il velo nero che scivolò fino alle mie spalle, coprendo totalmente i capelli e finalmente misi i piedi per terra. Da quel momento in poi quello sarebbe stato il mio unico e visibile volto.
“Che senso ha tutto questo, non riesco a capirlo!” “Cos'è che non capisci, Hanamichi...” “Tu dici che qualunque cosa succeda fra gli ospiti, la regola è che nessuno debba mai rivelare la propria identità, mai mostrare il proprio viso...” “Esatto...” “Ma...come possono le persone stare con altre, senza conoscerne l'identità?! È una cosa assurda!” “Non è assurdo, nipote...” “Sì che lo è! Mi sembra una follia, è un'idea folle la tua!” “Ah, ah, ah! Ti posso assicurare che questo non è il primo esperimento caro nipote. È tutto più facile se non conosci l'identità dell'altro, anzi, se gli altri non conoscono la tua. Ti senti più forte, invulnerabile. E libero. È questo il gioco.” “Sì ma...” “E poi, ognuno sa il rischio che corre nel rivelarsi...” “Eh?” “Quello che succederà alla villa rimarrà nella villa e morirà nella villa. Queste persone non sapranno mai di essersi conosciute, non lo devono sapere. Perché se qualcuno venisse a conoscenza dell'identità di un ospite al quale è particolarmente interessato...bè, potrebbe essere disposto a tutto per soddisfare questo interesse...per questo è una sorta di tacito accordo, oltre che una regola.” “Inizio a capire...Sta di fatto che io non sopporterei mai l'idea di non conoscere la persona con cui interagisco! Mi salterebbero i nervi! Ho accettato solo per farti un favore, ma sappi che non condivido per niente questa pagliacciata!” “Eh, eh, eh. Va bene, Hana. Ma sappi che anche questo fa parte del gioco...”
L'andito era intriso da un intenso odore dolciastro di cannella e di tabacco, trattenuto dagli immensi arazzi che coprivano le pareti e che cominciai ad ammirare con dedizione quasi religiosa. La trama d'oro con cui erano realizzati rifletteva la luce delle candele che accompagnavano tutto il tragitto riscaldando l'ambiente, rendendolo tiepido ed accogliente. In alto vi erano enormi lampadari di ferro battuto dalla forma di un quadrato, sotto il quale pendeva una lanterna sostenuta da catene che oscillavano al loro passaggio. Continuavamo a percorrere quel corridoio che non ricordavo essere così lungo e dispersivo, o forse ero io che mi sentivo perso là dentro. Camminando sentivo il cuore pulsare nella gola, come impazzito, mentre avevo l'impressione che le gocce di sudore che scivolavano sulla mia schiena si solidificassero a contatto con l'aria, come la cera delle candele che gocciolava sui candelabri incastonati agli angoli del muro. Ed intanto rabbrividivo. A momenti mi sentivo come soffocare e non capivo se era l'ansia che a tratti sentivo serpeggiare nelle vene, o l'effetto di quella maschera che incombeva sul mio viso.
Superammo quella che ricordai essere la mia stanza, nella quale avevo già portato poche ed essenziali cose.
“Ogni ospite avrà la sua stanza. Una stanza dove ognuno potrà recarsi quando vuole...o con chi vuole...” “Quindici stanze per quindici persone...” “Esatto, nipote...” “Sei completamente pazzo...” “Può essere...”
“Eccoci in sala.” Disse finalmente Kojiro Shibata fermandosi davanti ad un'ampia porta di legno lavorato in rilievo. Questa era socchiusa, perciò mio zio dovette solamente poggiare la sua mano e dare una lieve spinta per aprire le sue ante mostrando la magnificenza di quell'immensa sala. Certo, la conoscevo già, era il salone dove si sarebbe svolta la cena e dove avrei dovuto servire. Al primo sguardo notai come la disposizione dell'illuminazione fosse stata studiata alla perfezione, giocando con l'alternanza di candelabri e antiche lampade ad olio incastonate sulle pareti. Sul soffitto anche il maestoso lampadario intriso di cristalli pendenti si univa a quella danza. Le loro ombre si proiettavano spontaneamente sulle pesanti tende di velluto viola legate ai lati di una grande vetrata, che apriva su una terrazza semicircolare. In mezzo alla sala stava invece un lungo tavolo di legno circondato da sedie dall'aspetto regale, il tutto poggiato su un pavimento pregiato, composto da alternati rombi di marmo rosa e lapislazzuli, una pietra di un bellissimo blu, che mio zio mi aveva spiegato essere molto preziosa.
Ancora notai come sulla tavola ci fossero già alcuni piatti di fine porcellana e solo nel momento che sentii il tintinnio delle posate d'argento mi resi conto della figura che stava apparecchiando, dandoci le spalle. Era un cameriere come me, pensai, notando che indossava uno smoking simile al mio. Nei suoi gesti, lenti e precisi, si leggeva una sorta di accurata dedizione, perfetta, quasi esasperante. Quella figura sembrava fare parte di tutta la scenografia, come se fosse l'attore di un vecchio e affascinante film muto. Ne rimasi catturato, ma prima che potessi elaborare un altro pensiero, questi notò la nostra presenza e si voltò.
Gelando all'istante il mio sangue. Gettandomi per pochi istanti in uno stato confusionale.
Quel ragazzo aveva più o meno la mia stessa altezza, indossava un abito identico al mio, a parte il colore del papillon, della fascia e del fazzoletto che erano di un intenso blu profondo. Ma non era solo quello, o meglio, non era quello a suscitare il mio sgomento.
Ma il suo volto.
Indossava una maschera identica alla mia ed era stata proprio quel dettaglio ad inquietarmi e turbarmi, perché era come se di fronte agli occhi si mostrasse una proiezione, come se vedessi me stesso in uno specchio invisibile.
E non un me stesso qualsiasi, ma la mia antitesi.
Quella maschera sembrava brillare di luce propria sotto i raggi della luna, mostrando lo splendore del suo colore argentato, lo sfavillare delle pietre che decoravano le sue ali.
“Thanatos, lui è il ragazzo che lavorerà con te...”Annunciò mio zio all'improvviso, spezzando quell'atmosfera surreale. “Il suo nome è Hypnos.”
Lo lessi. Lessi nell'impercettibile sussulto del corpo di quel ragazzo il mio stesso stupore, lo stesso disorientamento.
Hypnos e Thanatos. Sonno e Morte. I gemelli nati dall'unione incestuosa fra l' Erebo e la Notte. Due gemelli mitologici. Due maschere gemelle. Sembrava uno scherzo del destino che, divertito, faceva girare la ruota a suo piacimento seguendo le fila di quell'enigmatico gioco, dove noi diventavamo gli inermi burattini abbandonati nelle sue mani. Destino impaziente di giocare.
“Bene, ora vi lascio ai preparativi. Mi raccomando i candelabri sul tavolo...e al suono della campana dev'essere tutto pronto. Io vado ad indossare il mio di abito. A più tardi ragazzi...” Mio zio si congedò con un inchino privando il salone della sua presenza magnetica, abbandonandomi in un ipnotico senso di vuoto.
Mi trovai così in difficoltà, incapace di articolare qualsiasi parola, sentendomi prigioniero di un opprimente disagio, di fronte ad una sagoma della quale non conoscevo l'identità. Cominciai a maledirmi per aver accettato quell'assurdo incarico, avrei dovuto rinunciare, preferendo una bella uscita con Yohei e gli altri, o un allenamento extra per affinare il mio gioco. Quelle alternative confuse furono spazzate via in un attimo, non appena le mie orecchie udirono uno strano suono cupo ed infossato, come se provenisse da qualche luogo nascosto.
“Hey, vedi di darti una mossa! Sei arrivato tardi, fai la tua parte di lavoro!” Era la voce di Hypnos. Finalmente incontrai i suoi occhi, per la prima volta, ma non riuscii ad afferrare il loro colore, confuso dal brillante argento delle ali di farfalla che li incorniciavano. Quelle parole seppero cancellare in un istante tutte le mie remore, poiché, nell'udirle, non potei fare altro che reagire d'istinto.
“Senti, vedi di non darmi ordini deficiente! Chi ti credi di essere? Sono arrivato ora e mi metto al lavoro, non ho bisogno della tua opinione in merito!” Sbraitai irritato. Di certo il tizio che avevo di fronte non si era messo tutti i miei problemi, pensai, e allora non sarei stato da meno. Il mio orgoglio iniziava a riemergere impetuoso. Dopo quella risposta trattenei il respiro, stupito dallo strano suono che era uscito dalle mie labbra e al quale non ero abituato. Me l'aveva detto mio zio che quelle erano maschere studiate alla perfezione, fatte apposta per camuffare il timbro della voce.
“Hn, risparmia le energie per quando dovremo servire, invece di fare tutto questo chiasso.” Rispose con estrema calma Hypnos, dandomi poi le spalle per continuare con noncuranza a sistemare i calici sul tavolo.
Non so cosa mi trattenne dal saltargli addosso e riempirlo di pugni e testate. Quel tizio cominciava a darmi sui nervi, mi stava mandando in escandescenza. Proprio negativo come primo impatto. Cominciai a borbottare qualcosa infastidito ed intanto sistemavo i piatti rimanenti ai loro posti. Era un finissimo servizio di porcellana bianca con i contorni dorati, talmente belli e delicati che ebbi il timore di tenerli fra le mani. Bastò solo questo pensiero ad agitare la mia mano e rischiare di fare cadere un piatto fondo, che però riuscii ad afferrare a pochi centimetri da terra.
“Non fare danni, cretino. Se rompi il servizio lo stipendio ti servirà per ripagarlo. Se basterà.” Mi sgridò il ragazzo dal viso argentato, dopo aver assistito alla scena. “Io ti...” Ero cieco di rabbia. Afferrai Hypnos per la giacca, pronto a sferrargli un pugno, ma esitai, distratto dal colore blu dei suoi occhi a pochi centimetri dai miei. Dei bellissimi e profondi occhi blu cobalto. Simili al lapislazzuli che si alternava nelle piastrelle di quel pavimento traslucido. E quelle ciglia. Ciglia così lunghe che, nel loro movimento, sembravano lo sbattito d'ali di una farfalla. Le ali di quella maschera che indossava. Inoltre notai che non indossava un velo per coprirgli la testa, come me. Portava i capelli pettinati all’indietro, con qualche ciuffo che cadeva sui lati della maschera, capelli neri come la pece. “Vedi di calmarti...sei troppo agitato...” Mi fece notare, con estrema calma, afferrandomi il polso e liberandosi dalla sua presa.
Incredibilmente mi rilassai. Aveva ragione. Quella stupida maschera aveva ragione, me ne rendevo conto. E mi vergognai che avesse intuito quel disagio. Lo fissai ancora negli occhi, prima di riprendere a lavorare, senza più dire una parola. Ero sempre più infastidito dal comportamento di quel ragazzo. Mi irritava. Ma allo stesso modo mi tranquillizzava, perché sapevo di non essere solo dentro quella follia.
In fondo Hypnos sembrava quasi Rukawa quando mi insultava per il mio modo di giocare. Sorrisi, pensando a quell'assurdo paragone che mi era balenato in testa. Mio zio mi aveva assicurato che non conoscevo nessuno del personale. Di certo non era così incosciente da andare a chiamare un altro studente dello Shohoku. O almeno lo speravo.
Eppure quel paragone seppe confortarmi.
Nell'ora successiva io e Hypnos terminammo di allestire la tavola e la sala, cercando di creare un'armonia di luci calde in quell'ambiente già di per sé singolare; armonia che però mancò nel nostro rapporto, scandito sempre dai continui diverbi che entrambi sollevavamo, come se non potessimo farne a meno. Probabilmente entrambi avevamo bisogno di scaricare la tensione, di condividere quei minuti che ci mettevano in agitazione. Ma che Hypnos sapeva celare alla perfezione.
Alla fine fummo soddisfatti del lavoro svolto.
La tavola perfettamente apparecchiata, resa ancora più magnificente dalle calde luci arancione e rosse che tingevano il cristallo dei bicchieri e il bianco dei piatti, unite al tepore emanato da quelle fiamme e dal camino acceso, rendevano quell'atmosfera di una bellezza rara e surreale.
Sì, avevamo fatto proprio un buon lavoro. Ci scambiammo uno sguardo silenziosi, in piedi, l'uno di fronte all'altro e, anche se indossava quella maschera, sono sicuro che anche Hypnos provava il mio stesso senso di soddisfazione. Nonostante tutto sembravamo capirci. In fondo, l'avevo capito da subito, lui era orgoglioso e testardo quanto me.
Improvvisamente il suono di una campanella, metallica e ruvida. Lo sapevamo entrambi, era arrivata l'ora. L'ora in cui sarebbero entrati i quattordici invitati di quella singolare cena. Quattordici persone in maschera, ognuna delle quali non conosceva l'identità dell'altra e mai l'avrebbe conosciuta.
Respirai profondamente, giurando a me stesso che mai avrei compreso quell'assurdo gioco. Mai mi sarei lasciato coinvolgere da quella follia. Avrei fatto il mio dovere per poi dimenticare tutto, qualsiasi cosa sarebbe successa in quella casa.
Volevo rimanere fuori da quel gioco, ma non sapevo di essere già una pedina. E che presto avrei cominciato a giocare.
Thanatos e Hypnos in silenzio si avvicinarono alla porta dell'entrata posizionandosi ognuno sui due lati, in piedi, busto eretto e viso leggermente sollevato, come se fossero delle guardie di sentinella, pronte ad accogliere chiunque avrebbe varcato quella porta.
Fine prima parte
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