Questa
fic nasce da un sms inviatomi tempo fa da una persona^^ ed era già da tempo
che avevo intenzione di scriverla. me
si inchina (_ _) a chi avrà così pazienza di leggere. I
personaggi mi appartengono ^^ dedicato
a Kiaruz (che fortunatamente non la leggerà mai XD) e al suo sms
Cambiare barattolo di SaraNeikos
“Ho
Cambiato Barattolo Al Ragno, è
Solo E Immobile Non
Sa Dove Si Trova è
Triste. Vede
Tutto Intorno A Sé Ma
Sa Di Non Poterlo Mai Raggiungere. Ha
Rinunciato A Reagire E
Aspetta Che Il Tempo Passi.”
(
07/03/2002 ore 17.38 ) Si
illumina il display. Tasto,
tasto, invio. Lo
rileggo per l’ennesima volta, il mio viso immobile e gli occhi che
saettano veloci. Ho
cambiato barattolo al ragno…
Ho
sempre pensato fosse un sms davvero strano, con un significato profondo
celato dietro, e non ho mai avuto voglia di cancellarlo. A dir la verità,
non l’ho mai fatto soprattutto perché era stato lui a spedirmelo. Marco.
C’è
stato un tempo in cui lo chiamavo per nome, pronunciandolo a volte con una
dolcezza che risultava troppo zuccherosa persino a me. C’è
stato un tempo in cui il mio mondo ruotava attorno al suo, satellite in moto
continuo che esisteva solo per lui. C’è
stato un tempo. Ora non esiste più. Sciocco,
stupido, idiota. Mi
picchierei per le mie scelte passate, per non aver mai capito. Sospiro,
lasciandomi infine cadere a peso morto su questo letto. Voglio dormire e
dimenticare. Socchiudo
gli occhi, inclinando leggermente la testa verso le pareti,
alternativamente. La
mia nuova stanza è ancora spoglia, al confronto di quella precedente,
lasciata nella vecchia casa e nella vecchia città diversi mesi fa. Non ho
trovato ancora la voglia di riempirla con dei poster; ho semplicemente
lasciato il bianco puro dell’intonaco ad illuminare questa piccola camera.
Dato il mio umore nero, ho pensato servisse almeno qualcosa di splendente da
contrapporre a me. Il
cellulare è ancora vicino, troppo vicino. Impossibile non leggere
nuovamente quelle parole. Perché
continuo a farmi del male? Chiudo
gli occhi. Voglio scacciarle, farle scomparire per sempre dalla mia vista,
cancellarle dalla faccia della terra, ma so perfettamente che sarebbe
inutile: la mia mente le ricorda una ad una. Rimarranno sempre lì, in un
angolo della mia testa, pronte a saltar fuori alla prima occasione. Non
dovevo rileggerlo. Ora mi ritrovo a ripensare a tutto ciò che è stato e
che ora non è. Quando
mi arrivò il messaggio, quel giorno di diversi anni fa, pensai che Marco
fosse completamente partito. O che si divertisse a scrivere frasi del genere
senza motivo, spedendole ai suoi amici per passare un po’ il tempo. Amici.
Faccio
una smorfia a quella parola. All’epoca non eravamo che semplici compagni
di scuola, del tipo “io so che tu sei in classe con me, ma non ricordo il
tuo nome”. Una cosa del genere, insomma. Aveva il mio numero di cellulare,
come io avevo il suo, perché l’avevamo copiato da un foglio che tempo
addietro girava per la classe, con su scritto l’elenco dei nostri numeri.
Un’idea avuta dalla capoclasse di allora. Per il resto, non ci eravamo mai
parlati. Io
me ne stavo solitario nel mio angolo, ignorando gli altri e al tempo stesso
bramando la loro compagnia. Sono sempre stato un tipo contraddittorio, è
vero, con la netta impressione di non essere mai “adatto” al luogo in
cui vivevo e alla gente con cui passavo le mie giornate. Un pesce fuor
d’acqua. Al
contrario, Marco era sempre a proprio agio in qualsiasi situazione e con la
compagnia di qualsiasi persona. Non ho mai capito realmente come facesse.
Per me ha dell’impossibile rimanere più di un minuto con una persona che
detesto senza ribadire almeno una volta il mio odio tramite le parole o il
comportamento. È infantile, lo so. Me lo diceva spesso. Come se non lo
sapessi. Ma
preferisco non pensarci. Quel
messaggio mi lasciò perplesso, oltre ad incuriosirmi e il giorno dopo gli
chiesi spiegazioni, ricevendo una risposta davvero strana. “Qualche
giorno fa ho catturato un ragnetto e l’ho rinchiuso in un barattolo. Ora
lo nutro con le mosche che acchiappo. Ma ieri mi è sembrato triste”.
Le
parole furono più o meno queste: non le ricordo così perfettamente, al
contrario di molte altre battute scambiate con lui in seguito. Ricordo di
tutto, gesti, abitudini, espressioni, ma le parole… quelle no, sfuggono
sempre via, lontano da me; non vogliono lasciarsi catturare e comprendere. Un
ragno. Io odio i ragni. Eppure ancor oggi non riesco a pensare ad esso se
non come al povero animaletto sottratto al suo mondo e costretto a vivere in
un altro. Un po’ come me ora. Quella
fu la prima volta che parlammo. Essendo stato l’unico compagno con cui
avevo scambiato più di due parole che non riguardassero il discorso
“compiti in classe”, e volendo cacciare la mia solitudine più di ogni
altra cosa, mi attaccai a lui e alla sua compagnia come un naufrago si
aggrappa ad un relitto in un mare in tempesta. Ogni occasione era buona per
parlare e lui non si tirava mai indietro; in poco tempo era diventato,
inconsapevolmente, il mio “scaccia-solitudine”. Ci
salutavamo alla mattina e all’uscita da scuola, parlavamo ad ogni cambio
d’ora; spesso lo invitavo a casa mia per passare il tempo, a giocare con
la Playstation o a girare in internet. Non studiavamo mai, in quanto ho
sempre preferito studiare da solo; solo ogni tanto mi capitava di aiutarlo
in alcuni compiti di matematica. Ma questo accadeva sempre e solo a scuola. Un
giorno gli chiesi perché mai passasse così tanto tempo con me, nonostante
avesse sicuramente altro da fare. Ho sempre pensato di non essere una
persona di buona compagnia. “Perché
non dovrei?”
fu la sua risposta. Non mi bastò allora, come non mi basterebbe nemmeno
adesso, ma decisi che per il momento potevo accontentarmi. Non aveva certo
detto di odiarmi, quindi perché preoccuparsi? E comunque, era meglio che
rimanere da solo. Sono
sempre stato un idiota incapace di camminare sulle proprie gambe e pronto ad
appoggiarmi agli altri alla minima occasione, anche quando questi non erano
il miglior “sostegno” possibile. Tutto per non faticare, per non dover
scegliere. Stupido, stupido, stupido. Non capirò mai. Così
come non capii allora. Le
sue parole, i suoi gesti e le sue risate erano continui incanti che
trasformavano la mia giornata. La rallegravano o la distruggevano,
quest’ultimo caso soprattutto negli ultimi tempi. Vivevo la mia
quotidianità come se fosse una cosa dovuta, necessaria e normale. E
mi sentivo bene. Senza
afferrare chiaramente la situazione di fondo alla nostra amicizia. Spesso
ci rifugiavamo nel cortile interno o nel bagno, a parlare o fumare. Seduti
vicino alla piccola finestrella, guardavamo gli altri ragazzi scherzare e
provarci con le belle di turno oppure lanciare maledizioni ai prof e
meditare vendette nei loro confronti. Fu
un lunedì mattina che scoprimmo il segreto di Michele. Segreto che nel giro
di mezza giornata sapeva tutta la scuola. Lui era il classico ragazzo
ritenuto figo dalla stragrande maggioranza della popolazione femminile del
liceo; si diceva fosse riuscito addirittura a farsene 3 diverse in una sola
sera. Fu per questo che molti all’inizio non credettero a quella notizia
così controsenso: a Michele piacevano i maschi. Eravamo
nel bagno del secondo piano, io appoggiato ad una parete intento a fissare
Marco che si fumava la terza canna della mattina. Era agitato, lo sapevo, ma
non ne comprendevo il motivo. Intorno a noi, nel frattempo, gli altri della
compagnia discutevano sulla veridicità o meno di quella notizia, farcendo
il discorso spesso e volentieri con insulti e bestemmie rivolte contro
“certi froci che dovrebbero starsene a casa loro”. Fu
nel silenzio che seguì la loro uscita dal bagno, che Marco finalmente parlò.
“Cosa
ne pensi?”
Continuava
a guardare fuori nel cortile pieno di ragazzi per l’intervallo. Sembrava
fissare tutti e nessuno in particolare. Rimasi fermo, in silenzio, per
qualche secondo, incerto se rispondere o meno. Non mi è mai piaciuto dare
una mia opinione su discorsi del genere: ho paura delle reazioni degli
altri. Ma
Marco non era “gli altri”. “Beh,
i gusti son gusti. Se gli piace prenderlo, sono fatti suoi.” Ricordo
ancora quel breve dialogo, così come ricordo ancora l’espressione tra il
rassegnato e l’ironico che gli si era dipinta sul viso. L’aria
stantia e intrisa di fumo mi aveva stancato, sicché mi avvicinai alla
finestra per poter respirare più liberamente e mi sedetti accanto a lui.
Restammo in silenzio, immobili, fino a metà dell’ora di lezione seguente.
Tanto era educazione fisica, non perdevamo niente. Sospiro
e mi raggomitolo sempre più tra le lenzuola del mio letto. È
strano rendermi conto come io ricordi ancora perfettamente certi
particolari, a volte estremamente insignificanti, quando spesso e volentieri
dimentico cosa ho mangiato a cena la sera prima. È qualcosa che non sono
mai riuscito a capire. Così
come non sono mai stato capace di comprendere al volo i sentimenti altrui. Se
mi fossi accorto subito di quel che covava Marco dentro di sé, ora non
sarei qui sdraiato a ripensare continuamente a ciò che è stato e a
tormentarmi nel mio piccolo mondo solitario. Intento
a desiderare di far scomparire quel messaggio stupido, che con la sua
presenza mi ricorda ancora lui; poter distruggere e cancellare ogni luogo in
cui compare. Ed
ora mi chiedo: devo distruggere anche me stesso, dato che ricordo quelle
parole in modo così perfetto? Devo dunque cancellarmi? Guardarmi attorno
non porta nessuna risposta, solo una sensazione di vuoto e nullità totale.
Questo bianco splendente dei muri, ora mi sembra un eterno infinito in cui
perdermi. L’oscurità impedisce di vedere, certo, ma anche la troppa luce
non è da meno. Mi sento come quel piccolo ragno, incapace di raggiungere la
tranquillità del suo mondo e quindi rassegnato a vederlo da lontano. Una
realtà spaventosa quanto un incubo. E mi domando pure se farò la fine di
quell’animaletto, che morì pochi giorni dopo l’invio del messaggio. Un
destino comune? Mi
insulto profondamente. Da quando ho pensieri così stupidi? Da
quando sono rimasto solo, è la mia risposta. Solo.
Quattro
lettere che mi stanno logorando dentro. Mi
rigiro sul letto, voltando le spalle al mio telefonino. So che non scomparirà
magicamente, ma non posso fare a meno di sperarlo. Far finta che non sia mai
accaduto nulla, dimenticare di averlo conosciuto. Come
al solito ho desideri irrealizzabili. Anche
Marco ne aveva, di questi sogni. Ma questo lo scoprii più tardi, quando
ormai la situazione stava lentamente scivolandomi via dalle mani. Sempre che
ci fosse mai stata, lì. Il
vero cambiamento tra noi avvenne solo diverse settimane più tardi, durate
una serata passata in discoteca. Marco
mi ci aveva trascinato per passare una serata di divertimento insieme a
tutta la compagnia, ovvero per rimorchiare ragazze il più possibile e
andare in buca. All’una di notte, la quasi totalità di noi era ubriaca
fradicia; io avevo bevuto poco ma ero ugualmente un po’ brillo, mentre
Marco era piuttosto alticcio e ci provava con tutte. Di quelle ore non
ricordo quasi nulla; mi sono rimaste solo le sensazioni di caldo, sete,
eccitazione e liberazione che provavo alternativamente o nel medesimo
istante mentre mi buttavo in pista, le poche volte che lo avevo fatto. Il
bagno fu la mia ancora di salvezza. Il silenzio di quel luogo mi colpì,
stordendomi, e facendomi preoccupare seriamente su una mia precoce sordità.
Volevo
schiarirmi la mente. La
testa sotto il getto freddo dell’acqua, gli occhi chiusi e i pensieri a
riposo. Ignoravo lo scorrere del tempo attorno a me, limitandomi a
registrare a margine del mio cervello ciò che mi accadeva attorno:
l’aprirsi di una porta, il rumore di uno sciacquone tirato, passi, ragazzi
che parlottavano per poi allontanarsi. Infine insulti, una mano femminile
dalle unghie laccate e la porta del bagno che sbatteva violentemente,
ponendo termine a tutto. Silenzio.
E
nel silenzio poche parole: “Più ci provo, più non ci riesco…” Impossibile
sbagliarsi. Già allora sarei riuscito a riconoscere la sua voce tra mille.
Quella frase, appena mormorata, mi spinse a guardarlo. Si stava accendendo
una sigaretta, fissando di sottecchi l’uscio dalla quale era scomparsa la
ragazza. Sul viso era stampato un sorriso storto, lo stesso di chi si
aspetta un certo comportamento e rimane comunque deluso nel vedere che è
realmente andata in quel modo. Rimasi
fermo a fissarlo, aspettando che continuasse la frase detta pochi attimi
prima. Era un’attesa inutile, lo sapevo: lui non è mai stato tipo da
raccontare i suoi pensieri, profondi o meno, a qualcun altro. Piuttosto se
ne rimaneva zitto. “Tu
che mi dici? Rimorchiata qualcuna? O sei ancora un verginello?” Sapevamo
entrambi che non ero vergine, ero stato io stesso a dirglielo: era stata
semplicemente una storia di poco conto con una ragazza incontrata in
vacanza. Due scopate e basta, prima di separarci. Ricordo che gli sorrisi,
mentre gli rispondevo ridacchiando un “no”. “Allora
bisogna rimediare”. Ancora
oggi quelle parole sono per me il vero punto di inizio della mia storia con
lui. Prima di quel momento, eravamo solo due ragazzi con pochi punti
realmente in comune e che passavano il tempo assieme. Ricordo
ancora il sapore di alcool e fumo della sua bocca, insidiosa e sconosciuta,
esperta e prevaricante, così capace di creare sensazioni devastanti nei
miei sensi. Quello è sempre stato il suo modo di baciarmi; questo lo
scoprii solo più tardi, quando ormai non potevamo più tornare indietro e
rinnegare ciò che si era creato tra noi. Allora, lo stupore unito alla mia
leggera ubriacatura, mi rendeva difficile ragionare chiaramente e riuscire
ad oppormi. Mi lasciai baciare per un tempo che mi parve infinito, diviso
tra la voglia di mollargli un pugno e picchiarlo a sangue e quella di
lasciarlo fare e continuare tranquillamente come se niente fosse. Appena
riuscii a respirare liberamente, diedi uno strattone e mi allontanai
velocemente da lui, la mente incapace di ragionare coerentemente e la testa
che ancora gocciolava dell’acqua fredda con cui mi ero bagnato. Mi
sentivo sporco e sbagliato, animato da un misto di rabbia, confusione e
umiliazione. Quella
sera tornai a casa a piedi, da solo, fregandomene altamente delle possibili
conseguenze della mia passeggiata notturna. Non sarei mai riuscito a tornare
a casa con lui. Avevo bisogno di aria forte e fresca che spazzasse via tutto
ciò che era successo nella mezzora precedente. La confusione albergava
nella mia testa, così come l’eccitazione si era impossessata del mio
corpo. Avevo
un’unica priorità: tornare a casa e infilarmi nel mio letto. E
dimenticare tutto, ovviamente. Dimenticare.
Anche
adesso sto tentando in tutti i modi di farlo. Inutilmente. Continuo a
ricordare ogni minimo particolare e più mi costringo a non pensare, più mi
ritornano alla mente le sue espressioni e i suoi gesti. Dimenticare,
dimenticare, dimenticare. Marco
non esiste. Non è mai esistito. E
quel bacio non era stato nulla, nulla. Idiota.
Sono un pessimo bugiardo, non riesco a convincere nemmeno me stesso. Quel
bacio mi aveva sconvolto. Nel bene e nel male. Mi
ci vollero settimane per riuscire a controllarmi e comportarmi con lui come
prima, come se nulla fosse successo, giorni spesi ad evitare di parlare con
lui, col solo risultato di vedermelo avvicinarsi maggiormente, intento a
farsi perdonare l’atto sconsiderato di quella sera. Fino
a quel giorno. Ancora
adesso arrossisco al pensiero. E
mi maledico per questo. Una
sera mi invitò a dormire a casa sua. Ed io, scemo, accettai. Avrei dovuto
capirlo subito. Non
avevo mai avuto occasione di vederlo nel suo “ambiente naturale” ed ero
molto curioso. Avrei potuto scoprire qualcosa in più su quel ragazzo che
parlava così poco di sé, nonostante fosse una persona così espansiva. Ero
agitato, ma non volevo darlo a vedere. Stupido
bambino sciocco. Non capisco mai le cose ovvie. Le
vedo solo quando ci vado a sbattere contro. Con lui fu un colpo diretto e
devastante. Mi
aspettava svaccato sul divano, coi capelli spettinati come al solito, i
jeans larghi e tenuti bassi pieni di strappi e la maglia che sembrava avere
avuto tempi migliori, anni addietro. In poche parole, sembrava appena uscito
da una centrifuga in lavatrice. Lui
era sempre così. Incurante
dell’opinione altrui, disposto a soddisfare i suoi desideri. Ed io non ero
da meno. Giocammo
con la sua Playstation per diverse ore fino a quando, esausto, non gli
crollai sul letto. Fu
un errore. Un
dolce e amaro errore. Amaro nelle conseguenze. Mi
svegliai di colpo, lui sopra di me che occupava la mia bocca con la sua
lingua. Le sue mani che vagavano sotto la mia maglia, gli occhi intenti a
controllarmi. Volevo scappare e al tempo stesso rimanere. Come
quella sera in discoteca, io mi ritrovai a perdermi in un bacio, relegando
lontano da me il mondo esterno, fissando la mia attenzione solo sulle
sensazioni che avvertivo. Era come una droga. Non
sono mai stato capace di negarmi ad un suo bacio, momento in cui il mio
animo si allontanava dal suo guscio perdendosi in sensazioni forti ed
inebrianti, per poi ricadere prepotentemente al suo posto allo staccarsi
delle sue labbra dalle mie. Anche
allora fu così. Incapace
di dirgli di no, mi lasciai fare tutto ciò che voleva; gli permisi di
toccarmi e leccarmi ovunque. Gli concessi persino di avere il ruolo
“attivo” tra noi due. Fu
eccitante, doloroso, appagante. Un incontro di bocche, lingue e mani sempre
più profondo. Mi
sembrava incredibile che Marco sapesse perfettamente come comportarsi, come
toccare un altro ragazzo e dargli piacere. Io non sapevo neppure da che
parte iniziare. Avrei
dovuto capirlo già da allora. La verità era ad un palmo dal mio naso ed io
non l’avevo ancora notata. Idiota.
Ripensare
a questo non fa bene. Soprattutto al mio basso ventre. Ricordo ancora i suoi
gemiti uniti ai miei, i nostri ansiti soffocati, le sue spinte così
forti… Basta!
Devo
smetterla, smetterla, smetterla! È
passato. Lui non è qui. Ed
io sono solo in questa stanza. Detesto
rimanere da solo. Un conto è se sono io a scegliere la solitudine, un altro
è che sia lei a scegliere me. Questo non riesco proprio reggerlo. Marco
l’aveva capito e lo sfruttava a modo suo. Passavamo
il tempo come sempre, chiacchierando, giocando con i videogiochi, uscendo in
compagnia degli altri. Quando se ne presentava l’occasione e la voglia, ci
allontanavamo da tutto e tutti, persi nel nostro piccolo mondo personale
fatto da sensazioni sconvolgenti ed appaganti. A
me questo bastava. L’amore,
quello con la A maiuscola, non era tenuto molto in considerazione da
entrambi. Nella nostra relazione ce ne era veramente poco e quasi tutto da
parte mia: le mie mezze scenate quando se ne andava fuori la sera senza di
me, la mia voglia di ricevere e dare coccole. Più ricevere che dare, in
realtà. Io
stesso non volevo ammettere di essermi, in qualche modo, innamorato. Amore?
Sciocchezze da ragazzina sognatrice. Fine
del discorso. Che
bugiardo. Ancor
oggi non riesco a fare a meno di pensare a quei giorni, così spensierati
rispetto al resto, così onirici e lontani. Un periodo in cui la presenza o
l’assenza di quel ragazzo poteva cambiare di gran lunga la mia giornata;
in cui io mi sentivo vivo soprattutto nelle sere solitarie passate con lui,
perdendomi nella frenesia della nostra passione e nella pace che seguiva i
nostri amplessi. Lo
credevo il mio sole. Quanto
mi sbagliavo. Era
semplicemente la Terra ed io la Luna che gli ruotava attorno, incapace di
illuminarlo veramente. Lui girava attorno al suo sole, splendente e caldo;
un sole che rispondeva al nome di Michele. Lo
scoprii per caso un giorno, mentre seduto a fianco di quella finestrella del
bagno, fissava assorto l’altro. Mi sentii colpire da una fitta di puro
dolore e gelosia nel riconoscere, sul suo viso, dolcezza, rassegnazione,
gioia e un velo di tristezza: sentimenti che con me non mostrava mai. La
conferma la ebbi qualche giorno più tardi, quando nel momento “topico”
mi chiamò col suo nome. E
io capii. Non
poteva avere lui, allora aveva preferito sfogarsi con me. Io
ero solo un ripiego, un sostituto. Una
pugnalata avrebbe fatto meno male. Rendermi
conto che lui non mi amava così profondamente come pensavo mi riempì di
amarezza come mai mi era successo. Non riuscivo a capacitarmene. Tutto ciò
a cui riuscivo a pensare era al mio orgoglio profondamente umiliato. Lo
odiai come nessun altro. Stringo
con forza le lenzuola, rigirandomi per l’ennesima volta. A pensarci bene,
ora, mi ritrovo a provare pena per lui, che preferiva amare qualcuno che non
lo avrebbe mai ricambiato, piuttosto che rassegnarsi e rivolgere la sua
attenzione altrove. Marco non avrebbe mai amato nessuno realmente
all’infuori di Michele; era disposto a stare con un altro solo perché
vedeva il suo amore morto sul nascere. Ma
allora non ragionavo così: ero pervaso da un misto di rabbia e delusione,
che mi portava ad essere scontroso, indisponente e vendicativo come pochi.
Volevo distruggerlo, arrecargli più dolore possibile, e al tempo stesso
desideravo che tornasse da me, a farmi compagnia, a scacciare la mia
solitudine. Litigammo
e ci riappacificammo molte volte, ma sapevamo entrambi che i nostri erano
tentativi inutili. Nelle mani non avevamo altro che un rapporto logorato,
un’amicizia sul punto di sfaldarsi e un amore mai realmente iniziato. Quando
mio padre, quel giorno, mi avvisò del nostro imminente trasferimento, tirai
un sospiro di sollievo. Sentivo il bisogno di staccare un po’, di
allontanarmi da quella situazione che mi stava logorando sempre più. Nel
giro di una settimana mi trovavo nella nuova casa, in quella che sarebbe
stata la mia nuova città. Ripenso
a quel messaggio. Cambiare
barattolo. Io ho cambiato il mio piccolo e conosciuto mondo, per finire in
un altro più grande e sconosciuto, circondato da gente che non conosco. Solo.
Mentre
lui, nella vecchia città, forse ha raggiunto il suo sole. Si
brucerà. Meglio.
Mentre
io me ne rimango qui, rinchiuso fra queste quattro mura, a ripensare a ciò
che era e a ciò che non è. Incapace di continuare realmente a vivere. A
decidere la sorte di un sms sul cellulare. Mi
rigiro nel letto, il cellulare stretto nella mano e quel messaggio sullo
schermo. Un
giorno lo cancellerò. E
dimenticherò tutto. Un
giorno lo farò. Ma oggi no.
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