disclaimers:miei, miei, miei!!Tutti t solo miei!No, scherzo! Per metà sn anche di Dhely(me si prostra!)

Berserk Vampire

di Swordangel e Dhely

Parte 1/?


Una strada buia di periferia.
Le luci dei rari lampioni che scivolano sull'asfalto formando piccole pozze luminose.
I campi che si stendono intorno a me, perdendosi nella foschia della notte.
Il frusciare del vento fra l'erba, il sussurrare della brezza fra le foglie.
I miei passi solitari e cupi, specchi della mia anima.
E intorno a me l'infinito.
L'immensità del cielo primaverile, la luna alta nel firmamento, triste sposa separata dal suo consorte e accompagnata da uno stuolo di pallide ancelle, le stelle.
Oh bella luna, povera e piangente, come ti capisco, come siamo simili.
Fratelli vittime di una natura avversa, unica e rara.
Amica antica, la sola compagna che sopravvive allo scorrere delle ere.
Scuoto leggermente la testa e faccio un respiro profondo inebriandomi della libertà presente nell'aria.
No, la notte è troppo bella per essere rattristata dai soliti cupi pensieri, quelli vanno riservati per il sonno nella mia bara.
Alzo il volto e apro gli occhi, rossi e profondi.
Il vento sferza il mio viso e mi scompiglia i capelli candidi, portando via con sé l'ombra onnipresente e nera dei ricordi.
MI sento come un feto pronto ad iniziare una nuova esistenza, pura e immacolata.
Nulla intorno a me, nulla dentro di me. Solo la natura, calda madre, mi avvolge con il suo rassicurante pulsare.
In questo momento mi piace essere così, un'anima vagante senza una definizione, un punto su un infinito foglio bianco, essenziale nella sua semplicità ma completo.
Un brivido mi percorre la schiena, un sorriso mi piega le labbra pallide.
Ah sì! Oggi sono felice come non lo ero da secoli.
Ridacchio. Non so quanti oltre a me lo possano affermare senza mentire.
Mi sento un tutt'uno con la natura, percepisco il rumore del mondo crescere e respirare, sono contemporaneamente falco e coniglio, foglia e bruco, ruscello e vento…
Mi perdo in tutto ciò, inebriato e drogato dalla mia follia, corro sull'erba mi butto, rotolo, grido e infine crollo, ansante e sconvolto.
MI fermo.
Allargo le braccia, crocifisso.
Respiro, piano ora.
E piango.
Pazzo e solo con le mie colpe.
I ricordi mi sono piombati addosso in una valanga e mi hanno sommerso, mi hanno soffocato.
A cosa serve illudermi per qualche istante di potercela fare?
Di bastarmi, di essere nero e bianco allo stesso tempo, di essere ing senza avere bisogno dello iang?
Di dimenticarmi di ciò che ho fatto, della mia maledizione?
Di non avere un cuore, di essere insensibile al dolore?
Di non avere colpe.
Sono incatenato a questa terra, divino e impotente.
Ora il cielo non è più di primavera, ma è freddo e invernale.
Mi opprime, anche se non mi è vicino.
Lo odio e odio la luna rossa, in cui mi rispecchio. Ah, stupida…vai, cerca il tuo compagno! Abbatti le leggi della natura! Anche se è irraggiungibile il tuo sole esiste, ma il mio si è spento da secoli. 
Cercalo, sconvolgi la terra ed unisciti a lui, sii felice!
Mi alzo rabbioso e lei mi guarda compassionevole. A quanti dei miei sfoghi ormai ha assistito, quante notti mi ha ascoltato paziente.
Stupido, sono solo un povero sciocco immortale!
Vivo, non posso farne a meno.
Ma dannato per aver rinunciato alla mia natura di assassino.
Avervi rinunciato ma non esservi riuscito…
Mi inginocchio e mi copro il viso con le mani.
Quante volte ho provato a porre fine alla mia maledizione!
Nascondermi, lasciarmi andare fino a non avere più neanche la forza di respirare, addormentarmi dolcemente sperando che sia l'ultima notte, per poi svegliarmi immerso in un mare di sangue, membra e corpi straziati, con la mente sconvolta che ricorda con che forza e piacere ha ferito, violentato e ucciso, ignorando suppliche e pianti!
Perché è dal sangue che traggo il mio nutrimento, dalla morte il mio diletto.
Sono le mie dita che stanno disegnando profondi solchi rossi sulla mia faccia, o è la mia anima che si sta squarciando per il troppo orrore?
Eccole, arrivano…le sento…ancora una volta…no!
Ombre contorte di corpi senza vita mi circondano, entrano in me, nascono da me. Mi guardano, silenziose prima, poi da quelle loro bocche cave e senza lingua scivola fuori una nenia lamentosa, un coro che si fa assordante, un'orchestra di violini scordati. La vista mi si appanna…
Intanto loro continuano la danza antica, girano veloci, sempre più veloci, macchie rosse e nere, assurde, impietose…
Mi scuoto… sta per esplodermi la testa…andatevene, vi supplico!
Mi tappo le orecchie con le mani ma le urla non cessano, anzi si moltiplicano, aumentano d'intensità e tono, vorticano e si accavallano, diventano brandelli di suoni agghiaccianti come unghie su una lavagna, si uniscono ad immagini nauseanti di orbite vuote e corpi tumefatti che mi additano e mi accusano per quello che ho fatto, per quello che sono!
Mi raggomitolo per terra, stringendomi convulsamente le e ginocchia piangendo sconvolto.
No, quello non sono io! Non sono un mostro! Non posso esserlo!
Lo grido al nulla, lo grido a me stesso.
Tremando mi avvicino carponi ad un albero e mi ci aggrappo come se potesse salvarmi, trascinarmi via dai miei incubi, assicurarmi che non è colpa mia, che non sono io il responsabile.
Lo graffio lo imploro; ma lui tace.
Ed io non riesco ad uscire dall'abisso di rimorsi che mi attira in sé, buio e oscuro.
I ricordi sono ancora tutti lì, orrendi e osceni, tormentosi, che si aggrappano a me, mi graffiano, mi feriscono.
Una voce terribile e sconvolta si unisce a loro e le sovrasta, ruggendo inumana.
E' la mia voce.
La testa mi pulsa terribilmente, sento caldo…sono sudato…i miei bellissimi capelli sono scomposti e scarmigliati mentre li strappo, nevrotico, con gli occhi dilatati e il respiro affannoso e grido, grido più forte che posso di smetterla, di lasciarmi stare…
Infine un atroce senso di nausea mi attanaglia lo stomaco ed è quasi con sollievo che vomito non so neanche io cosa, l'anima, spero. 
Silenzio.
Tossisco, poi mi alzo difficoltosamente, barcollando.
E' finita, anche questa volta è finita.
Se ne sono andate.
Ora tutto è fermo, tranquillo. Immobile.
Alzo gli occhi al cielo. La luna è ancora lì, come sempre.
Nulla è cambiato.
Mi sento a pezzi, un burattino vecchio.
Ma sono ancora in piedi.
Mi pulisco distrattamente la bocca con una manica, sento un cattivo sapore, metallico.
Mi avvicino ad una pozza, un piccolo laghetto.
Nell'acqua limpida si riflette l'immagine di un fantasma allucinato, con gli occhi dilatati, il respiro affannoso, la criniera incrostata e al posto della faccia una maschera di sangue e vomito.
La schiaffeggio rabbiosamente e mi giro. Non voglio vedermi in queste condizioni, assomiglio troppo alle mie allucinazioni.
Mi svesto e mi tuffo in acqua senza guardarla.
Il lago ghiacciato dona un po' della sua freddezza alla mia mente sconvolta.
Mi lavo e mi sciacquo finché non mi sento abbastanza pulito, tuffandomi infinite volte.
Mi appoggio a uno scoglio a fior d'acqua, sedendomi sul fondo sassoso.
Mi guardo intorno. Un paesaggio idilliaco mi circonda.
Anche se è notte posso chiaramente distinguere i contorni degli alberi immensi che spezzano l'uniformità dei campi, vestendo così la terra di un caldo indumento all'inglese.
La luna si riflette sulla superficie del laghetto, in una colata d'argento su marmo nero. E lì, raffigurato in un intarsio arabo, ci sono io.
Sembro un dio sceso sulla terra per godersi un momento di pace e tranquillità in solitudine.
I capelli candidi m'incorniciano il volto, scendendo sinuosi sulla schiena e il torace larghi. Con una mano sposto una ciocca che é scivolata. La pelle si tende morbida e pallida in sui muscoli allenati. Le dita sottili la appoggiano dietro ad un orecchio appuntito.
Sorrido amaro.
Un'impercettibile ed eterna ruga si forma tra le sopracciglia arcuate, gli occhi si stringono felini e le labbra rosse scoprono i denti bianchissimi.
Io un dio?
Un raggio di luna brilla sui miei lunghi canini, la prova della mia maledizione.
Non sono altro che un vampiro che odia il sangue, il signore della morte che la ripudia, un assassino che prega per le sue vittime.
Nessuna lama mi può ferire, nessun raggio di sole sciogliere, nessun crocifisso spaventare, né pistola, né veleno, né corda uccidere.
Eppure soffro.
Sono costretto a passare la mia eternità nel mio castello, solo. 
A dire la verità non sono completamente solo.
Un'altra esistenza mi accompagna fedelmente.
La mia abitazione è una cosa viva, pulsante, esclusa dal tempo e dallo spazio.
Io so sempre come e dove trovarla, ma nessun altro senza il mio consenso e la mia guida può riuscirci.
Siamo collegati da un vincolo a livello mentale, tanto antico e profondo che persino io che sono il padrone mi limito ad accettarlo e non a capirlo.
Certo, le pareti non parlano ma il castello ha una volontà propria.
Per esempio le stanze non sono mai nello stesso posto e credo finora di averne visitate una minima parte.
Il castello rispecchia i miei umori e mi contatta attraverso immagini e sensazioni.
Ed ecco che nel preciso istante in cui formulo questo pensiero sento il richiamo vibrante della mia dimora…
Un rumore di vetro spezzato mi ferisce le orecchie e una cupa disperazione mi avvolge.
Mi alzo preoccupato.
Un'ondata di dolore mi scuote.
Cosa può essere successo?
Nella mia mente si forma l'immagine di una cascata di frammenti che piomba in un mare rosso.
Senza più esitare esco di corsa dall'acqua, agguanto i miei indumenti e corro verso il buio del bosco, scomparendo nella foschia.

******************

Un canto.
No. Una nenia senza parole, solo il ritmo dolce e incantato di una soavità senza fine. Niente parole, no, che le parole sono già razionalizzare e io non trovo motivi, o ragioni, e il cervello non arriva a illuminare la buia oscurità che avvolge la mia anima.
Solo, sono solo . . non è un fatto nuovo, questo. Sono sempre stato solo. Il mio cuore sempre vuoto. La mia vita simile a quella di nessun'altro. Solo nel vivere un destino che, più atroce di una tortura eterna, mi condanna a vedere e rivedere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto la mia morte senza mai raggiungerla, senza mai arrivare a toccarla, a prenderla, a possederla, senza mai . .
Ma ora c'è la musica che mi parla e mi chiama, mi trascina a sé, mi avviluppa nelle sue spire e non mi promette che pace. Tranquillità.
Riposo.
Null'altro.
Come un serpente al suono del flauto mi muovo, rispondo alla melodia, i miei muscoli si tendono da soli, i miei piedi volano sul terreno senza neppure sfiorare l'erba rorida, la  brina che ingioiella la terra gelosa del cielo, troppo scintillante di stelle. 
Le stelle. Troppo belle perché io meriti di alzarvi gli occhi, troppo distanti, troppo pure, troppo perfette . Eppure le stelle sono sempre state la mia dolce consolazione nelle notti troppo lunghe in cui gli incubi mi destavano ad un orrore ancora peggiore di quello che vivevo dormendo. Ma ora non ho tempo neppure per loro. No. 
La nebbia si scioglie in tentacoli lievi tralucenti color delle perle, i contorni svaniscono piano, tutto dissolve in un universo che sa di sogno. Le coordinate svaporano, scompaiono, sono nulla nella mia mente, come nulla fra le mie dita è la melodia, eppure essa è come un filo argentato che seguo sicuro. Non un passo falso, non un'esitazione, nulla di tutto questo. Essa mi guida e il mio corpo la segue e il mio cuore la brama e la mai anima spera . . spera quello che non può ormai più sperare . .
E improvvisamente parole si formano intorno a me.
No, non parole . . non pronunciate, ma è la melodia che si contorce appena, e sussurra come un nome . .un nome che come un rituale, come una preghiera viene ripetuto sulle ali della notte,e  la nebbia danza al percepirlo, e le stelle scintillano più forte e il mio cuore perde un battito, e un altro ..
. . . Melis . .
La musica mi chiama. Una sirena? Una fata che tende la sua tela incantata per me? No, follia .. eppure ..
Eppure il sogno si fa più denso, spire d'incoscienza mi avvolgono sempre più strette e perdo la nozione del tempo, dello spazio, nulla importa più se non continuare a seguire il richiamo, raggiungere la meta. .
. . Melis . .
Io! sono io! vorrei urlare e piangere, e pregare di non essere abbandonato qui, che qualcuno mi spieghi, che qualcuno mi liberi, che il mio strazio abbia alla fine un senso, che giunga infine anche per me la possibilità del riposo. Che finalmente possa riposare e non solo sognare di farlo, che finalmente la Signora arrivi e mi porti con sé senza che si sia un alba, dopo, che mi dimostri che era tutto un sogno, tutta un'enorme menzogna! Ma non fiato, non parlo, non grido, niente, respiro appena, troppo avvinto nella malia, troppa la paura di perdere il filo sottile che mi guida verso una promessa che non oso neppure sognare.
E la melodia d'un tratto diventa roccia solida e mura e pareti e drappi pesanti e ricamati e tappeto morbido e il cielo diventa volta di pietra e nulla perde i connotati del sogno ma tutto si trasforma.
Sento la vita scorrermi attorno. Quel corridoio enorme, più ampio di quanto credevo fosse possibile esistesse, mi pare respiri. Sento che mi guarda, mi scruta, e . . sorride? Non so, è come se fosse vivo. Le sale che attraverso, i mobili, le suppellettili. Tutto. La luce sghemba della luna filtra ogni tanto tra tendaggi pesanti e broccati e vetri istoriati e il canto che sempre più in fretta mi attira a sé e io sempre più in fretta lo seguo e mi pare di cadere dentro una voragine oscura che non so se avrà mai termine. 
Una sala.
Circolare.
Marmi neri e scuri, scintillanti sotto una luce la cui provenienza mi è ignota. La sala del trono? Al suo centro si erge, squadrato e svettante, uno scranno di pietra, elegante nella sua sobria maestà. 
Tutto trasuda antico splendore ed eterno potere.
Dove sono?
E' l'origine della melodia?
Una scintilla d'argento. Una falce di luna imprigionata nella roccia? 
Una stella caduta?
Un angelo dalle ali spezzate?
No. Uno specchio.
E la superficie all'inizio è opaca, come brunita, al di là della superficie liscia si intravedono appena come ombre che si contorcono e danzano e si muovono e chiamano e invitano . . poi diventa tutto lentamente più chiaro.
Come se l'argento ritornasse puro.
Come se l'ossidazione dei secoli svanisse.
Come se ..
Sussulto.
La melodia cessa. Cade inghiottita nel buio e nel nulla. Silenzio. 
Silenzio che mi circonda. Silenzio che mi riempie. Le mie vene mi tremano nei polsi. Lo specchio perfetto rimanda un'immagine.
L'immagine di chi più di ogni altra creatura al mondo odio.
L'immagine di un ragazzo. Ha 17 anni e ne dimostra 15. Ha una bellezza tale che le parole non bastano per descriverla, i paragoni crollano sempre miseramente al cospetto con l'originale, la voce si rifiuta spesso di uscire in sua presenza e rimane incastrata nel polmoni.
Un ragazzo che non dovrebbe essere mai nato.
Un bambino nato morto, già pianto da tutti come perduto quando aprì gli occhi. Un fanciullo che dal rogo della propria abitazione uscì illeso, senza ferite, senza un graffio, senza una macchia. Un ragazzo che mille e mille volte cercò di darsi la morte ma talmente bello che se tutti lo bramavano, solo la Morte lo evitava.
Un fanciullo visitato, è vero, mille e mille volte dalla Morte, ma solo in sogno; sempre, ogni giorno essa veniva per lui e lo chiamava, e gli mostrava infiniti modi in cui la sua esile fiamma si sarebbe potuta spegnere e  poi, ridendo, se ne andava, lasciandolo ancora in vita. Adulandolo, porgendogli con una mano il dono prezioso e con l'inganno spezzargli il cuore, ghignando di fronte alla sua credulità, deridendo il suo desiderio sempre acceso di una cosa che non gli avrebbe dato.
Un ragazzo.
Io.
Me stesso.
Dolore?
Delusione?
Come chiamare tutto questo?
Non c'è parola adatta per dire quello che mi squarcia il petto. Una sciabolata di luce bianca, l'impossibile assurdità di tutto, della mia vita, della mia anima, della mia maledizione . . e lo specchio che rimanda ancora e ancora quell'immagine meravigliosa di quel ragazzo bellissimo che pare solo essere nato per venire amato. Quel ragazzo maledetto dalla visione eterna della propria morte e dall'impossibilità di farla avverare.
Urlo. Ma non col la voce, no. L'anima mi si squarcia in petto, il cuore sanguina, sollevo i pungi e rabbia e furia come una tempesta mi squassano la mente e i nervi.
Maledetto te!
Sì, sì, perché questa è una maledizione! Cos'ho mai fatto per meritarmi una pena simile? Che peccato sto scontando? Che atrocità ho potuto commettere per avere, in cambio, questo? Perché? 
Il suono del vetro che si infrange è quasi armonioso. Mille piccoli cristalli si schiantano al suolo tintinnando come campanellini d'argento, il mio cuore fa lo stesso rumore quando mi accascio senza forze sulle ginocchia e lacrime mi solcano il volto e l'odio mi divora l'anima.
Perché?
Perché?!
Esiste un dio? Esiste forse qualcuno, o qualcosa, a cui uno come me possa rivolgersi? a chiedere perdono, sì . . perdono o almeno . . per capire.
Affondo il capo fra le mani.
Mi odio. Mi faccio ribrezzo.
Uno come me non dovrebbe esistere.
Non posso esistere!
Perché . .
Le mie lacrime mi scivolano fra le dita e cadono sui frammenti di specchio che mi circondano. Sembrano schegge di luce. Sono così belli, piccoli frammenti di stella .. che non rimandano più nessuna immagine . .
Vedo indifferente una mia mano, sottile e pallida, allungarsi verso un pezzo di vetro che come una piccola falce mi sorride a pochi palmi dal ginocchio. Le mie dita gli si stringono contro, i bordi affilati mi mordono le carni, il sangue scarlatto macchia l'inumana purezza dell'argento ma sorrido.
Il dolore, cosa sarà mai? Nessun dolore m'importa, ora.
Mi metto in piedi.
Che bello quello scranno di pietra nera. Nero come la notte più buia.
Il mio sangue su quella pietra spiccherebbe come un gioiello su una corona.
Solo il calore  sarebbe diverso, solo quello. E quella immobile scultura di marmo viene violata dal mio tocco, è grande per il mio corpo sottile, è fredda ma elegante nella sua pura semplicità.
E' bello stare lì seduti e guardare la falce d'argento camminarmi sulla pelle candida degli avambracci lasciando profondi segni scarlatti come fiori estivi, come meravigliosi ibiscus.
Socchiudo gli occhi e mi pongo in ascolto. 
E ascolto il sangue scorrermi via dalle vene.
E ascolto il suo lento gocciolare sulla pietra ai miei piedi.
E sento il pezzo di vetro sfuggire dalla stretta tremante delle mie dita e frantumarsi sul marmo nero del pavimento con un suono che sa del ghiaccio che si spezza in primavera.
E vorrei sentire di nuovo quel canto.
Ma c'è solo il silenzio e quelle mura che mi vivono accanto.

------fine primo capitolo--------------------------------------------



 
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