A Way for Us
di
Afsaneh
Indossò il
giubbotto di jeans e s'inginocchiò davanti il letto, sorridendo. Passò una
mano tra i morbidi capelli castani, posandogli un bacio sulla fronte "Riposa
bene, Kenji" uscì dalla stanza e dalla casa in piena notte. La nebbia che
saliva rendeva tutto inconsistente, evanescente. Chiuse i bottoni della
giacca e infilò le mani nelle tasche, faceva freddo. Sbadigliò
rumorosamente, dando un calcio a una lattina e spaventando il gatto che
stava rovistando fra la spazzatura.
Era infinitamente stanco: la scuola, gli allenamenti e poi Fujima. L'aveva
incontrato per caso in un caffè e aveva subito riconosciuto quella luce nei
suoi occhi. Dolore, solitudine e disperazione. Era rimasto insieme a lui per
tutta la sera e poi... era successo ciò che sin dal primo istante aveva
capito sarebbe accaduto: avevano fatto l'amore. Sperava solo che questo
avrebbe potuto portare un pochino di sollievo al suo cuore.
Entrò in casa e senza neanche farsi una doccia si spogliò buttandosi sul
letto, distrutto.
Socchiuse un occhio e un profondo sospiro di rassegnazione uscì dalle sue
labbra: le dieci e mezza. La sveglia era suonata alle sei come al solito,
lui l'aveva spenta dicendosi dieci minuti e
mi alzo, ma ovviamente si era riaddormentato ed ora non poteva più
andare a scuola.
Si girò sulla schiena e rimase immobile, un braccio sugli occhi, sino a
quando con un enorme sforzo di volontà si alzò per andare a farsi una
doccia. Avrebbe approfittato di questa giornata di vacanza per mettere un
po' a posto la casa perché di sicuro sua madre, al ritorno dalla visita alla
nonna, non avrebbe apprezzato ritrovare il caos da terza guerra mondiale che
c'era in salotto.
Si vestì con un paio di jeans super logori e una vecchia maglietta, tutta
rovinata, che adorava. Accese lo stereo al massimo e iniziò a passare
l'aspirapolvere, lavare i vetri e i pavimenti. Ogni tanto cantava qualche
passaggio di una canzone di cui si ricordava le parole con voce bassa e
intonata "Aerials, in the sky when you lose
small mind you free your life life is a waterfall we drink from the river
then we turn around and put up our walls"
Alle quattro del pomeriggio in casa sembrava essere appena passata una ditta
di pulizie, tanto brillava e riluceva. Di sicuro questa volta sua madre non
si sarebbe potuta lamentare per il disordine.
Si fece un'altra doccia e decise di uscire a fare due passi per il
quartiere, non ce la faceva a passare tutta la giornata rinchiuso fra
quattro mura, gli faceva venire la claustrofobia. Si prese da bere ad un
distributore automatico e con la lattina in mano continuava a camminare, il
sorriso sulle labbra e l'espressione serena. C'era un leggero venticello che
gli scompigliava i capelli, si stava bene. Gli serviva proprio una giornata
così: di, quasi, dolce far niente.
Tornò a casa quando i lampioni erano già accesi e per strada non c'era più
nessuno. Si preparò qualcosa di leggero per cena e tentò di studiare per il
compito di giapponese del giorno dopo, ma senza risultati degni di nota. Lo
studio, nonostante tutti i suoi sforzi, non era affatto il suo forte.
Spense la luce e si addormentò pensando che l'indomani il capitano gliela
avrebbe fatta pagare per la sua assenza di quel giorno.
Ed esattamente questo successe.
Non solo si era beccato una ramanzina da Haruko per non essersi presentato
agli allenamenti, ma il capitano lo aveva anche obbligato a rimanere per
altre due ore di allenamento supplementare. Quando tutti gli altri se ne
furono andati, in palestra rimasero solo lui e la kitsune.
Stava terminando l'ultima serie da venti di tiri da tre quando, con la coda
dell'occhio vide la porta aprirsi e contro la luce del tramonto stagliarsi
la figura di una persona che conosceva molto bene.
"Sendo, che ci fai qui?" il capitano gli si era avvicinato non comprendendo
il motivo della sua presenza. Oramai l'altro era uno studente universitario
quindi perché mai era venuto a trovarli? A quell'ora poi!
"Salve, Rukawa!" alzò un braccio a mo' di saluto, sulle labbra il suo
sempiterno sorriso "Sono venuto a prendere Sakuragi, ma non pensavo di
trovare anche te"
L'altro scrollò le spalle e voltandosi guardò il compagno di squadra che,
finalmente, era riuscito ad insaccare il quinto tiro da tre consecutivamente
"Ok, te ne puoi tornare a casa, do'hao"
Hanamichi gli lanciò una palla che però l'altro scansò agilmente e se ne
andò negli spogliatoi lasciandoli da soli. Però, né Sakuragi né Sendo si
accorsero di Rukawa, fermo per un paio di secondi di troppo sulla soglia
della porta, le spalle rigide mentre le nocche della mano stringevano la
maniglia della porta facendosi bianche.
"Come mai qui, Akira?" l'asciugamano sulle spalle, si asciugava il viso
mentre l'altro gli sorrideva con quel sorriso particolare che riservava solo
a coloro cui voleva davvero bene, che amava.
"Pensavo potessimo passare la serata insieme..." fece speranzoso.
Hanamichi scosse la testa "Akira, non credo sia il caso, te l'ho già
detto... io non..."
"Non ti piace stare insieme a me..." la testa piegata da una parte e occhi
bassi come quelli di un cucciolo preso a bastonate.
"Non è vero!!" abbassò il viso e iniziò a dondolare piano sui talloni "Lo
sai che mi piace stare con te..." un sussurro lieve quanto il rossore che
gli imporporò le guance.
Sendo gli posò una mano sul braccio "Ti prego! Ti prometto che non farò o
dirò nulla che possa darti fastidio!" Hanamichi lo guardò e dopo un po'
annuì, forse ancora un po' dubbioso.
"Il tempo di farmi una doccia" e voltandogli le spalle raggiunse Rukawa
nello spogliatoio proprio mentre questi stava avvolgendosi nel proprio
accappatoio.
Il capitano lo osservò di sottecchi spogliarsi e lavarsi alla velocità della
luce... ci tieni così tanto a passare il
tuo tempo con lui?...
Camminavano lontano dalle vie piene di negozi e caffè, preferendo - o
meglio, Sendo lo preferiva - poter rimanere da soli l'uno con l'altro.
All'inizio non l'aveva colpito, se non come una persona esuberante,
estroversa, istrionica, a volte - forse - addirittura arrogante nel suo modo
di fare. E invece, adesso, se n'era innamorato. Innamorato non solo con la I
maiuscola, ma scritto tutto grande e sillabato. Sendo Akira era
IN-NA-MO-RA-TO.
Amava come mai aveva fatto prima un ragazzo dotato di un cuore enorme,
ingenuo come un bambino nel suo candore, puro come la neve appena sospinta;
eppure, proprio a causa di questa limpidezza d'animo, capace di farlo
soffrire come neanche il più grande torturatore della storia sarebbe stato
in grado di fare.
Si fermarono sui gradini di una scaletta che portava alla spiaggia. Akira
avrebbe voluto continuare, camminare sul bagnasciuga, ma Sakuragi preferiva
restare lì. Parlare, perché alla fine sapevano entrambi che Sendo non
sarebbe riuscito a mantenere la sua promessa, era meglio farlo da fermi, con
la possibilità di guardarsi negli occhi. Parlare... eppure nessuno dei due
apriva bocca.
Sendo aveva... non proprio paura... era più qualcosa che si avvicinava al
terrore puro; Hanamichi invece sapeva ciò che l'altro voleva dirgli e non
era intenzionato a parlare per primo, qualsiasi cosa avesse detto sarebbe
potuta essere male interpretata.
"Io ancora non riesco a capire..." talmente triste la sua voce che chiunque
avrebbe provato il desiderio di abbracciarlo e consolarlo; e anche se
Hanamichi non faceva eccezione, non poteva. Lo aveva già fatto e proprio per
questo ora erano lì "Io ti amo eppure è come se non te ne importasse
niente..." non era vero, e lo sapeva, ma quando si sta male il desiderio di
far soffrire l'altro come noi è grande "...o non fosse abbastanza; e... lo
so che anche tu mi vuoi bene, allora perché non vuoi stare insieme a me?" si
girò per ammirare il suo profilo ritrovandosi invece specchiato in gocce
d'ambra prive di inclusioni, gli sorrise "Ti faccio così schifo?"
Sobbalzò a quella domanda, come poteva anche solo lontanamente pensarla una
cosa di quel genere? "Akira, tu non mi fai schifo..." non avrebbe dovuto, ma
gli accarezzò una guancia con un dito "...se fosse così non avrei mai fatto
l'amore con te, ti pare?" e gli sorrise dolcissimo, in un modo tale che era
proprio solo di Hanamichi. Non esisteva un sorriso egualmente dolce in tutto
l'universo.
"Ma hai davvero fatto l'amore con me?" gli catturò il polso e baciò il palmo
della mano "Io sono sicuro di aver fatto l'amore con te... ma tu? Non era
forse solo..." odiava dirlo, anche solo pensarlo, faceva sembrare squallida
una persona meravigliosa come Hanamichi, quando invece non lo era "...solo
il desiderio di dare conforto a qualcuno che vedevi soffrire?"
Hanamichi ritrasse la mano, portandosela al petto, gli occhi spalancati "E
cosa ci sarebbe di sbagliato? Aiutare qualcuno che si vede soffrire non è
una buona azione?" la sua mamma e il suo papà gli avevano insegnato poche
cose, ma due di queste erano l'altruismo e la generosità. Quando si vede
qualcuno in difficoltà non si deve girar loro le spalle, ma porgere una mano
e aiutare.
"Sì Hana, lo è, però..." si girò verso il mare. No, era sbagliato. Era
sbagliato alla base il pensiero che aveva fatto e che era stato sul punto di
dirgli. Non poteva essere colpa di Hanamichi se le persone cui offriva il
proprio aiuto poi si innamoravano di lui, senza capire che il suo era stato
solo un gesto altruistico. Scosse la testa "Nessun 'però'. Io ti amo e tu
no, tutto qui... ma... perché non provi a darmi una possibilità?" gli
riprese la mano, attirandolo leggermente verso di sé "Mi hai sempre e solo
detto 'no', senza alcuna spiegazione, ma ora la voglio! Credo di
meritarmela!"
Il ragazzo lo guardò, corrugando la fronte, come poteva spiegarglielo..? Non
ci sarebbe riuscito, per questo optò a favore di qualcosa che per quanto
difficile era di più comprensione: "Io non credo nell'amore..."
s'interruppe, cercando le parole adatte, e non notò il pallore cadaverico
dell'altro "...nell'amore che nasce e cresce nel tempo. L'amore per me è
istinto... quando mi innamorerò so che sarà un colpo di fulmine..." e gli
sorrise, gli occhi lucidi "Mi dispiace, non so spiegarmi meglio..."
E cosa mai poteva lui contro queste convinzioni? Parlare, esporre le sue
ragioni e le sue speranze? D'altronde Hanamichi aveva in parte ragione, i
sentimenti sono istinto e non si può cambiare idea a tal proposito di punto
in bianco, solo con una discussione. Come minimo gli sarebbe servita una
pro... una prova... reale...
"All'inizio non ti sopportavo" gli sorrise, quel famoso sorriso che gli era
valso il soprannome di Smile Man "Ti facevo una persona troppo..." si
strinse nelle spalle "...troppo. Troppo esuberante, troppo spaccone, troppo
megalomane" Sakuragi iniziò a guardarlo male: il Tensai non era nulla di
tutto questo!
"Poi invece ti ho conosciuto ed ho capito che non eri come ti credevo. Sei
una persona semplicemente splendida nel suo altruismo e anche quelle cose
che prima mi avevano colpito negativamente ora non posso fare a meno di
adorarle" gli si poggiò contro, la testa sulla spalla "Ti amo. Il mio amore
è nato lentamente ed è cresciuto attraverso il dubbio e l'incertezza di
riuscire a capire come fossi veramente" gli si premette un po' di più
contro, avrebbe voluto fondersi con lui per l'eternità "Non pretendo di
farti cambiare idea, so che è assolutamente impossibile, però..." si staccò
e gli prese il mento tra due dita, facendolo voltare verso di sé “...dammi
la possibilità di mostrarti che insieme potremmo essere felice e dopo...
chissà... magari un giorno potresti scoprire di amarmi... anche solo un
po'..." terminò in un sussurro.
Si ritrasse e si alzò, poggiandosi contro la ringhiera "Devo andare Akira!"
vide il dolore in quegli occhi... perché gli riusciva di procurare solo
dolore alle persone cui voleva bene? "Ma ti prometto che ci penserò..."
sorrise impercettibile e scappò via, senza guardarsi indietro, senza vedere
la piega amara che avevano assunto quelle dolci labbra morbide.
Uscì di casa verso mezzanotte, non riusciva a restare lì dentro con tutti
quei pensieri che gli frullavano per la testa. Le parole di Akira
continuavano a tormentarlo, perché era il dolore che aveva sentito in quella
voce a farlo stare male e lui non voleva. Lui donava affetto, aiuto,
comprensione a chi li chiedeva; non voleva far soffrire, non era nella sua
natura.
Aveva dieci anni e fuori si stava scatenando un uragano. Il piccolo
Hanamichi si era alzato dal proprio futon per andare a rifugiarsi nel
lettone coi suoi genitori, ma quando era entrato nella stanza era stato
accolto da strani rumori, la voce della mamma era strana... come se il papà
le stesse facendo qualcosa di cattivo "...mamma... papà..?" I due erano
sobbalzati e lo avevano guardato sorpresi, spaventati. La donna era stata la
prima a riprendersi, e coprendosi con una coperta aveva fatto cenno al
figlio di avvicinarsi "Cosa c'è Hana-chan?"
"Ho... ho paura..." aveva sussurrato tremante, stretto al proprio cuscino,
ma la madre gli aveva sorriso e prendendolo in braccio lo aveva messo tra
loro due.
Dopo un po', quando il suo cuoricino si era calmato, si era girato verso il
papà che aveva una strana faccia, però gli sorrideva "Papà... cosa stavi
facendo prima alla mamma?"
L'uomo arrossì sino alle punte delle orecchie, senza sapere cosa raccontare
al figlio. Le tre di notte, nel bel mezzo di un uragano, non gli sembrava il
momento più adatto per raccontare al proprio figlio la storia delle api e
dei fiori.
Una mano morbida posatagli sulla fronte, a carezzargli i capelli "Hana-chan,
quando due persone si vogliono bene hanno tanti modi per dimostrarselo. A
volte basta una carezza" la donna gli sfiorò una guancia "Un bacio" gli
baciò la testa "O un sorriso" il bambino non lo poté vedere, ma sua madre
sorrise dolcemente "E poi, esiste una cosa che si chiama
fare l'amore..." a quel punto anche
lei si fermò, non sapendo come andare avanti.
"E cosa vuol dire?" il bambino si girò nel suo abbraccio per guardarla negli
occhi.
"Sei ancora troppo piccolo adesso per capirlo... mio piccolo Tensai..." gli
sfiorò le labbra con un dito "Ma non credere a quello che potrà mai dirti la
gente quando crescerai... fare l'amore è sempre un atto bello e giusto...
anche quando a guidarlo sono sentimenti tristi come dolore e disperazione...
a volte, fare l'amore vuol dire
anche riuscire a consolare qualcuno che sta soffrendo..."
E lui, da allora in poi, non aveva mai dimenticato le parole della sua
mamma, riuscendole però a comprendere appieno solo quando ebbe tredici anni
e alle medie, un senpai della sua stessa sezione perse la sorellina in un
incidente stradale.
Insieme a pochi altri era stato al funerale, ma sembrava che il senpai
avesse bisogno solo di lui. Non appena lo aveva visto, gli era andato
incontro, chiedendogli di tenergli la mano durante il funerale. E lui
naturalmente lo aveva fatto.
A cerimonia conclusa lo aveva riaccompagnato a casa e una volta in camera
sua il ragazzo più grande si era lasciato andare a quel pianto che aveva
trattenuto di fronte alla famiglia e ai compagni di scuola. Lacrime che però
non si vergognava di mostrare a quel gigante dai capelli rossi e dallo
sguardo così dolce. Lo aveva abbracciato, come faceva la sua mamma con lui
quando era piccolo, massaggiandogli la schiena con una mano e sussurrandogli
parole dolci, senza senso, ma carezzevoli, nel tentativo di alleviare quella
sofferenza.
E l'altro, Yuki Saitou, lentamente si era calmato, smettendo di piangere ma
rimanendo nel suo abbraccio. Non sembrava volersi staccare e Hanamichi di
certo non l'avrebbe allontanato, ma il braccio sinistro gli si era
addormentato e aveva bisogno di muoverlo. Aveva fatto per allentare un po'
la loro stretta, ma Yuki l'aveva tirato nuovamente a sé, catturandogli le
labbra in un bacio impacciato, disperato, dal sapore salato.
Fu in quel momento che il piccolo bambino di dieci anni iniziò a comprendere
le parole della madre: ...a volte, fare
l'amore vuol dire anche riuscire a consolare qualcuno che sta soffrendo...
L'altro lo aveva fatto stendere sul letto, continuando a baciarlo mentre una
mano, timida, oltrepassava il maglione per sfiorare la sua pelle calda. Si
era fermato lì, poco sopra l'orlo dei pantaloni, i polpastrelli gelidi che
si riscaldavano su di lui.
"Se...senpai..." era leggermente spaventato, voleva aiutarlo, ma aveva solo
tredici anni e zero esperienza in quel campo. Il suo primo bacio glielo
stava ancora dando Yuki, un bacio che aveva perso il salato delle lacrime
che però rimaneva in sottofondo.
Il ragazzo si era bloccato a quel sussurro spaventato... tremolante. Si era
trasformato in una statua di ghiaccio, abbandonandosi completamente sul
corpo del suo kohai, stringendo convulsamente la stoffa del maglione "Ti
prego... non te ne andare... resta con me..." Hanamichi aveva sorriso, gli
occhi lucidi per le lacrime che anche lui aveva versato insieme al suo
senpai "...d'accordo..." era stato un sussurro appena percettibile, ma
abbastanza chiaro perché l'altro lo sentisse e sollevasse il volto a
mostrargli un sorriso triste, pronunciando un
grazie privo di voce.
Si erano riseduti sul materasso, occhi negli occhi, sorrisi timidi e tristi,
gote arrossate. Piano piano avevano riavvicinato i visi, senza spostarsi...
così i loro nasi erano andati a cozzare l'uno contro l'altro. Erano
scoppiati a ridere - una risata leggera, ma da quel momento le cose erano
procedute con più tranquillità e dolcezza. La dolce reciproca scoperta dei
propri corpi, le sensazioni, il calore, il piacere che erano in grado di
donarsi con un semplice carezzarsi. Piano, timidamente, si erano spogliati.
Ridevano della propria incapacità nel non saper dove dover mettere le mani e
gemevano di quei tocchi impacciati.
E alla fine erano arrivati a quel punto oltre il quale non si sarebbero più
potuti tirare indietro.
Pregandolo con lo sguardo di essere delicato, di cercare di non fargli
troppo male, Hanamichi gli si era offerto con tutto il candore e l’innocenza
dei suoi tredici anni sotto lo sguardo ancora un po’ triste, ma pieno di
desiderio, di Saitou.
Lo aveva penetrato con un’unica spinta, strappandogli un urlo di dolore. Si
era fermato immediatamente, baciandogli il volto, asciugandogli le lacrime e
supplicando di perdonarlo. Sakuragi aveva scosso la testa e aveva sorriso,
respirando profondamente sino a quando non fu lui a muoversi contro il corpo
dell’altro. E insieme, nella tristezza della morte avevano scoperto la gioia
dell’amore.
Quando si era svegliato, Hanamichi aveva trovato il suo compagno seduto su
una sedia che lo fissava come non riuscisse a credere a ciò che vedeva; gli
aveva sorriso, ma l’altro si era alzato, indicandogli i suoi vestiti
ripiegati e voltandogli le spalle. All’inizio non aveva capito, poi Yuki
l’aveva pregato di andarsene. Ne aveva chiesto il motivo, se per caso avesse
fatto qualcosa di male, che lo aveva offeso.
A quel punto Yuki era nuovamente scoppiato a piangere, dicendogli che
avevano fatto qualcosa che mai avrebbero dovuto. Che lui, che era il suo
senpai, aveva tutta la colpa di ciò che era successo, e che non si sarebbero
più dovuti vedere. Hanamichi non capiva. Cosa avevano fatto che non
avrebbero dovuto? Lui aveva solo cercato di aiutarlo...
Ma si era alzato e lentamente rivestito. Quando fu nuovamente presentabile
si era spostato, di fronte all’altro “Senpai... io...” si torceva le dita,
lo sguardo sul pavimento come anche Yuki “...non riesco a capire... però...
se è questo che vuoi...” non disse altro e uscì dalla casa per tornare dai
suoi genitori.
Non c’era molto altro da dire riguardo al suo primo... amore?... se così lo
si voleva definire. Saitou aveva tentato, questo glielo riconosceva, ma non
era più riuscito a guardarlo in faccia dopo quel giorno e in fondo Hanamichi,
nonostante all’inizio ne avesse sofferto, poi aveva capito. Yuki non si
vergognava di ciò che aveva fatto, ma era convinto di averlo praticamente
costretto. Aveva tentato di spiegargli che le cose non stavano in quel modo,
che anche lui l’aveva desiderato, ma non ci era riuscito.
Alla fine aveva rinunciato, tenendo però il ricordo di quel freddo
pomeriggio invernale tra i suoi più cari e dolci ricordi. E fu allora che
scoprì nel sesso, nella dimostrazione fisica dell'amore, dell'affetto, della
solidarietà, della pietà e della compassione, uno dei più potenti strumenti
d'aiuto. A qualcuno forse poteva apparire squallido, ma a volte tutto ciò
che serve ad una persona, più di tremila discorsi, di comprensione o di
qualcuno che ascolti è... il semplice contatto fisico.
A quell’ora erano pochi i locali aperti, e quei pochi non si potevano
proprio definire rispettabilissimi. Ma quando si ha sete alle quattro di
mattina non si può essere troppo schizzinosi, giusto? E fu lì che lo trovò.
Davanti una bottiglia di birra e un’aria non proprio felice.
Si avvicinò e gli batté una mano sulla spalla, sorridendo come sempre aveva
fatto anche agli allenamenti “Ehilà, Mitchi! Che ci fai qui?!”
“Fottiti Sakuragi!!” l'universitario trangugiò un quarto della bottiglia e
la sbatté sul bancone, guadagnandosi un’occhiataccia dall’uomo alla cassa.
Si sedette accanto a lui e dopo aver ordinato una birra anche per sé, rimase
al fianco del suo ex compagno di squadra, senza parlare o provocarlo. Per
capire che gli era accaduto qualcosa non ci voleva un genio, ma chiederlo
non sarebbe servito a nulla. Doveva solo aspettare che Mitsui fosse pronto a
confidarsi.
Rimasero seduti lì sino a quando non fu orario di chiusura e insieme, senza
parlare, Mitsui un po’ brillo, s’incamminarono verso casa di quest’ultimo.
Hanamichi voleva assicurarsi che ci arrivasse tutto d'un pezzo senza fare
cazzate lungo la strada.
Arrivati davanti la porta dell’appartamento Hisashi lo invitò ad entrare.
Era proprio il classico appartamento di uno studente universitario, però...
l’ultima volta che vi era stato si percepiva subito la presenza di Kogure
nella casa, ora invece sembrava non esservi mai stato. Ma ancora non chiese
nulla.
“Vuoi una tazza di caffè? Io ne ho un disperato bisogno” Sakuragi annuì,
distratto, osservando il titolo di MVP che l’altro aveva ottenuto con la
squadra universitaria.
“Sbavi su qualcosa che non potrai mai avere, eh?” era tornato con due tazze
fumanti e gli sorrideva ironico.
“Tzé, il Tensai non ha bisogno di sbavare sui tuoi premiucci da quattro
soldi! Tra poco tutti conosceranno il mio enorme talento, tutti si
inchineranno davanti a me, l'NBA...”
“Blablabla... conosco le tue sparate Sakuragi, non c’è bisogno che me le
ripeti ogni volta” e gli porse una tazza che l’altro prese con sufficienza,
sedendosi sul divano, espressione indignata sul volto.
Lo stereo acceso poco prima diffondeva nell'aria i rumori della natura. In
quel momento era in corso un temporale estivo in un bosco. Non avrebbe mai
fatto Mitsui tipo da roba del genere, faceva tanto... beh, new age.
"Questo è tutto ciò che mi è rimasto di Kimi-kun..."
Si voltò di scatto guardandolo incredulo. Cosa significava? Che gli fosse
successo qualcosa era evidente, ma pensava a qualcosa tipo... che ne
sapeva... la morte del gatto... la dipartita di una vecchia zia... non...
non questo! Lui e Quattr'occhi erano la coppia per antonomasia, non potevano
aver rotto!
"Cos'è successo..?" tono dolce.
Si strinse nelle spalle "Lo devo ancora capire... ha detto che non era più
sicuro di amarmi... e che fosse da pazzi credere di poter trovare a soli
quindici anni l'amore della propria vita..." bevve un sorso di caffè "...non
lo so... forse ha ragione..."
Mitsui Hisashi. Il miglior realizzatore da tre punti che lo Shohoku avesse
mai avuto, dichiarato miglior giocatore del campionato universitario, più
volte chiamato a far parte della nazionale giapponese... era ora davanti ad
uno dei suoi pochi amici e aveva gli occhi pieni di lacrime. Il suo piccolo
Kimi-kun l'aveva lasciato da solo una settimana e lui era già in uno stato
pietoso... come si sarebbe ridotto nel giro di un mese?
Si guardò intorno, sorridendo amaro "Si sente la sua mancanza, non è vero?
Si è portato via tutto... non è rimasto più nulla qui di suo... come non ci
fosse mai stato..." prese il telecomando e alzò il volume della pioggia "...questo
CD è tutto ciò che mi è rimasto di lui... se lo deve essere dimenticato..."
cercava di convincersi che Kiminobu l'avesse fatto apposta, per lasciargli
qualcosa appartenente a se stesso, ma conosceva il ragazzo che amava e
sapeva che quando decideva di porre fine a qualcosa non si lasciava mai
niente alle spalle.
Quando se n'era andato dalla casa dei genitori per andare a vivere con lui
aveva addirittura rovistato tra gli abiti da lavare e quelli da stirare per
essere sicuro di non lasciare più alcun segno della propria presenza.
Si riscosse dal suo torpore, sorridendo all'ex compagno di squadra "E tu?
Che succede allo Shohoku?" gli sorrise... o quanto meno tentò "Rukawa come
se la cava come capitano?"
Eruppe in una risata sproporzionata, megalomane, nel miglior stile Sakuragi
Hanamichi: "Che domande! La volpe non saprebbe che fare se io non fossi
nella squadra! Non è mai stato un granché e di certo non poteva pretendere
di raggiungere i livelli del sublime Tensai in appena due anni!!"
"Certo... certo..." tono di compatimento per un povero pazzo che non sa di
esserlo.
"Ehi, Mitchy, mi stai per caso prendendo per il culo?" alzò un sopracciglio,
minaccioso.
"Ioo??" si puntò un dito contro "Non potrei mai... genio dei miei stivali!!"
"Ma io ti distruggo!!" gli si lanciò addosso, iniziando a picchiarlo per
gioco. Pugni che colpivano appena, calci che non avrebbero mai procurato
alcun livido. Ma all'improvviso uno di quei scherzosi pugni lo colpì in
pieno viso, spaccandogli un labbro.
Stava per donargli una meritata testata quando vide gli occhi colmi di
lacrime, le guance rigate e gli sorrise strafottente "Beh, tutto qui quello
che sai fare?"
Si lasciò colpire senza porre una vera difesa ai pugni di Mitsui,
permettendogli di sfogare la propria rabbia e frustrazione. Gli permise ciò
che a nessuno avrebbe mai permesso: deturpare lo splendido volto del genio.
Ma in fondo... per gli amici bisogna essere pronti a sacrificarsi, no?
Gli crollò fra le braccia, singhiozzante e si lasciarono cadere seduti a
terra, Mitsui tra le gambe di Sakuragi. Premeva il volto contro il suo
torace e stringeva tra le mani il maglione dell'altro, inondandoglielo di
lacrime.
Lo strinse a sé, lasciandolo sfogare, aiutandolo a buttare fuori tutto
quanto, facendosi raccontare cosa fosse successo. L'atteggiamento
insofferente che aveva assunto Kogure nell'ultimo mese e infine quella
pugnalata alle spalle, come l'aveva definita Mitsui tra le lacrime.
Il ragazzo si addormentò, sfinito, tra le sue braccia e Hanamichi lo portò
in braccio nella camera da letto sistemandolo fra le lenzuola di quel letto
occidentale, spogliandolo. Gli rimboccò le coperte e si sdraiò al suo
fianco, rimanendo a fargli compagnia. Era importante che al suo risveglio
Mitsui trovasse qualcuno al suo fianco.
Sorrise nel leggero dormiveglia che precede il risveglio, stuzzicato dal
profumo del caffè appena fatto, dei piatti e del pentolame usato in cucina.
Era da un sacco di tempo che Kiminobu non gli preparava più la colazione.
Ora se ne sarebbe rimasto lì al calduccio sotto il piumone e tra poco il suo
ragazzo avrebbe varcato la soglia della stanza con un vassoio ricolmo di
leccornie preparate pensando solamente a lui...
Ma il suo Kimichan non era così alto e non aveva capelli di un cupo rosso
vino nella penombra della stanza "Buongiorno Mitsui" gli sorrise con
affetto, posandogli davanti il vassoio che era esattamente come Hisashi
l'aveva immaginato.
Si tirò a sedere, passandosi le mani nei capelli, mentre la notte appena
trascorsa gli tornava alla mente. Ricordò di aver fatto a pugni con Sakuragi
e di essergli poi crollato addosso "Come va il labbro?" era gonfio e
tumefatto.
"Non è nulla, un paio di giorni e il tensai tornerà più bello di prima!" il
sorriso tirato, quasi forzato, cozzava contro quella voce allegra, ma più di
così al momento non riusciva a fare. Versò il caffè in una tazza nera con
una grande scritta in rosso good morning
big boss e la porse al suo ex compagno di squadra.
"Io..." si sentiva lievemente a disagio.
Capiva che Sakuragi aveva passato la notte con lui, vegliandolo, e gliene
era grato; eppure non riusciva a ringraziarlo. Non gli andava giù l’essersi
fatto vedere in quello stato pietoso dal suo kohai. E poi... quando era
scoppiato a piangere fra le sue braccia...
Hanamichi posò la tazza sul vassoio, catturandogli le mani fra le sue,
stringendole rassicurante e sorridendogli "Va tutto bene... non c'è nulla di
cui preoccuparsi o vergognarsi Hisashi..."
Alzò lo sguardo all'improvviso. Da che ricordasse quella era la prima volta
che lo chiamava per nome, o almeno con quell’intonazione "...Hana...michi..."
Gli sfiorò il viso, carezzando quel pallido livido che gli aveva procurato
la sera precedente con un pugno mal calcolato e avvicinandosi lo baciò su
quel punto, risalendo per posarne un altro sulla fronte. Se ne allontanò
leggermente, sorridendogli con dolcezza infinita "Andrà tutto bene Hisashi,
te lo prometto... anche se al momento non sembra, ti prometto che tutto si
risolverà..." si alzò dal letto posandogli sopra il vassoio le gambe "Ora fa
colazione e poi vattene all'università. E non provare a rimanertene qui
chiuso in casa, tanto dopo ti chiamo e sentirò se mi dirai la verità" si
guardò intorno alla ricerca della giacca e l'adocchiò nell'altra stanza
sopra il divano "Devo andare, entro mezz'ora dovrei essere a scuola"
"Hanamichi..."
Si voltò, aspettando che gli dicesse qualcosa ma l'altro si limitava a
fissarlo sperduto. Sorrise "Ti chiamo più tardi" e uscì dalla stanza e
dall'appartamento, correndo felice verso casa propria. Era sicuro di aver
fatto una buona cosa.
In meno di
quaranta minuti, non sapeva neanche lui grazie a quale miracolo, era
riuscito ad andare a casa, cambiarsi, afferrare la cartella e arrivare in
classe per il rotto della cuffia, poco prima che il professore ritardatario
facesse il suo ingresso.
Vide Yohei lanciargli un’occhiata preoccupata - sapeva che lo aveva cercato
quella mattina molto presto - ma gli sorrise facendogli cenno con una mano
che gli avrebbe spiegato tutto più tardi. Beh... ovviamente non tutto.
Diciamo che avrebbe omesso certi particolari... e questo non è proprio
mentire, no?
Non gli piaceva non poter raccontargli tutto, ma conosceva Yohei abbastanza
bene da sapere cosa poteva davvero raccontargli e cosa no. La sua non era
mancanza di fiducia, tutt’altro - Yohei era la persona di cui più si fidava
al mondo, ma non poteva permettersi di perderlo. Era il migliore amico che
avrebbe mai potuto desiderare e non voleva perderlo per una cosa che sapeva
non facilmente comprensibile.
Non disperava, forse un giorno avrebbe potuto dirgli tutto, ma per il
momento non era il caso di far luce su certi dettagli della sua vita.
“...e così quello stronzo di un addetto alla sicurezza del parco mi ha
cacciato via stamattina all’alba, neanche fossi il peggiore dei criminali
sulla faccia della terra e gli stessi rovinando le sue amatissime peonie!!”
e si riempì la bocca di riso, sin quasi a strozzarsi , mentre Yohei e gli
altri continuavano a ridere delle sue finte disavventure, incuranti della
sua sensibilità ferita.
Era facile, in fondo. Gli bastava farli ridere per non indurli in pensieri
dubbiosi nei suoi confronti. Gli bastava raccontare qualcosa che avrebbero
potuto fare insieme e di cui avrebbero riso sino alle lacrime. Come adesso.
S'ingozzò con l'ultimo pezzo di panino e si pulì le mani col tovagliolo per
poi appallottolarlo e lanciarlo verso il cestino... che mancò solo di quei
due o tre anni luce per fare canestro. Si alzò tra le risa di scherno dei
suoi amici e rimediò ai loro problemi cerebrali con una bella testata, sotto
lo sguardo ironico e leggermente divertito di Mito.
"E così eri talmente stanco che ti sei addormentato nel parco, eh?"
Si voltò verso l'amico, sorpreso da quella domanda "Esatto, proprio così" e
vide negli occhi dell'altro il dubbio, ma entrambi tacquero. Perché la
verità non dev'essere estorta; essa deve essere porta con fiducia.
Le lezioni pomeridiane trascorsero col loro solito tedio e l'unica nota di
colore fu durante la lezione di chimica in seguito alla quale due ragazze si
ritrovarono del tutto prive di sopracciglia, con loro grande disperazione ma
divertimento dei compagni per quell'esperimento riuscito decisamente male.
Aspettò che tutti i ragazzi fossero usciti dagli spogliatoi per iniziare il
riscaldamento, prima di chiamarlo. Gli squilli sembravano stessero andando
avanti da un'infinità e stava quasi per arrendersi - decidendo di andare a
casa sua subito dopo l'allenamento - quando una voce irritata gli perforò il
timpano. Sollevò il sopracciglio, cercando di mantenere la calma "Speravo in
un saluto un po' più gentile, Mitchi..."
"Ha...Hanamichi!" strinse con forza il davanzale della finestra prima di
girarsi e poggiarvisi contro "E' che stavo a lezione... sono dovuto uscire
di corsa sotto lo sguardo omicida del professore"
"Ah, scusami, non volevo distur..."
"NO!" il respiro gli si mozzò in gola per il piccolo grido che aveva fatto
voltare un paio di persone nel corridoio "Non... non disturbi... io... sono
felice di sentirti..." ma perché lo era? Perché ora gli importava così tanto
di una persona che sino alla sera precedente non era altro che un ex
compagno di squadra e qualcosa più di un conoscente ma meno di un amico?
“Beh, ti avevo detto che avrei chiamato, no?” sorrise nel rendersi conto che
se anche con una piccola cosa come l’andare a lezione, il suo amico aveva
iniziato a reagire “Ok, stanno cominciando gli allenamenti quindi dovrei
andare, però che ne dici di vederci da qualche parte più tardi?” era
convinto fosse bene non passasse la sera da solo. Per quanto si fosse
dimostrato forte nell’andare all’università, la sera doveva ancora essere il
momento peggiore.
“Sì, certo!” aprì e chiuse il pugno più volte per far riprendere la
circolazione nelle dita che troppo a lungo e troppo strettamente avevano
afferrato il davanzale della finestra. Si passò una mano fra i capelli
cercando di calmarsi “Senti, ti mando un messaggio più tardi, d’accordo?
Devo assolutamente tornare in classe se non voglio che il professore mi
squarti” e non appena ricevuta risposta affermativa da Sakuragi si affrettò
a chiudere la telefonata, mentre gli ultimi studenti uscivano dall’aula e
lui vi rientrava per recuperare le proprie cose.
“Pensi ci degnerai della tua presenza, do’hao, o l‘organizzazione della tua
vita sociale ti impegna troppo?”
Hanamichi chiuse l’armadietto dopo avervi riposto il cellulare e sorrise
ironico a Rukawa “Kitsune! Ti trovo particolarmente loquace oggi. Cos’è
successo?” gli andò davanti avvicinando i loro visi e inclinando il proprio
verso sinistra “Sicuro di stare bene?” lo trovava un po’ pallido...
“Mph! Sbrigati!” e voltandogli le spalle tornò in palestra. Nella calda,
sicura e confortevole palestra che non gli faceva venire un collasso ogni
volta che la vedeva. Raccolse la palla sfuggita ad una delle riserve del
primo anno e iniziò ad allenarsi mentre Anzai e Sakuragi si occupavano del
resto della squadra.
Solitamente partecipava anche lui, ma tutti sapevano che quando prendeva un
pallone, iniziando a lavorare da solo davanti il canestro era meglio
lasciarlo stare se non si voleva venire sbranati.
L’ennesimo tiro da tre entrò liscio come l’olio, attraverso il morbido
fruscio della retina mentre la rabbia dentro Kaede cresceva a dismisura.
Perché aveva dovuto ascoltare la sua telefonata, eh? Perché doveva sempre,
ogni volta, continuare a farsi del male in quel modo? Perché non riusciva a
rassegnarsi; a dire ok, non mi vuole,
pazienza!?
No, lui doveva continuare a sperare, a pregare, a supplicare che Hanamichi
si accorgesse di lui. Ma perché? Per quale assurdo e sadico gioco del
destino doveva innamorarsi dell’unica persona sulla faccia della terra che
lo considerava a malapena un compagno di squadra? Forse, ma non era tanto
sicuro, Sakuragi pensava a lui anche a qualcosa di simile ad un amico, ma
non ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
In quei due anni si era sentito incredibilmente vicino alle sue fan, e per
un po’ di tempo aveva persino pensato di cambiare lievemente il proprio
atteggiamento nei loro confronti, ma poi - dopo attenta riflessione - aveva
capito che così facendo avrebbe solo peggiorato la propria situazione, e
aveva quindi desistito. In quel tempo la lieve cotta infantile che era
riuscito ad ammettere fra i denti, verso la fine del primo anno, era
cresciuta in un modo che non avrebbe mai ritenuto possibile. Non sapeva se
era amore nel vero senso della parola... ma se non lo era ci andava
pericolosamente vicino e ogni volta che rifletteva attentamente su questa
possibilità sentiva una morsa alla bocca dello stomaco.
Perché lui non riusciva a pensare ad un Hanamichi felice lontano da lui.
Kaede sentiva, sapeva, che Hanamichi
sarebbe stato davvero felice solo
con lui accanto... ma lottare per ottenere ciò che voleva... no, questo non
riusciva ancora a farlo. Era troppo difficile. Troppo complicato. Troppo
pericoloso.
Si accorse a malapena degli altri che se andavano negli spogliatoi per la
doccia e fu tentato si seguirlo, ma vi rinunciò perché quel giorno non era
in vena di stare peggio di quanto già non stesse. Gli bastava sapere che si
sarebbe incontrato con Mitsui per stare da cani. E già sapeva quale sarebbe
stata la conclusione della loro serata.
Non avrebbe neanche più saputo dire quando era accaduto esattamente. Sapeva
solo che quando era successo aveva sentito le mani prudere per andare da lui
e prenderlo a pugni sino a rimettergli un po’ di quel sale in zucca che gli
faceva grandemente difetto.
In un ristorante in cui era andato coi propri genitori per festeggiare il
compleanno di sua madre, lo aveva visto seduto da solo a un tavolo un po’
appartato ed aveva, in un gesto non proprio dettato dal solo altruismo,
pensato di invitarlo a sedersi lì con loro, quando il volto di Hanamichi si
era illuminato. Seguendo con odio la direzione del suo sguardo si era
ritrovato ad osservare l’incedere elegante di Sendo fra i tavoli del locale.
Non c’era di sicuro voluto un genio per capire cosa ci fosse fra quei due,
eppure aveva creduto di sbagliarsi - e aveva esultato dentro di sé - quando
in un pub sulla spiaggia, durante l’estate, l’aveva visto in compagnia di
un’altra persona. Ma la sua felicità era durata solo pochi istanti, perché
anche con questo sconosciuto Hanamichi aveva lo stesso sguardo della prima
sera.
E a partire da quel momento aveva cominciato a farsi nella testa certi voli
che neanche Icaro nella sua forma migliore sarebbe mai stato in grado di
fare. Sebbene se la sua più longeva idea fosse sempre quella di lui quale
gigolò, c’era in questa qualcosa che stonava, perché qualcuno che si
guadagna da vivere a quel modo non aveva di sicuro quella luce negli occhi:
quella luce dolce e serena che sempre scorgeva negli occhi di Hanamichi.
E aveva rinunciato a capire, continuando però a farsi divorare dalla
gelosia, dall’odio e dalla rabbia. Perché non era giusto. Perché Hanamichi
non si accorgeva di lui? Di lui che sarebbe stato pronto ad uccidere per
stare al suo fianco anche solo per un’ora.
Schiacciò la palla nel canestro con tanta forza da fargli temere di averlo
rotto, ma atterrò a terra sano e salvo proprio mentre l’oggetto di ogni suo
pensiero usciva dalla palestra salutandolo con un sorriso e il cenno di una
mano.
Seguirlo e afferrarlo per un braccio. Stringerlo a sé e baciarlo. Erano cose
che sognava sempre più spesso. Lo avrebbe baciato con dolcezza e Hanamichi
lo avrebbe ricambiato. Non ci sarebbe stato bisogno di parole, perché tutto
ciò che d’importante c’era se lo sarebbero detti i loro occhi. Ma non lo
aveva mai fatto. Di fronte al sicuro rifiuto di Hanamichi aveva troppa
paura.
Il locale era stato ricavato da una vecchia palazzina di quattro piani
vicino il centro. Gli ultimi due piani erano discoteche, mentre il primo e
il piano terra erano stati rispettivamente trasformati in un ristorante e in
un piano bar. Dopo essere passato di casa a cambiarsi, Hanamichi si era
incontrato con Mitsui ad un chiosco che vendeva ramen, dove avevano cenato,
e si erano poi diretti verso quel locale che Sakuragi non conosceva ma che
gli era piaciuto non appena messoci piede dentro.
Avevano preso da bere - niente alcolici questa volta - e ascoltando la
musica suonata dal vivo avevano iniziato a parlare. All’inizio di cose
banali e semplici come vecchi ricordi, la situazione attuale della squadra e
le possibilità di qualificarsi ai campionati nazionali. Poi, man mano che
l’atmosfera si era fatta più tranquilla, Mitsui si era ritrovato a parlargli
di Kiminobu e della loro vita insieme, dell’università, sino alla loro
rottura.
Hanamichi lo aveva ascoltato con attenzione, senza interromperlo perché
quello di Hisashi non era stato un racconto, ma il cercare di rendersi conto
di cosa fosse accaduto. Ripercorrendo la sua storia con Kogure aveva
iniziato ad accorgersi delle avvisaglie, dei segnali che c’erano stati, ma
che volontariamente aveva ignorato perché incapace di affrontarli.
Infine, dopo mezzanotte, quasi all’ora di chiusura, si erano avviati verso
casa di Mitsui riprendendo a parlare di cose stupide, a scherzare. Ma
parlavano e scherzavano come mai avevano fatto fintanto che erano stati
compagni di squadra. Come se il vedersi al di fuori dei luoghi prestabiliti
avesse fatto conoscere loro persone nuove.
Accomodandosi in salotto, Mitsui era riuscito a togliere il CD di Kogure
dallo stereo, riponendolo però con cura in una custodia vuota e poi in un
cassetto, in attesa della forza necessaria per decidere cosa farne. Lo aveva
sostituito con uno dei suoi di jazz anni ‘50 e sedendosi accanto ad
Hanamichi avevano ripreso a parlare.
Raccontandosi degli ultimi libri letti, della loro musica preferita e,
seppur timidamente, delle loro aspirazioni per il futuro. Ancora tanti vaghi
desideri e idee confuse nelle loro teste, se non la certezza di voler
realizzare qualcosa d’importante.
Sino a quando, prendendo il coraggio a due mani, Mitsui si era sporto e
l’aveva baciato. Un bacio che era più una carezza. Occhi chiusi per non
essere costretto a vedere lo sguardo furioso dell’altro, ma spalancandoli
quando aveva sentito la bocca di Hanamichi dischiudersi e una sua mano
sfiorargli il collo con la punta delle dita.
L’aveva baciato sul serio, allora, premendosi con dolcezza contro di lui e
violando la sua bocca con la lingua. Trovando il paradiso, la pace e la
serenità ad accoglierlo. Iniziando ad accarezzarlo sotto il maglione leggero
di filo lo aveva fatto alzare in piedi e senza dire una parola, prendendolo
per mano, lo aveva guidato in camera da letto.
Ma qui qualcosa era scattato dentro Hisashi. La dolcezza, la delicatezza e
l’esitazione della luce si erano fatte piccole per fare spazio alla rabbia e
al dolore del buio.
In fretta, aveva spogliato Hanamichi, facendolo sdraiare sul letto per
raggiungerlo dopo solo il tempo necessario a liberarsi anche lui dei propri
abiti. Sdraiandosi accanto quel corpo caldo aveva iniziato ad assaggiarne la
morbidezza con le labbra e i denti, ignorando i sottili gemiti di dolore, e
anzi, sorridendone dentro di sé. Continuando a baciarlo, morderlo e leccarlo
l’aveva portato sino al limite estremo, oltre il quale neanche volendolo
avrebbero mai potuto fermarsi, e lo aveva posseduto.
Con amore.
Con rabbia.
Con dedizione.
Con violenza.
Con dolcezza.
Con crudeltà.
Per ringraziarlo.
Per punirlo.
Uscendo dal suo corpo si era rifiutato di guardarlo in faccia, ma Hanamichi
gli aveva catturato il volto fra le mani e nella penombra della luce
proveniente dai lampioni in strada gli aveva sorriso, protendendosi a
sfiorargli le labbra, cercando un posticino fra le sue braccia e
augurandogli la buona notte.
Ora, alle prime luci dell’alba osservava il ragazzo che dormiva tranquillo
nel suo letto, tra le sue braccia. Allungando una mano gli sfiorò la
guancia, scivolando lungo la curva della mandibola, arrivando al mento e
scendendo sino ad arrestarsi nella fossa tra le due clavicole.
Un sussurro sfuggì alle sue labbra, un
grazie lieve e gentile come la carezza che gli aveva fatto e
Hanamichi, muovendosi nel suo abbraccio iniziò a svegliarsi.
Un piccolo sbuffo frustrato, le palpebre che cercavano di serrarsi ancor di
più per impedire alla luce del Sole di penetrarle e in un ultimo disperato
tentativo di sfuggire alla veglia, cercò anche di stringersi più forte
contro il corpo che lo stringeva a sé.
Ma corrugò la fronte quando percepì che qualcosa non era come sarebbe dovuto
essere. Sapeva di aver passato la notte con Mitsui, una notte non facile ma
che non rimpiangeva, e mai l’avrebbe fatto. C’era però qualcosa, una vaga
sensazione di disagio per quel particolare che non riusciva a mettere a
fuoco. Decise di spingerla nel fondo della propria mente e arrendendosi
all’ineluttabile destino si discostò un po’ dal suo amante per aprire gli
occhi e rivolgergli il primo sorriso del mattino.
“Buongiorno” la voce impastata dal sonno. L’altro gli sorrise a propria
volta e si avvicinò sfiorandogli le labbra “Buongiorno”.
Hisashi avrebbe voluto scusarsi per quella notte, per come l’aveva trattato,
eppure una parte di lui gli diceva di non farlo. Non perché non avesse il
coraggio di farlo, ma perché non era necessario. Lo sguardo di Hanamichi era
quanto di più sincero e limpido gli sarebbe probabilmente mai stata data
occasione di vedere nella sua vita, e in quegli occhi non c’era alcuna
traccia di odio, risentimento o dolore. Gli si avvicinò di nuovo e lo baciò
con tanta dolcezza e dedizione come non aveva mai fatto.
Quando finalmente si staccarono un momento per riprendere fiato, Hanamichi
si accomodò meglio sotto di lui, intrecciandogli le mani dietro il collo. Lo
vide lanciare un’occhiata alla sveglia, sbuffare e abbandonarsi contro i
cuscini ad occhi chiusi con espressione afflitta; ma quando li riaprì la
loro espressione era divertita e giocosa.
“Credo che oggi il liceo Shohoku farà a meno del Tensai...” e mentre lo
diceva gli passava le mani fra i capelli, stupendosi internamente di non
trovarli morbidi quanto si era aspettato “Tu invece devi andare
all’università” disse serio.
Mitsui sollevò un sopracciglio “Perché?”
Gli tirò piano una ciocchetta di capelli facendogli la linguaccia “Perché lo
dico io” si mosse sotto di lui, cercando di allontanarsi “Avanti, fammi
alzare”
Ma Hisashi non era dello stesso parere e catturandogli i polsi li strinse
contro i cuscini, ai lati della testa “Allora, cos’è che dicevi?”
Hanamichi tentò di scalciare ma, dopo l’infruttuoso tentativo di liberarsi
le mani, anche quello si rilevò del tutto inutile “Dicevo” sibilò con
divertita rabbia “che dobbiamo alzarci. Tu devi andare all’università ed io
devo assolutamente farmi vedere da mia madre se non voglio che cominci a
farmi pagare l’affitto per l’usufrutto della mia stanza”
Il moro storse le labbra in un’espressione non del tutto convinta, ma dopo
avergli rubato un bacio si sollevò sedendosi sui fianchi dell’altro
“D’accordo, però facciamo la doccia insieme” stava cercando di ottenere
quanto più tempo possibile, perché sapeva che quand’avessero varcato l’uscio
di quell’appartamento, tutto sarebbe tornato come sempre era stato e che
quella notte sarebbe dovuta rimanere un ricordo.
“D’accordo!” sbuffò esausto, scoppiando in una risata argentina, tirandosi
anche lui seduto e facendo morire gli ultimi singulti di riso sulle labbra
dell’altro che lo abbracciò facendolo nuovamente sdraiare sul letto.
A mattina inoltrata, quando finalmente erano riusciti ad alzarsi dal letto
per fare la famosa doccia e vestirsi, Hisashi era riuscito ad accettare il
fatto che mai più lui e Hanamichi sarebbero stati insieme come in quelle ore
perché aveva anche capito che quello dell’altro era stato il suo modo di
aiutarlo, di consolarlo e di farlo riprendere per continuare ad andare
avanti con la sua vita.
Varcarono quel temuto uscio ridendo di un cliente che avevano visto nel
locale la sera precedente e una volta all’aria aperta Hanamichi stava per
salutarlo quando Mitsui lo attrasse con forza a sé per rubargli un ultimo
bacio. Si separò da lui, passandogli dolcemente una mano tra i capelli,
scendendo lungo il viso fino alle labbra. Le sfiorò con la punta delle dita
e guardandolo negli occhi gli sorrise. Fece un piccolo gesto con la testa e
scappò via in direzione della fermata della metropolitana.
Il volto di Hanamichi perse in un solo istante tutta la serenità, la
dolcezza e la complicità che aveva mostrate sino a quel momento; sostituite
da dubbio, confusione e vago dolore. Continuava ad esserci quella nota
stonata dentro di lui, quel qualcosa
che gli diceva che tutto quello che aveva fatto, per quanto lo reputasse
corretto, in realtà non lo era. Non lo era perché... Strinse forte i pugni e
si rifiutò di accettarlo. Non poteva essere in quel modo, non
doveva essere in quel modo.
Si diresse nella parte opposta a quella di Mitsui per raggiungere la
stazione di un’altra linea della metropolitana e tornare a casa. Sua madre
era tornata due giorni prima e l’aveva appena intravista e salutata tra
un’uscita e l’altra. Tutto ciò che desiderava adesso era poterla vedere,
parlarle e chiederle perché mai si sentisse in quel modo che lo faceva stare
male e sbagliato. Ma quando aprì il
portoncino del loro appartamento e alzò la voce per segnalare il suo ritorno
a casa, ci fu solo il silenzio ad accoglierlo nel suo freddo abbraccio.
Aveva tentato di scaricare tutta la sua rabbia durante l’allenamento
mattutino, ma al pomeriggio, dopo lezioni e professori più irritanti del
solito, essa era ancora tutta dentro di lui; a prendersi beffe di lui.
Infinite immagini di Sakuragi e Mitsui, insieme, gli erano danzate davanti
gli occhi, ognuna più vivida e reale della precedente.
E così anche gli allenamenti pomeridiani erano stati un disastro completo.
Non che all'esterno fosse possibile notare nulla, ovviamente no, ma
lui sapeva che il suo rendimento non
era il solito, che la sua concentrazione non era la solita e questo bastava
per farlo andare ai pazzi. Niente e nessuno avrebbe mai dovuto avere il
potere di distrarlo dal basket.
Prese la palla dal borsone e iniziò a tirare a canestro, esercitandosi in
qualche finta, tentando di recuperare la concentrazione e parte
dell'esercizio che quel giorno era stato mandato alle ortiche per colpa
dell'idiota.
Il pallone rimbalzò con rabbia contro la rete metallica, mentre il suo
padrone rimaneva immobile al centro del campo, ansimante.
Se avesse continuato ancora a lungo in questo modo, la sua salute avrebbe
cominciato a risentirne, lo sapeva. Avrebbe dovuto cercare di farsela
passare, questa maledetta infatuazione, ma in che modo? In che modo se metà
della sua giornata era legata a lui? In che modo, se quel sadico
mattacchione del destino li aveva fatti finire nella stessa classe? In che
modo, se con lui doveva discutere della squadra, della strategia nelle
partite, degli esercizi per gli allenamenti?
"Ehi, volpe, che succede?"
Si girò di scatto al sentire quella voce inattesa e, in quel momento, odiata
"Vattene Sakuragi, oggi non è giornata!" raccolse il pallone rotolato via,
poco lontano da sé, e lo rimise nella borsa, pronto ad allontanarsi di lì
alla velocità della luce se necessario.
"Rukawa... che hai?"
Lo odiava, sentiva di odiarlo con tutte le sue forze. Come poteva, come
osava, preoccuparsi per lui se era
lui stesso la causa dei suoi problemi? E parlargli con quella voce
impensierita, come se i suoi problemi a lui davvero interessassero.
"Nulla do'hao... ma il misantropo oggi ha meno voglia del solito di stare
con gli altri, ok?" aprì il lucchetto con cui aveva assicurato la mountain
bike ed era pronto ad andarsene quando l'idiota fece la cosa più idiota che
avrebbe mai potuto fare.
"Ru, che succede? Posso aiutarti?" e gli posò una mano sulla spalla,
stringendo leggermente come a volergli trasmettere conforto e dirgli:
non sei solo, se hai bisogno di aiuto io
sono qui. Per te. Beh, tutto questo era l'ultima cosa al mondo di cui
Kaede necessitasse.
Alzarsi, prepararsi e vederlo cadere a terra dopo il suo pugno per lui
accadde tutto in istante. E anche per Sakuragi non doveva essere parso molto
più tempo visto che non aveva neanche accennato a difendersi.
Hanamichi si passò una mano sulla bocca e sulla mascella, lasciando una
striscia rossastra di sangue sulla guancia, fissandolo attonito e stordito
"Che diamine ti prende, kitsune?"
Respirava affannosamente, quasi incredulo per ciò che aveva fatto, perché
lui non aveva mai voluto colpirlo. Era stato istintivo... quando lo aveva
toccato, tutto ciò che aveva desiderato era che l'altro gli togliesse le
mani di dosso.
"Si può sapere che accidenti hai?"
"C'è che ti amo, dannato idiota!!!" lo vide sgranare gli occhi, trattenere
il respiro "E sono tre anni... tre maledettissimi anni che questa..." si
strinse la maglietta tra le mani, come se con quel gesto fosse stato in
grado di allontanare quel sentimento da sé "...questa...
cosa... non vuole abbandonarmi!!"
"Rukawa..." ancora sdraiato a terra fissava il suo compagno di squadra, il
suo capitano, il suo... amico... che gli confessava qualcosa di cui non si
era mai accorto.
"Tre anni... così tanto tempo... venire a scuola per te... picchiarti solo
per poter sfiorare quel corpo che ti vedo concedere a chiunque"
Hanamichi arrossì furiosamente. Cosa? Come..?
"Sono tre anni... tre anni che gioco solo per te... che... vivo... solo per
te..." gli si inginocchiò tra le gambe e lo colpì con un altro pugno, meno
forte del primo "Perché non te ne accorgi? Perché mi ignori?" aveva gli
occhi liquidi, ma si sarebbe impedito di piangere a qualunque costo. Non
avrebbe dato anche questa soddisfazione a Sakuragi. Ma fece finalmente ciò
che agognava da tempo immemore. Lo baciò.
Lo baciò con tanto trasporto da averne quasi paura. Quel bacio era la
concretizzazione di tre anni trascorsi a soffrire, sperare, amare, spiare,
seguire, odiare. Quel bacio era come nei suoi sogni: era tutto ciò di cui
aveva bisogno perché Hanamichi si rendesse conto di quello che li univa.
Ogni fibra del suo essere esultava al contatto delle mani con la sua pelle,
con le sue labbra. Una bocca morbida, dal sapore dolce come l'aveva sempre
immaginata nelle sue lunghe notti solitarie. La sua bocca era qualcosa cui
avrebbe potuto assuefarsi molto in fretta, e sarebbe stato nelle sue
intenzioni farlo se...
Si staccò da Hanamichi ad occhi chiusi, una lacrima che minacciava di
rotolare giù all'angolo dell'occhio. Le mani scivolarono via lungo la
camicia - l'unica carezza che gli sarebbe mai stata concessa. Respirò
profondamente, cercando di calmare il cuore impazzito.
"...Kaede..." ma lui scosse la testa, non voleva sentire la sua voce.
Nulla. Fra loro non ci sarebbe mai stato nulla. Hanamichi, vicino a lui, era
rimasto impassibile, freddo, immobile come non avrebbe mai creduto di
vederlo. Neanche per un istante aveva risposto al suo bacio: era
semplicemente rimasto fermo, subendo qualcosa che mai aveva voluto o
desiderato.
"...perché..?" non aveva altre domande in testa se non quella. Perché non
voleva dargli l'occasione, la possibilità di stare con lui? Di fargli capire
come sarebbe stato fra loro, di fargli scoprire ciò che li univa.
Si odiava come mai aveva fatto prima. Lui non aveva mai voluto ferire
nessuno e Rukawa ancor meno degli altri perché lui era la sua meta, il suo
obiettivo e soprattutto uno dei suoi migliori amici. E nonostante tutto
aveva sempre creduto che anche per l'altro lui fosse la cosa più vicina alla
definizione di miglior amico.
"Io..." era qualcosa di cui non era sicuro neanche lui. Sapeva il motivo per
cui non aveva assecondato quel bacio disperato, ma non riusciva ancora a
confessarlo. L'aveva rifugiato per così tanto tempo, sapendo - conoscendo
meglio di quanto non avrebbe mai voluto - il dolore che era in grado di
scatenare che ora anche solo sussurrarlo gli faceva paura. Ma sapeva di
doverlo fare. Per Rukawa, perché non voleva farlo soffrire più di quanto già
non stesse facendo, ma soprattutto per se stesso perché voleva essere felice
e non lo sarebbe mai stato se non fosse riuscito a dirlo.
"Io sono innamorato di un'altra persona..." sentì lo stomaco stringersi in
una morsa ferrea e il fiato mancargli nei polmoni. Era innamorato. Amava una
persona con tutta la propria anima nonostante non l'avesse voluto "Mi... mi
dispiace, io vorrei poterti aiutare..." sgranò gli occhi incredulo al suono
delle parole che aveva appena pronunciato.
Aiutare gli altri era tutto ciò su cui la sua vita si era concentrata da
quando Yuki Saito gli aveva dato il suo primo bacio. Mai aveva anteposto i
propri desideri o le proprie necessità a quelle degli altri. Ma ora non
poteva... non poteva aiutare Kaede, non poteva dargli ciò che bramava perché
facendolo... facendolo avrebbe fatto soffrire Akira più di quanto non avesse
già fatto in questi mesi e non voleva più farlo. Non voleva più vedere
quegli occhi illuminati dal dolore e la bocca atteggiata in un sorriso
triste.
Kaede si alzò lentamente, malfermo sulle gambe per poi ripiombare seduto
sull'erba, premendosi i palmi delle mani contro gli occhi. Il respiro
singhiozzante, fatto di profondi respiri nel disperato tentativo di non
scoppiare a piangere come l'ultima delle eroine abbandonate "Vattene... per
favore..."
Allungò una mano a sfiorargli un braccio, ma non lo toccò. Non poteva farlo
"...perdonami..." si alzò in fretta e iniziò a correre. Non voleva più
perdere un solo istante, c'era ora qualcuno nella sua vita di così
importante da non poterlo ignorare oltre.
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