Disclaimers: tutti i personaggi
sono di Kentaro Miura, ecc…
Per il titolo ho utilizzato
quello di una canzone dei Judas Priest, che mi hanno fatto molta compagnia
durante la stesura dell’intera fic.
L’idea
era di scrivere qualcosa che ricordasse vagamente il genere splatter, anche se
non credo di esserci riuscita granche…sigh… magari qualche pezzettino qua e
la.
A touch of
evil di
Athed
Buio.
Solo buio.
Da quanto tempo era in
quel luogo? Non ne aveva la minima idea.
Chi l’ aveva portato
li? Non lo sapeva.
Perché era li? Lo
ignorava del tutto.
L’unica cosa di cui
era certo era che si trovasse in una cella, le cui pareti erano roccia
nuda e irregolare, lisce, come se fossero state scavate dall’acqua nel
corso dei secoli.
Esisteva anche qualcosa
simile ad una porta, fatta di metallo, per lui aprirla
si era sempre rivelato impossibile, era debole, troppo debole.
Ogni tanto la porta si
apriva entrava qualcuno o qualcosa, ma era solo per procurargli dolori e
fastidi.
Qualcosa si nutriva di
lui, erano tanti e piccoli, scivolavano sulla sua pelle lasciando piccole
strisce brucianti, raccoglievano qualcosa da lui, sangue, ne era sicuro,
ma non era solo questo a farlo sentire così stanco e spossato, era certo
che gli iniettassero qualcosa con effetto soporifero nella pelle, se non
era ancora morto lo doveva solo al fatto di essere molto più grande e più
forte di quei piccoli insetti.
Già la prima volta che
si era risvegliato in quel posto buio, si sentiva spossato in maniera
insolita, riusciva a mala pena a reggersi in piedi, e quando gli erano
state messe addosso quelle piccole cose che lo succhiavano aveva provato a
liberarsene, ne aveva uccise parecchie, ma ogni volta gliene venivano
gettate addosso altre, con l’unico risultato che s’indeboliva sempre
di più.
Poi aveva semplicemente
smesso di lottare, aveva accettato tutto sperando che fosse solo un incubo
da cui prima o poi si sarebbe svegliato.
Ma nessuno veniva
ancora a svegliarlo, ed era passato tanto tempo.
O forse no.
In realtà non era in
grado di dirlo, un giorno o un ‘ora, non avevano differenza rinchiusi in
quel luogo.
Cibo e acqua erano
giusto il minimo indispensabile perchè non morisse.
Qualcuno, probabilmente
colui che portava quelle sanguisughe, a volte entrava per lasciargli del
cibo.
“Dove sono?”
“Perché sono qui?”
“Chi è il tuo
padrone?”
Tante volte aveva
domandato a quell’oscura figura, ma mai aveva avuto risposta.
Al buio, solo,
infreddolito, dolorante, a giacere nella propria sporcizia.
Lo meritava?
Se lo era domandato
tante volte.
A volte pensava di si.
Di sicuro la sua vita
non si sarebbe potuta definire innocente, era stato un mercenario, poi si
era trasformato in un’arma di vendetta, non si considerava di certo
migliore del peggiore assassino.
A volte invece pensava
di no.
Nessuno, neanche un
diavolo in persona doveva meritarsi un trattamento simile, perché proprio
lui?
Sapeva che non era il
peggiore dei trattamenti possibili, non era stato torturato, violentato o
menomato, ma per lui sentirsi impotente in una simile situazione era,
forse, anche peggio.
Continuava inutilmente
a pensare che se non gli avessero portato via il suo braccio metallico di
sicuro avrebbe potuto fare qualcosa, magari sfondare la porta o rompere
una gamba all’ombra che si occupava di lui.
Doveva pensare in
questi termini, altrimenti non sarebbe mai riuscito ad accettare la
situazione d’impotenza impostagli, poteva continuare a ripetersi che
avevano pensato a tutto e gli avevano tolto qualsiasi possibilità di
fuga.
Sotto l’enorme strato
delle sue considerazioni egoistiche sul suo stato, sopravviveva la forte
luce di un unico altro pensiero “Lui era sopravvissuto a cose
peggiori”.
L’aveva lasciato per
un bisogno che avrebbe potuto aspettare.
L’aveva abbandonato
in quelle segrete per un anno.
L’aveva
dimenticato…quasi…
Il tempo per pensare di
sicuro non gli mancava in quel buio profondo, e visto che era l’unica
cosa che era ancora in grado di fare, cominciò a farlo.
Aveva abbandonato la
squadra dei falchi, col solo risultato di portare Grifis ad essere un
demone.
Era questo che
continuava a pensare.
“Non è colpa mia, io
non l’ho mai tradito.” Parlava al suo buio, si, era suo, ormai aveva
imparato a conoscerlo a menadito, la porta stava là, la sporgenza a forma
di luna dall’altra parte, quella specie di roccia su cui mi posso sedere
è di lì… e così via.
“Hai ragione, forse
non l’hai tradito.” Questa volta il buio parlava, con una voce che se
si fosse potuta colorare sarebbe risultata di un nero intenso, più del
suo buio.
“Non lo sapevo.”
Non importava a cosa fossero dovute le sue scuse, sentiva che quella voce
meritava le sue scuse.
“Non
hai mai pensato che anche i più grandi uomini della storia potessero
essere niente senza qualcuno accanto.”
Era nera la voce, e sempre più profonda e distante.
Delusa.
“Lui
non era solo.”
“No!”
“Aveva
la squadra dei falchi!”
“No,
era solo!”
Arrabbiata.
“Non
è vero!”
Basta.
La voce, se n’era andata come era venuta, in silenzio e senza traccia.
La
voce.
La
voce, aveva ragione?
Era
tanto facile dire “no, Grifis era forte così com’era, solo e
bellissimo”.
Ma
aveva ragione, ragione fino a fare del male, e l’ammetterlo feriva la
carne nuda più di una lama.
Sanguinava,
tutto il suo essere sanguinava di lacrime.
Se
fosse stato Grifis ad abbandonarlo?
Morire,
lasciarsi morire, essere inghiottito nel buio, talmente debole da non
riuscire neanche più a pensare, rifondersi nella terra e nel sangue,
voleva questo, era un modo facile per fuggire dalla vita.
Ma
era poi una vita la sua? A volte gli sembrava solo un grosso girotondo.
Smettere
di mangiare e bere, il resto sarebbe venuto da sé.
Sentire
i muscoli atrofizzarsi, la pelle diventare più fine e inseguire la carne
che si ritira sempre più vicino alle ossa, la gola sempre assettata e
secca e lo stomaco contorcersi su se stesso, gli dava modo di capire che
era ancora vivo.
Il
tempo passava.
Nessuno
veniva più a disturbarlo, niente si nutriva più di lui, anche il suo
carceriere aveva deciso di assecondare la sua scelta lasciandolo morire.
Di
chi era la vittoria, in quel mare di apatia?
Qualcosa
aveva toccato le sue labbra.
Acqua.
Piccole gocce d’acqua.
Non
avrebbe bevuto. Morte morte morte, era questa che voleva.
Ma
da dove pioveva?
Commise
il grave errore di aprire gli occhi, e non appena vide quelle due piccole
luci, vicine tra loro e a lui, i ricordi tornarono ad un tempo lontano.
Grifis.
No,
Phemt, era così che si chiamava ora, no?!
Richiuse
gli occhi, pur sapendo che era già troppo tardi, il danno era ormai
fatto.
Acqua,
ancora acqua, ma questa volta direttamente in gola.
Le
sue labbra aperte a forza e il liquido che s’impossessava lentamente del
suo corpo.
Come
poter mantenere fede alla sua scelta, quando tutte le viscere del suo
corpo chiedevano incessantemente acqua continuando a mandare al cervello
impulsi di eccitazione al suo arrivo.
Cominciò
a succhiare avidamente la bocca che gliela offriva aspirandone la saliva.
La sorsata d’acqua che il demone aveva usato per sciogliere la sua
apatia era finita, ma il suo sangue era dissetante lo stesso, gli morse la
lingua fino a farne uscire la linfa e si nutrì di quella.
Prima
di svenire.
“Cercami,
trovami, amami!” somigliavano più al sussurro del vento che ad una voce
umana, e avevano il tono disperato e autoritario, come fossero ordini
essenziali.
Si
risvegliò sdraiato su un prato ricoperto di nebbia rada.
Libero.
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Ci
vollero mesi perché Gatsu si riprendesse dalla prigionia
subita.
Durante
quel periodo di recupero una sola domanda aveva occupato la sua mente:
“Sei
sicuro di seguire la strada giusta per te?”.
Chi
gli assicurava di essere dalla parte giusta della barricata, in fondo
l’idea di giustizia era alquanto relativa e nei tempi in cui viveva lo
era più che mai, quindi, che differenza avrebbe fatto per gli altri se
lui avesse deciso di non inseguire più Grifis e deporre le armi?
Lo
consideravano eretico e alla stregua di qualsiasi demone, e se avesse
veramente intrapreso una di queste due strade?
Era
felice di aver scelto la strada che
percorreva?
La
risposta non giungeva e il tempo passava, ma una sicurezza si faceva
sempre più strada , l’unica cosa che sapeva veramente dargli pace e che
considerava giusta, per la sua persona, era il roteare la spada nel mezzo
della battaglia, non importava ne che battaglia ne chi cadeva sotto i suoi
colpi. Non avendo amici erano tutti nemici e per i nemici non si prova
pena, ma solo il sollievo di aver eliminato una fastidiosa pulce che ti
succhia il sangue dal collo.
Decise
di ripartire alla ricerca di Grifis non appena le forze fossero tornate
quelle di un tempo, e così fece.
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Finalmente
il suo intuito era andato a segno, era riuscito ad incontrare ancora una
volta i cinque della mano di Dio.
Grifis,
in piedi su quell’immensa mano creata dall’agglomerarsi di cadaveri
umani colante di sangue, con al suo fianco gli altri componenti del
gruppo.
Portava
sul collo il simbolo del sacrificio, sarebbe stato difficile difendersi da
tutti i demoni affamati che si trovavano all’interno di quel
prolungamento dell’inferno, con il marchio che pulsava di dolore
crescente ad ogni minuto che passava.
Ma
di che stupirsi?! All’interno di quel luogo l’aria era talmente satura
di male che era difficoltoso anche respirare.
Il
dolore quasi insopportabile era l’unica cosa che lo collegasse al mondo
umano, solo grazie a quello era in grado di sapere che era ancora vivo, e
quanto ancora avrebbe resistito.
Non
avrebbe saputo dire se il sangue che aveva sul corpo era il suo o quello
di quegli esseri dannati, erano entrambi rossi, che differenza c’era?
Già,
che differenza ci poteva mai essere fra lui e loro? Anche lui amava il
sangue, vedere gli occhi pieni di panico di chi sta per morire nella
confusione del combattimento, senza nulla togliere alla sublime sensazione
di staccare qualche arto o qualche testa.
Non
era diverso da qualsiasi demone, era solo peggio, per lui non valeva la
scusa -ma in fondo è la mia
natura- , per lui valeva solo il suo insano divertimento.
Il
povero diavolo, stato scelto dal principio di casualità, si stava
disperando nel suo nuovo stato semi -umano.
Dava
fastidio, gli dava molto fastidio.
-Hai
pregato per diventare quell’ammasso di carne putrida che sei adesso, hai
sacrificato famiglia e amici, eri consapevole, ora di cosa ti lamenti?!
sei l’unico essere qui dentro che dovrebbe gioire e invece non fai altro
che disperarti, sei vomitevole. Non credevi che tutta la tua fatica ti
portasse a questo? Non ci credevi abbastanza, non ne eri convinto.
Bhè,
a suo tempo, Grifis lo era e vedi cosa è diventato, guardalo nella sua
nuova forma godere di tutta questa strage. Se tu non sei all’altezza, ed
è ovvio che non lo sei, da come ti vedo sbraitare al mio fianco, non
meriti neanche di vivere-
Era
questo che Gatsu pensava, mentre inseguito da demoni affamati infilava una
mano nella gola di quel lurido mostro staccandogli la lingua, almeno per
un po’ sarebbe stato zitto.
Non
si rendeva neanche conto di quello che succedeva intorno, i timpani pieni
di urla, umane o no poco importava, le mani sempre più salde sulla sua
fedele ammazzadraghi che roteava estasiata fra le schiere dei demoni che
volevano nutrirsi di lui.
Troncava
in due qualsiasi corpo gli si avvicinasse, a volte gli sembrava di vedere
qualcosa di umano che gli si avvicinava, ma la spada non si fermava mai,
demoni, uomini, donne e bambini, non c’era nessuna differenza, nessuno
sarebbe uscito vivo da quell’inferno.
Amava
l’essere circondato dal sangue e dalle viscere calde degli avversari.
Sapeva
solo restare vivo sul campo di battaglia, era quella l’unica cosa che
gli riusciva veramente bene, e lo avrebbe dimostrato anche questa volta.
Quel
dannato essere senza lingua non smetteva ancora di farsi notare, lo
distraeva dalla sua lotta. Ora senza testa avrebbe sicuramente smesso di
lagnarsi…
…Silenzio…
…Un
unico suono…
Il
gocciolare regolare ed incessante del sangue che cadeva al suolo dalla
punta della sua spada.
Sarebbe
impazzito.
Era
sicuro che avrebbe perso la ragione se quel suono non avesse smesso di
prodursi.
Cosa
sarebbe cambiato allora? Nella pazzia sarebbe riuscito a crearsi una vita
normale?
Normale?
Non aveva mai dato peso a quella parola, la sua vita, in fondo, gli
piaceva morbosamente. Non inseguire Grifis per vendetta, quello no, ma
tutto il resto, lo stare continuamente all’erta, confrontarsi con esseri
sempre più forti, sentire il dolore fin nelle ossa, quello si, era
stupendo, era vero, era intenso.
Per
andare avanti continuava a ripetersi –Devi vendicare Caska e la squadra
dei falchi-.
Ma…
La
realtà pura e semplice era che ogni membro della squadra aveva deciso di
abbracciare il sogno di Grifis, sia nella vita che nella morte. La loro
morte aveva permesso a Grifis di realizzarlo, insomma, la squadra aveva
svolto il suo compito primario.
La
pazzia di Caska, forse, era solo un bene. Se le cose fossero andate
diversamente, lei non avrebbe lasciato mai solo il falco ferito
debole.
E
in caso contrario, Gatsu non avrebbe mai
pensato di ritirarsi dal suo lavoro di mercenario per metter su
famiglia.
La
pazzia di Caska gli permetteva solo di dare una ragione umana alla sua
voglia di uccidere e di autodistruggersi.
Forse
a quel punto lasciare che la pazzia s’impadronisse di lui sarebbe stata
la cosa più sensata da fare.
Avrebbe
chiuso gli occhi e si sarebbe lasciato andare… se non fosse stato per
quel continuo gocciolare e l’odore inebriante di sangue, viscere e
putrefazione che si sentiva addosso. Che riusciva a insinuarsi fin sulla
sua pelle, facendosi lentamente assorbire dai tessuti e dai metalli del
suo abbigliamento.
E
il mondo ricominciava a muoversi… I demoni a mangiare, il sangue a
scorrere e i cinque membri della mano di Dio a gustarsi il macabro
spettacolo.
Ma
la sua spada non roteava più fra i nemici, non riusciva a sollevarsi dal
suolo, proprio come le sue ginocchia.
Nessuno
lo toccava, o si avvicinava, sembrava avessero paura di lui, o meglio di
chi lo stava sovrastando.
Dietro
le spalle basse di Gatsu si ergeva Phemt.
Era
protetto, come si sentiva ai tempi della squadra dei falchi.
Mai
libero, ma protetto. Andava bene lo stesso, non avrebbe saputo che farsene
della libertà.
…Cercami…
L’aveva cercato. Quanto l’aveva cercato? Aveva perso il conto
dei giorni trascorsi a camminare e delle notti solitarie a difendersi.
…Trovami…
Lo aveva trovato fin nel profondo dell’inferno.
…Amami…
Non sapeva amare, non ne era mai stato capace, o forse lo aveva sempre
fatto senza sapere di esserne capace.
Essere
posseduto come lo era stata Caska, se questo era il significato del suo
“amami”, così sarebbe stato. Nel viscidume del sangue e nella
cedevolezza della carne lo spettacolo per i quattro arcidiavoli sarebbe
continuato.
Ma
non erano solo i restanti quattro membri della mano di Dio a fremere
dall’impazienza, anche la massa di carne umana che formava il
piedistallo dei quattro voleva la sua parte, e se la prese imprigionando
Gatsu contro i suoi morbidi tessuti morti.
Se
la sua schiena poggiava sui cadaveri che lo stringevano, lo accarezzavano
e lo spogliavano dell’armatura e degli abiti, il suo torace era a
contatto col corpo di Phemt, intento a divorarne le spalle lasciandogli
delle piccole ferite aperte ad ogni morso.
Il
braccio meccanico sarebbe stato l’unico aiuto che avrebbe potuto
liberarlo, se solo avesse voluto, ma ormai giaceva al suolo inutilizzato.
Fare
scivolare la mano sul corpo di Phemt non faceva altro che confermare
ciò che era anche a
occhio nudo, i suoi muscoli erano puro acciaio, ricoperto da qualcosa di
molto simile alla pelle liscia e vellutata di un serpente.
Solo
un demone avrebbe potuto avere una pelle simile.
E
a Grifis quella pelle si addiceva più che a chiunque altro, leggera,
sinuosa ed elegante.
I
cadaveri eccitati costrinsero il guerriero a voltarsi.
Morse
crudelmente parte della massa di carne che gli stava di fronte per non
urlare quando sentì il demone entrare in lui.
Si
sentiva alla stregua di un animale, quel gesto meccanico, privo
d’affetto serviva solo a dimostrare chi comandava in quel luogo lontano
dallo sguardo di Dio.
Phemt
cadde in ginocchio con lui cingendogli la vita.
“Le
cose sono diverse ora, questo serve a loro e alla nostra natura, lo
capisci?!”
Lo
sguardo del demone era voltato verso i restanti membri del suo gruppo, e
quando anche quello di Gatsu arrivò a posarsi su di loro il marchio
riprese a sanguinare copiosamente.
Erano
soddisfatti dello spettacolo a cui avevano assistito, ma ancora in attesa
di qualcosa, e quel qualcosa era certo essere la sua morte.
Era
sopravvissuto più volte a simili trattamenti e questa non sarebbe di
sicuro stata l’ultima.
Vicino
a sé giaceva il suo braccio meccanico ancora carico della bomba.
Intorno
a loro la strage era terminata, i mostri sazi avevano lasciato sparsi sul
terreno i resti del loro succulento banchetto.
Gli
arcidiavoli non si accorsero delle intenzioni di Gatsu finche non si
videro la potente esplosione davanti alle pupille.
“Tornerò,
non ho ancora mantenuto fede al tuo volere.”
Alle
parole del guerriero Phemt sorrise solamente, prima di sparirgli dalla
visuale.
Ora
stava sdraiato su un prato, lo stesso in cui era rinvenuto dopo la
prigionia.
Lo
stesso identico luogo.
Finalmente
in pace con se stesso, aveva capito, ora conosceva il suo sogno, e aveva
la risposta alla sua domanda.
Avrebbe
trovato un altro Bejelit, sacrificato tutto il possibile, Caska, Pak,
Rickert, Erika, Lady Farnese, Serpico e chiunque avesse provato qualsiasi
sentimento , sia positivo che negativo, nei suoi confronti.
Avrebbe
riavuto indietro Grifis o Phemt, o chi diavolo era diventato, ad ogni
costo.
E
se non avesse potuto riaverlo sarebbe diventato anche lui un membro della
mano di dio, le carte in regola le aveva tutte, in caso contrario se le
sarebbe procurate, e si sarebbe divertito molto nel farlo.
End
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