SALVE! Un paio di righe sono d'obbligo per presentare questa mia opera.
Mi sono impegnata davvero tanto -più di quanto non abbia mai fatto per un lavoro -e ho scomodato Afsaneh (per farmi da beta) e addirittura Snatch (per questioni tecniche di competenze che devo ancora acquisire)
Grazie mille ad entrambe, in particolare alla bravissima b-reader!
Chi capisce cosa significa il titolo (che non ha ASSOLUTAMENTE NULLA a che fare con i contenuti del racconto) riceverà un uke in regalo! Sempre che lo accetti, come regalo. Sennò l'immensa soddisfazione di aver capito una pazza come la sottoscritta.
Ah, quasi diementicavo, ringrazio anche Erychan per aver trovato i nomi dei protagonisti!
Ora vi lascio al racconto :**




 

 

 

Aribho

 

di Assurda

 



C’entra una borsetta rossa mangiucchiata da un cane in un angolo, c’entra un vestito da donna e un boa di piume voluminoso. E si intona tutto bene, solo che ad indossarle è un uomo in tacchi alti.
No, dire uomo è dire troppo; dire che lo amo è troppo poco. Non esistono mezze misure con questo ragazzino androgino, non si gioca alla leggera.
Sono in ballo le nostre vite, siamo in ballo noi...
Vedevo già com’era il nostro futuro –il nostro presente- tutto uguale, tutto buio.
Tutto così nascosto e tagliuzzato. Quanti baci hanno visto la luce del sole? Quanti “ti amo” ci siamo detti in mezzo alle persone?
Nessuno. Uno. La fine di una partita a nascondino e l’inizio di un’altra. Prima ci nascondevamo, adesso scappiamo.
Di quel giorno maledetto ricordo tante cose. I tuoi pantaloni attillati che ti facevano sembrare ancora più magro, i tuoi capelli d’oro splendenti al sole e il tocco delicato delle tue labbra sulle mie. E poi gli spari e le urla, la sgommata della macchina...
Pian piano le cose si fanno sfocate, di un nero intenso, e rimane solo la sensazione di essere seguiti a pochi centimetri con un kalashnikov puntato alla schiena.
Toccata e fuga.
Le nostre labbra si sono sfiorate, toccate. Fuga.
Non avevi paura, tuo padre a pochi metri di distanza mi guardava in cagnesco, geloso di te e della nostra confidenza. Pensava che fossimo amici. SOLO amici. Ci era andato vicino di poco. Quello e che eravamo –che siamo- inizia con am e finisce con i, ma nel mezzo non c’è ic bensì ant.
Mi fissavi con gli occhi azzurri, degno segno delle tue origini svedesi, splendidamente spalancati, le labbra rosse protese in avanti e un dito bianco davanti a loro, nel segno internazionale di fare silenzio.
Io stavo fermo, immobile ed impassibile, mentre la mia anima voleva fare un passo indietro ogni volta che un tuo piede scalzo –e perfetto- toccava terra, avvicinandoti a me.
Intorno al tuo collo che sembra intagliato nell’avorio -così come il tuo viso- c’era un boa rosso color del sangue e delle tue labbra. Anche della tua borsa. La gente la vede e pensa subito male. Alla fine in quella sacca di pelle vaccina tieni solo una pistola, un coltello e –lo so, non dovrei dirlo- il burrocacao alla mora e i preservativi.
Mai usati con me.
La prima volta mi sei saltato addosso nella tua cameretta infantile, non avevi tempo per pensare a sottigliezze del genere e sapevi che non ero malato. Dovevo proteggere tuo padre a costo della mia vita, essere ferito e sanguinare era messo nel conto del mio lavoro in nero.
Avevo l’ordine preciso di non toccarti con un dito (meno che mai che di metterti le mie dita da quelle parti), le tue braccia mi cingevano il collo e io deglutivo a vuoto, balbettando scuse e cercando di allontanarti. Avrei pagato per vedere le altre guardie del corpo al mio posto e sapere cosa avrebbero fatto con un diciottenne che gli succhiava il collo –e l’anima- nello stesso modo sensuale in cui lo facevi tu.
Non mi hai lasciato scelta, implorandomi, baciandomi, leccandomi...
La seconda volta non c’è stato nemmeno il tempo di dirci “ciao”. Eravamo già nello sgabuzzino delle scope, io con le braghe calate e tu completamente nudo come mamma ti ha fatto -adoro tua madre per averti fatto così bello, ma mai quanto adoro te quando mi supplichi con quelle labbra di fuoco.
La terza volta, era diventata più che un’abitudine, era una necessità.
Andava bene qualsiasi meandro per la nostra depravazione e per la tua lussuria, per quanto mi impegnassi non sembravi mai averne avuto abbastanza. Sembravano sveltine, uno di quei rapporti usa e getta, senza lacrime e rimpianti, eppure, non accorgendomene, mi stavo innamorando di te. Rammento quando te l’ho detto –stavamo facendo quello che facevamo di solito quando eravamo soli e al buio.
Io dentro di te, tu con i gomiti contro la parete a cui ti appoggiavi spingendoti di più verso il mio bacino. Io che ti dico che ti amo e tu che mi guardi da sopra la tua spalla e che dici con quella bocca meravigliosa, ripeti scusa.
E l’ho ripetuto, senza storie e senza orgoglio. Allora ti sei spinto più giù, più giù, e non ci ho visto più per il piacere e per il desiderio. Quando tutto era finito mi hai stretto a te e con il tuo fare lascivo hai detto di ricambiarmi.
Non mi ero mai sentito così felice. È stato come fumare la prima sigaretta: prima toglie il fiato, ti fa tossire un paio di volte poi ti senti leggero... leggero, leggero...
Vivevo con quella leggerezza stretta al cuore e mi sentivo tanto idiota ad essere felice della fonte di ogni mi sventura. Felice ogni volta che mi guardavi. Felice ogni volta che eravamo soli –e uniti.
Nello sgabuzzino, nella tua camera, nel sottoscala e addirittura l’ufficio di tuo padre.
Nella macchina, la limo bianco panna coi vetri fumé, su una collina isolata. A volte odiavo il limbo in cui mi ero andato ad infilare e a volte odiavo tuo padre. Tuo padre non l’odiavo A VOLTE, lo odiavo sempre. Il nostro inconsapevole cupido e al contempo demone.
Ma è il passato... e ora vivo il mio presente con te. Accanto me, la tua testa bionda posata sulla mia spalla, superi la leva del cambio che ci divide.
È rischioso guidare e stringerti la vita, ma lo faccio comunque, metto in gioco le nostre vite.
Perché anche adesso stiamo fuggendo. Se riuscissimo a scappare, se ci schiantassimo, se morissimo... voglio che tu mi sia accanto. Perché morirei in ogni momento lontano da te. Odio essere così dipendente, così dannatamente drogato di te.
Respiro profondamente e il mio torace si solleva. Quante volte le tue labbra hanno marchiato la mia pelle con dei baci, quante volte hai mormorato oscenità inaudibili persino un film porno sul mio cuore, stringendo delicatamente fra le labbra un capezzolo?
Espiro. Alzi il capo, ancora semi addormentato chiedi dove siamo e io ti rispondo di non saperlo, di non aver letto i cartelli; pensavo –a te, a noi e alle nostre scopate- ad altro.
Sorridi, pian piano riacquisti lucidità e i tuoi occhi sono meno assonnati. Premuroso come non lo sei mai stato mi chiedi se sono stanco e con quel tuo modo di fare da gattino in amore ti strusci piano contro di me –se potessi, ti prenderei adesso- dici che sai dove potremmo andare. Mentre cerco un’area di sosta pieghi le ginocchia al petto, i tuoi piedi nudi lasciano tracce più scure sulla pelle color crema del sedile. Le tue scarpe sono sul sedile posteriore insieme alla tua borsa mortale e alle cartacce del nostro pranzo da autogrill. Ti fai sempre più piccolo, stringi meglio intorno al collo il boa corallo e la tua faccia si mimetizza, cercando di apparire tranquillo dici: potremmo fare l’amore per più tre minuti... potrò vedere la tua faccia alla luce del sole... potremmo passare una giornata fra le lenzuola...
Tutto questo lo dici con il viso tra le piume scarlatte, dolcemente, delicatamente...
So che c’è l’ombra di un sorriso malizioso sulle tue labbra, anche se non le vedo.
Allunghi un braccio candido, raccogli i sandali col tacco e li indossi. In un secondo scendiamo e ci incrociamo davanti al cofano. Non resisto. Sotto la luce dei fanali che non scaldano, in questa notte gelida, prendo il tuo viso e con esasperante lentezza bacio la tua bocca disegnata.
Per la prima volta un bacio vero senza paura e durata massima. Con tutto l’amore di cui sono capace, sfioro la tua lingua con la mia. Il freddo ci costringe a rientrare e ti lecchi le labbra mentre posi le mani affusolate sul volate. Infrangendo tutte le leggi della strada –e del buon senso- fai un inversione a U in autostrada. Guidi –e ami- come un pazzo.
Non so come ci riesca ma ti sfili le scarpe e guidi scalzo spingendo a tavoletta l’acceleratore. Torniamo indietro, verso l’inferno. Ci rimangiamo la strada che pensavo avessimo abbandonato per sempre. Sei imperscrutabile, fissi la carreggiata, vedo le luci delle altre macchine nei tuoi occhi, vedo la linea precisa del tuo profilo mentre gli alberi –il cielo, le stelle- sfrecciano sullo sfondo del finestrino.
Chiudo gli occhi per un instante e all’improvviso li riapro, sobbalzando. Dalle casse dello stereo qualcuno pesta sulla batteria, un altro urla qualcosa di incomprensibile. Mi chiedi scusa, non volevi svegliarmi ma non sai come regolare il volume dell’autoradio. Ridacchi, dissimulando l’imbarazzo per la tua imbranataggine. Poso un casto bacio sulla pelle liscia della tua guancia e dico: lascia stare, fa niente. Sorridi, e con te anch’io. Fermi la macchina ti rimetti i sandali e scendi. Qui ci passavate le vacanze estive, tu e tuo padre. Quasi due giorni per arrivare su questa riviera, in questo paesello dove qualsiasi locale notturno è relegato in un’unica via persa nella campagna, dove gli odori –quello buono del tuo profumo, quello del sudore, quello dell’alcol, quello della terra arata e quello della polvere sollevata dai nostri piedi- si confondono. Questa sera è fredda e sei vestito solo con una maglietta leggera, stai tremando. Lo vedo da qui. Così mi avvicino a te, ti abbraccio, intrecciando le mie braccia sul tuo petto. Dei tamburi suonano leggeri nell’aria, monotoni e cadenzati. Entri in un locale. Due gorilla all’ingresso ti salutano e un ascensore si apre nella parete di fondo di quello che appariva poco prima come uno sgabuzzino. Tu entri, radioso. Non so perché, ma questo posto ti si addice. Prima che le porte si chiudano mi prendi le mani e mi trascini dentro. Partiamo verso il basso e il rumore della musica si fa vagamente più forte. Appena l’ascensore si schiude la musica entra prepotentemente nella piccola crisalide insonorizzata che ci aveva protetto. Sorridi. E dietro il tuo sorriso le luci stroboscopiche lasciano intravedere centinaia di persone danzanti al ritmo della musica, che sembra rimbalzare sui loro corpi giovani. Ti addentri nella folla che sembra lasciarti passare come un re indiscusso e tre ragazzi vestiti come te –minigonna, collant, magliette attillate, ciondoli, polsini, catene, spille...- ti corrono incontro, ti abbracciano, frazionati in tanti piccoli istanti, nei pochi momenti di luce che si susseguono freneticamente. Intravedo persino uno che ti bacia sulla guancia e il suo rossetto viola lascia una traccia scura sulla tua pelle. Io sono rimasto intrappolato, e la gelosia mi ha freddato sul posto. Ti volti indietro a guardarmi e da sopra la spalla mi fai l’occhiolino. Inutile chiamarti o tentare di raggiungerti, così, impotente, ti seguo con lo sguardo fin sul cubo. Rapisci dozzine e dozzine di ragazzi con i tuoi movimenti, ti imitano e saltano al ritmo delle tue braccia. Un ragazzo in minigonna scozzese ti fa un segno –qua nessuno parla per sovrastare la musica è totalmente superfluo- e tu gli lanci il piumino rosso che tenevi ancora al collo. Nella melodia si fanno strada dei tamburi che prevalgono su tutto; dapprima hanno un ritmo frenetico e il tuo sedere li segue come se foste collegati. Il vostro duetto prosegue e il ritmo si fa meno incalzante, tu rallenti e scendi più giù, più giù. Giù... poi con un gran boato riprende il basso e qualche altro strumento non ben identificato. Tu scendi dalla piattaforma come se l’avessi fatto mille altre volte.
Guardi verso di me e mi fai cenno di avvicinarmi. L’unica cosa che so fare è obbedirti e mi spingo tra la folla. Gesticoli ancora con lo scozzese –quello che ti ha baciato- e sparisci dietro una porta nascosta. Ogni movenza del tuo corpo mi invita a seguirti ma un altro ragazzo mi ferma. Mi fa segno di aspettare.
E aspetto.
All’improvviso la porta si apre e tu sei immediatamente lì. Le tue braccia mi cingono il collo e la tua bocca è sulle mie labbra. Sanno di mora, sono perfette, carnose e dolci, fresche, deliziose e profumate come un fiore a primavera: tutto di te è buono. La tua bocca è al sapore di thè alla pesca, odori di bagnoschiuma e il tuo inguine duro preme contro il mio. –In ogni istante qui, con te, sto morendo-
Una tua mano fra i miei capelli corti mi spinge di più verso la tua bocca eppure non c’è fretta, non c’è tempo in adesso. Quest’ora –quest’attimo- si allarga, si allunga, si dilata e si ripete –perfetto, indescrivibile- come l’abbiamo sempre desiderato ed immaginato, cercandolo senza risultato in uno di quei luoghi bui e nascosti, in uno dei nostri amplessi affrettati. Siamo ciò che vogliamo essere, siamo tutto ciò che possiamo essere, io sono te e tu sei me, e siamo, comunque, noi. I baci e le carezze che avevamo lasciato in sospeso in questi mesi vivono su di noi, crescono sulla pelle ardente e morte loro ne nascono di nuove e autentiche. Qui dentro i minuti non passano, cristallizzati intorno a noi, tutto il resto è lontano ed inconsistente. –Per me- esistono solo i tuoi capelli, le tua labbra, il tuo corpo, le tue dita tra le mie, le nostre lingue in lotta... esisti solo tu, insostituibile e mio. Capisco cos’è che amo di più di te -è la risposta ad una vecchia domanda che mi hai fatto in un parco, al tramonto- quando mi prendi per mano per condurmi al piano superiore. La musica scompare ma martella incessante nelle mie tempie. Presto però le nostre orecchie sono piene dei tuoi affannosi respiri. Ti sfilo la maglietta rossa dalle maniche lunghe e dal taglio un po’ troppo femminile. Ecco cosa amo di te: il tuo semplice ESSERE. Non ti pieghi al volere degli altri se non asseconda la tua volontà. Non ubbidisci nemmeno a tuo padre perché non è quello che vuoi –vuoi me. Sei irrimediabilmente tu, con i tuoi vestiti da donna e le tue scarpe col tacco.
Appoggio una mano sulla tua spalla, cadi sul letto. Da questo momento è tutto come è sempre stato. Le mani scivolano verso il basso, seguono il profilo del tuo torace glabro e dei tuoi fianchi: i polpastrelli scoprono lievi imperfezioni che non avevo mai notato prima d'ora -senza luce, senza vederti, come avrei potuto?
Sorrido prendendoti in giro per questo, ma faccio morire ogni rimostranza quando stringo il tuo sesso nella mia mano -le dita umide di saliva. Osservo la tua reazione: la tua schiena che si inarca, le tue palpebre serrate e le labbra appena aperte, a disposizione delle mie. Mi fermo sui tuoi occhi ancora chiusi, attendo pochi secondi che tu li riapra e quando questo avviene così, all’improvviso- ricordo il nostro primo contatto: la tua bocca sul mio collo , le tue mani che slacciavano la mia cintura. Basta questo pensiero e la voglia di ripetere ciò che accade quel giorno –come molti altri- sale.
I gesti sono sempre quelli –le mie dita nel tuo retto, le tue mani sulla mia schiena e le tue gambe a stringere la mia vita –ma in questi c’è qualcosa di essenzialmente diverso. La naturalezza e la calma di ogni nostro movimento, ogni gemito che si avverte –libero - è un incitamento a continuare ciò che abbiamo sempre nascosto. Da un tuo sguardo, da un tuo gemito, capisco quello che vuoi – e non credere che ciò che desidero io sia differente. Sostituisco la mia erezione alle mie dita, ogni ansito è una spinta dentro di te, un passo più vicino al piacere. Le tue unghie smaltate incidono la carne e anche se i segni sono appena accennati sulla mia pelle bruciano come ferite aperte e sanguinanti all’aria. È la nostra libertà, questo significa. Libertà questa è la nostra definizione di ciò che stiamo facendo -io dentro te con il tuo sesso stretto nella mia mano.
Gli affondi sono sempre più rapidi, più profondi e così ogni gesto della mia mano. Un ultimo ansito per entrambi, poi il respiro si regolarizza, i nostri corpi si allontanano, appagati e sporchi di noi stessi.
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La mattina dopo il primo pensiero, ancora ad occhi chiusi, è quello di vederti addormentato. Mi giro su un fianco e cerco a tentoni come un cieco, il tuo corpo accanto al mio. E ho un moto di paura non trovandoti. Spalanco gli occhi e mi metto a sedere, e realizzo solo ora di essere ancora nudo. Tu sei lì, davanti al letto, i jeans strappati sulle cosce e una maglietta, incredibilmente, da uomo. Forse è la prima volta che ti vedo così e anche se fosse, vorrei riaverti nudo addosso a me.
Sorridi, capisci cosa mi ha turbato e ti avvicini al letto.
Amore mio...
Adesso possiamo dirlo.
Infilo in dito negli strappi del denim blu notte, sfiorando la tua pelle morbida mentre mi baci. Mi intimi di fare una doccia veloce –e per questo senza di te- e di vestirmi ancora più in fretta perché dobbiamo uscire.
Mano nella mano.
Ma si sa, la felicità è mutevole come la luna, la vita è breve come un battito di ali.
Finito di indossare pantaloni e camicia –lavati e stirati- bussano alla porta.
Apri e uno schiaffo segna la tua guancia, una pistola punta verso di te.
Quella voce, quell’odioso tono di sfida. Il mio capo. Grande, grandissimo stronzo.
Trevor, dici in un sibilo basso appena ti sei riavuto dalla sorpresa. Ti massaggi una guancia contrariato. È tornato tutto come allora.
- Cl- comincia lui, pronunciando mezza sillaba del tuo nome ma un mio pugno lo ferma. Qui non ha niente da fare, non c’è motivo per cui debba essere qui.
Le sue dita allentano appena la presa intorno al calcio della pistola; rapidamente l’arma è nelle tue mani.
- Sono venuto a riprendere il ragazzino, coglione. Il boss ha detto che ti lascia andare, vuole solo suo figlio.-
- Peccato che suo figlio non voglia venire con te. Né rivedere quella sua faccia da cocainomane senza speranza. Digli che so troppo perché possa ricattarmi senza perderci, e digli Anna.-
Il nome di tua madre. A cui tu assomigli tanto. Lei sapeva cosa sarebbe potuto accadere, una faida fra voi due, e ha chiesto a tuo padre di proteggerti sempre, qualunque cosa fosse successa.
- Digli: addio papà, trovati un erede migliore di me. Non ho bisogno dei suoi soldi, questo posto ne ha fruttati abbastanza, questa è la vita che voglio. E adesso vattene, Trevor.-
Ti ha insegnato lui a sparare, conosci tutti i punti deboli delle sua tecnica; non che qui serva mirare ad un bersaglio, la canna preme contro il suo doppio petto nero antracite.
Lo stesso colore della pistola.
Il suo sguardo percorre la canna della pistola, prosegue seguendo il polso, il braccio, la spalla, il collo; si ferma sul tuo viso. I vostri occhi si fissano l’uno nell’altro -azzurro cielo e il castano bruciato degli alberi arsi- impassibili e freddi.
Le tue labbra si piegano in un sorriso di superiorità mentre abbassi la pistola.
- Credo che se non te ne andrai entro i prossimi due minuti, ti sparerò ad un ginocchio, poi all’altro. Allora vedrò di spararti in fronte, se sarò clemente, ma non ne ho nessuna voglia, oggi, quindi penso che il bersaglio successivo sarà lo stomaco. Una lenta ed agonizzante morte, semiparalizzato. Che ne dici, ti va di giocare?-
Si sente appena, soffocato dalla tua voce, il rumore metallico e raggelante del cane che si arma.
Ti fissa. Ci fissa.
Spinto dai suoi occhi pieni di ribrezzo faccio scivolare un mio braccio intorno alla tua vita senza che tu perda l’obiettivo. Uno sguardo, come i tanti che subiremo fuori da qui.
Eppure.
Chi se ne frega.
Mi chino per baciarti sulla guancia e la vita è bella, anche con questa tua nuova versione –più maschile, più apertamente combattiva.
Si volta, adirato. Sa che non può fare niente perché persino tuo padre ha le mani legate da quel giuramento stretto con l’unica persona che abbia mai davvero amato in vita sua.
Metti la sicura alla pistola e dopo averla gettata sul letto cingi il mio collo con le braccia. E mi baci.
Ringrazio tua madre per averci indirettamente salvato, la ringrazio per averti fatto nascere.
In un soffio dico:
Ti amo.