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All I Want

di Kriss

parte I


Scese a Kawaramachi e si immerse nella folla frettolosa del tardo pomeriggio.
Era come essere sballottati dal mare in tempesta, un mare colorato e rumoroso.
Guardò ancora il foglietto che aveva in mano e si diresse verso l’entrata della galleria coperta, come gli aveva indicato Brad. Dovevano incontrarsi in un bar della galleria, un posto alla moda dove ti davano anche da mangiare e servivano caffè all’occidentale.
Tutto sempre secondo le indicazioni di Brad…
Nat era anche in orario, ma aveva sperimentato più di una volta quanto fosse facile, per lui, perdersi in quella città. I giapponesi sembravano restii a segnare i nomi delle vie, e dei pochi che aveva scorto, la maggior parte era scritta coi loro caratteri, affascinanti, sì, ma anche incomprensibili.
E fortuna che non era a Tokyo, altrimenti non sarebbe arrivato mai, all’appuntamento!
Scivolò fra la gente e si fermò all’entrata, alzando gli occhi sulle costruzioni che lo circondavano.
Era strano abbinare tutto quel cemento, quelle vetrate, le luci dei cartelloni pubblicitari, con la pace e il verde dei templi che costellavano e circondavano l’intera Kyoto. Strano, e quasi inquietante.
Per certi versi, gli ricordava i parchi immensi di Londra, coi loro prati, i fiori, gli animali, che spuntavano fra i palazzi e il traffico caotico della metropoli.
Inspirò l’aria soffocante che non accennava a rinfrescare e tornò a guardare il foglio con le istruzioni.
Doveva muoversi.
Brad detestava aspettare.
Anche se spesso era lui ad essere in ritardo.
Scosse il capo al pensiero e avanzò di qualche passo.
Teneva ancora lo sguardo basso, fisso sul foglietto, e non si accorse della persona che stava incrociando la sua strada fino a che non gli fu addosso.
- Oh... Su... sumanai... - farfugliò in uno stentato giapponese. Non ricordava mai quale fosse la forma giusta da usare in quei casi, e si sentì arrossire.
Come al solito, stava facendo la figura dell’imbranato e dello stupido.
- Scusa tu. – ribatté una voce maschile, in un inglese accentato, ma pressoché perfetto, e lui finalmente alzò gli occhi, stupito.
Un ragazzo di poco più di vent’anni, vestito elegantemente in giacca e cravatta, lo guardava sorridente, sorreggendolo per un braccio.
- Mi dispiace, non ti avevo visto. Ti sei fatto male? – continuò con un breve inchino.
Gli sorrideva ancora, un sorriso gentile e aperto, e Nat sentì le proprie guance farsi di fuoco.
- No... Io non... E’ colpa mia, non stavo guardando dove andavo e... Scusa ancora. – e fece un inchino anche lui, di riflesso, come stava imparando a fare da quando era atterrato in Giappone.
- Figurati. – Sempre gentile, sempre sorridente. – Stai cercando un posto in particolare? – chiese poi, lanciando un’occhiata al foglietto che lui teneva ancora in mano.
- Oh... Io... Sì, ma... -
Accidenti! perché doveva sempre comportarsi da idiota? perché non riusciva a parlare come una persona normale?
Non voleva importunare un estraneo, ma l’altro stava già leggendo il nome del locale e con un nuovo sorriso lo invitò a seguirlo.
- Non è lontano; poco più avanti, sulla sinistra. Ti accompagno. -
Lo disse, e si mosse, con tanta naturalezza, che Nat lo seguì protestando a malapena.
- Non è necessario che ti disturbi tanto. Davvero. -
L’altro agitò una mano con un risolino.
- Nessun disturbo. Ho finito ora di lavorare, e ho la serata libera. -
Gli camminava accanto con aria allegra, premurosa, il passo elastico, quasi saltellante, che pareva sprigionare un’energia incontenibile, trattenuta solo dall’educazione e dall’abitudine.
Poi voltò il capo verso di lui, fissandolo, e Nat quasi sussultò.
Aveva gli occhi scuri, quasi neri, con uno sguardo così morbido da sembrare di velluto. Ed era alto, lo
superava addirittura di qualche centimetro.
- Io sono Murakami, Murakami Hiroyuki. Ecco, tieni. – Gli allungò un biglietto da visita. – E tu? come ti
chiami? -
Nat sbatté le palpebre stupito, o forse accecato da quello sguardo.
- Nathan Blake. – rispose, stranamente senza balbettare.
L’altro annuì, mentre una piccola ruga gli si formava fra le sopracciglia.
- Blake come il colore? – chiese ancora interessato, e Nat strinse le labbra scuotendo la testa in un cenno di diniego.
- No... No, il colore è black. È scritto in modo diverso, e si pronuncia anche in modo diverso. È... - 
Il compagno si batté una mano sulla fronte ed esclamò a voce alta.
- E’ vero! Sto sbagliando! Che stupido! E sì che è semplice. Te lo insegnano subito! -
Rise, e Nat lo imitò, non riuscendo a trattenersi.
Era contagioso. E poi, si stava rendendo conto di cominciare a sentirsi stranamente a proprio agio, con quell’estraneo, cosa per lui quasi inconcepibile.
Si accorse altresì di essersi finalmente rilassato, come non gli accadeva più da giorni.
O forse da settimane.
- E’ facile sbagliarsi. – lo rincuorò. – Parli bene, l’inglese… -
In effetti, era il primo giapponese che riusciva a capire veramente senza problemi, a parte alcuni del personale dell’albergo.
- Ho vissuto un anno e mezzo a Londra. Lavoravo e studiavo. Qualcosa ho imparato, ma faccio ancora degli errori, come hai potuto constatare! -
- A Londra?! – Sembrava incredibile. – Io sono di là! -
Quasi lo urlò, come se fosse la cosa più straordinaria della sua vita, come avesse incontrato un amico di vecchia data in quel Paese lontanissimo.
- Davvero?! – Anche la reazione del compagno pareva riflettere le sue stesse emozioni. – Ma è fantastico! Una coincidenza che non va ignorata! Dobbiamo brindare!! Vieni, siamo arrivati. E non dirmi che non bevi, perché non ci credo! voi inglesi sembrate nati con un boccale di birra in mano!! -
Nathan rise ancora, divertito.
Veramente, lui non beveva molto, forse perché lavorava in un pub e di birra ne vedeva fin’ troppa, ma gli sembrò inutile dirlo: Murakami aveva già trovato un posto a sedere e fatto cenno ad un cameriere per le ordinazioni.
Appena entrato, Nat si era guardato attorno; naturalmente Brad non era ancora arrivato, ma per una volta non gli dispiacque.
Si sedette di fronte a Murakami e sorseggiò la birra, leggerissima, ascoltando il compagno e chiacchierando con una tranquillità che lo stupì.
Parlarono di Londra, del Giappone, dei loro lavori. 
Murakami era simpatico, aperto, educato come tutti i giapponesi, ma più espansivo, e curioso; sorrideva spesso e lo ascoltava con attenzione.
- Disegni? – gli chiese, e Nat annuì, stupito.
- Ho visto l’album, nella borsa. – spiegò l’altro. – Aah, scusa, sono troppo curioso. – E sorrise ancora.
Aveva un bel sorriso, e bei lineamenti, fini, quasi delicati, in contrasto con la luce decisa ed energica che gli brillava negli occhi.
- Non c’è bisogno che ti scusi... - Distolse un attimo lo sguardo, sentendosi ancora arrossire. Si vergognava un po’. – Sì, disegno. Ci provo, almeno. Mi piacerebbe diventasse più di un semplice hobby, ma non sono molto bravo, e così lo faccio solo per divertimento. – Si strinse nelle spalle, con un sorrisino contrito.
- Se ti piace farlo, non smettere mai. Sarebbe un peccato. -
Glielo disse con lo sguardo serio, fisso nel suo, poi lo distolse e fece una breve risatina.
- Ee… Sei qui per trovare ispirazione, oppure solo per svago? -
- Sono in vacanza insieme ad un amico. – Tornò a guardarsi attorno con un sussulto. Si era completamente dimenticato di Brad! – E... sì... Cioè, lui deve lavorare, ma... Aveva la possibilità di portare un’altra persona e mi ha... mi ha proposto di venire. Non ero mai stato in Giappone, e non avrei mai potuto avere un’occasione migliore, così... così ne ho approfittato. -
Non era propriamente la verità, ma l’altro non poteva saperlo, e in ogni caso, lui non aveva intenzione di andare più a fondo, con quell’argomento.
- Una vera fortuna. – continuò.
- Già... E allora, ti piace Kyoto? -
Oh, sì, gli piaceva molto. Era così antica, e suggestiva, e tutto era così nuovo e diverso, per un occidentale, che qualsiasi piccola cosa diventava motivo di interesse e sorpresa.
- Comunque, non ho visto granché: sono qui solo da due giorni... -
Murakami fece un gran sorriso e si sporse verso di lui.
- Se ti va, potrei farti da guida, per un paio di giorni! -
- Ma... -
- Sabato e Domenica non lavoro, e se tu non hai altri impegni, potremmo organizzarci per andare da qualche parte. Se il tuo amico deve lavorare, ti lascerà da solo, e non è bello fare i turisti per conto proprio. Devi assolutamente vedere il Tempio Kyomizudera, e i giardini del Ryoanji, e poi... -
- Non posso. – lo interruppe.
- Oh... - L’altro sembrava deluso.
- Non voglio disturbarti tanto. Cioè... è... Ci conosciamo appena, non... non posso chiederti di... di portarmi in giro per la città e perdere il tuo tempo con me. -
Era vero.
Senza ombra di dubbio.
Allora, per quale motivo, dentro di sé, sentiva che il suo primo impulso sarebbe stato quello di accettare immediatamente la proposta dell’altro? perché gli pareva tanto allettante passare due giorni con lui? 
Non era tipo da dare corda tanto facilmente ad un estraneo. Di solito, faceva fatica anche a parlare con chi conosceva da tempo!
Ma in quel caso, era diverso.
Sembrava che Murakami fosse riuscito da subito ad instaurare con lui un’intesa più profonda di quanto avesse mai fatto chiunque. Gli erano bastati uno sguardo, una parola, un semplice gesto.
- Non ti preoccupare di niente! – Di fronte a lui, il compagno era di nuovo raggiante. – Te l’ho chiesto io; se tu mi disturbassi, me ne sarei stato zitto, no?! -
Nat annuì piano, arrossendo di nuovo.
- Sì, ma... -
- Allora, è tutto a posto! – Bevve un altro sorso e lo fissò da sopra il bordo del bicchiere. – Senti, facciamo così. – Aveva abbassato la voce, e sembrava più ragionevole. – Se domani sera non sei impegnato, potremmo vederci qui a quest’ora; ci beviamo qualcosa, e nel frattempo tu saprai dirmi se il fine settimana ti andrebbe di fare un giro. Niente di impegnativo. Ti aspetto per mezz’ora, e se non ti vedo, me ne vado. Mh? -
I suoi occhi parevano scintillare, quasi provocanti. 
Nat si morse un labbro e si passò una mano fra i capelli.
- Mh. – assentì.
Sapeva che avrebbe accettato.
- Però se sei tu ad arrivare prima, non andartene subito. Ok? -
Sbatté le palpebre con aria scherzosamente supplichevole, e Nat scoppiò a ridere.
- Ok. – replicò.
Era da tanto che non rideva così.
Era come se una ventata di aria nuova, fresca, fosse entrata nella sua vita.
Stava ancora ridacchiando, ascoltando il compagno, quando entrò Brad.
Nat si irrigidì subito, alzandosi in piedi quasi di scatto, senza pensare.
- E’ arrivato Brad. – mormorò stupidamente.
L’altro lo vide e si diresse verso di lui, alto, imponente, il passo deciso di chi è sicuro di se stesso e dell’impressione che suscita.
Elegantissimo, come sempre, e bello, gli occhi grigi, di ghiaccio. Certe volte, Nat aveva l’impressione che riuscissero a perforargli l’anima.
Lo raggiunse e gli fece un breve sorriso, soffermandosi subito con lo sguardo sul ragazzo giapponese, un sopracciglio alzato con aria interrogativa.
- Ciao... Brad. Aah, lui è Murakami... mh... Hiroyuki. – Murakami, intanto, si era alzato e si stava inchinando brevemente. Non sorrideva più, e il suo sguardo era serio, fisso in quello del nuovo arrivato.
– E... Bradley Hutton... -
Anche Brad si inchinò, e salutò in giapponese, mentre Nathan si sentiva così assurdamente agitato da non riuscire a stare fermo.
- Lui... Mi ero perso e... e lui mi ha indicato la strada. È stato così gentile da... da accompagnarmi fino a qua. -
- Non so come ringraziarla, signor Murakami. E’ stato veramente gentile da parte sua. Nathan non ha ancora imparato a muoversi, in questa città. -
Sorrise, il sorriso affascinante che sapeva sfoggiare tanto bene, e intanto gli fece scivolare una mano su una spalla.
Nat sperò che non si accorgesse che stava tremando.
- Non è facile, per uno straniero. – ribatté Murakami, sempre serio, formale. – Mi ha fatto piacere poter essere utile. -
- Scusi ancora per il disturbo. -
- Nessun disturbo. -
Altri inchini, altre formalità, e Nathan che non sapeva bene dove guardare.
Brad disse che dovevano andare, si scusò, salutò.
Nat riuscì a malapena a fare un lieve sorriso all’indirizzo del giapponese.
Quando uscì dal locale, l’aria calda dell’esterno lo colpì quasi come uno schiaffo, dopo il fresco dell’aria condizionata.
Si affiancò a Brad, chiedendosi come mai si fosse sentito tanto teso.

Li guardò uscire, poi tornò a sedersi con un sospiro.
E così, quello era l’amico.
Amico...
Quello era tutto fuorché un amico.
Pareva più un padrone, un possidente. Ci mancava solo che lo tenesse al guinzaglio, e poi il quadro sarebbe stato perfetto!
Scosse il capo e si accese una sigaretta.
Che cosa gli prendeva?
Non era da lui comportarsi così.
Quel pomeriggio aveva proprio perso la testa.
Sorrise fra sé.
L’espressione non poteva essere più veritiera.
Aveva letteralmente perso la testa...
Appena lo aveva visto.
Appena posati gli occhi su di lui.
Stava uscendo dalla stazione, quando lo aveva incrociato, una figura esile, con la pelle bianchissima, i movimenti aggraziati.
Sembrava un essere etereo, la creatura fatata di una fiaba, un angelo...
Quando era uscito da sotto il porticato, il sole aveva colpito i suoi capelli dorati, e Hiro era rimasto accecato.
Senza riuscire a pensare ad altro, lo aveva seguito: aveva preso lo stesso autobus, era sceso alla sua fermata, lo aveva osservato guardarsi attorno spaesato, muoversi quasi smarrito fra la folla, come una piuma sospinta dal vento. Poi, lo aveva perso di vista, e si era quasi sentito mancare, come ad un sub cui avessero tolto il respiratore. Si era fatto largo fra la gente, cercandolo, tentando di distinguere i suoi capelli chiari quasi fossero un faro nell’oscurità; poi, per caso, si era scontrato proprio con lui.
Hiro aveva subito pensato ad un segno del destino, e si era sentito spinto ad approfondire in ogni modo la loro conoscenza.
In effetti, aveva approfittato di qualsiasi spunto, di qualsiasi occasione potesse permettergli di rivederlo, di parlare ancora con lui, e aveva gettato le basi per una possibile amicizia.
Una caccia vera e propria…
Ed era questo che, a pensarci, lo sconvolgeva di più, e gli faceva capire fino a che punto quel ragazzo lo avesse colpito. Perché lui non era solito agire in quel modo, non rischiava mai fuori del suo territorio, dove non conosceva le tendenze di chi aveva di fronte, e si muoveva comunque sempre con cautela. 
Non succedeva spesso che qualcuno colpisse a tal punto il suo cuore, tanto da fargli perdere d’un tratto tutta la sua prudenza.
Forse, non era mai successo…
Mentre stavolta era bastato un niente.
Era bastato specchiarsi una volta in quegli occhi color del mare, un verde misto all’azzurro che pareva creato apposta per essi; era bastato vedere da vicino il suo volto, il modo in cui arrossiva, l’imbarazzo che lo rendeva quasi più puro.
Non sarebbe riuscito a lasciarlo andare così, a rimanere indifferente.
Sembrava anche simpatico, dolce, e piacevole stare con lui.
Storse la bocca.
Un colpo di fulmine in piena regola.
Uno di quelli a cui non aveva mai creduto, e per cui aveva spesso schernito i propri amici.
Sapeva che era assurdo, inutile: l’altro aveva già un compagno, era più che evidente, un compagno all’apparenza possessivo ed autoritario.
Probabilmente, lui non avrebbe avuto alcuna speranza.
Però, era anche vero che non ci sarebbe stato niente di male, a passare qualche giorno con lui, e provare a diventare suo amico.
Amico...
Ma chi voleva ingannare?
L’amicizia era solo una scusa, una menzogna con cui cercava di giustificarsi. Quello che voleva veramente era ben altro!
Era un ipocrita, un meschino.
Lo aveva avvicinato mostrandosi gentile, altruista, e invece il suo scopo principale era quello di sedurlo.
Intenzione che non pareva crollata neppure dopo che aveva scoperto che l’altro era già legato a qualcuno.
Sbuffò e si allentò la cravatta, chiamando il cameriere con un breve gesto.
Beh, quel... quel Bradley non gli aveva fatto certo una buona impressione: l’aveva trovato odioso dal primo sguardo. Non avrebbe avuto remore nel tentare di portargli via Nat.
E poi, in amore non esistevano regole.
Fece un ghigno deciso rivolto al vuoto.
- Ehm... Signore, scusi... -
Una voce interruppe i suoi pensieri e lui sussultò,
tornando alla realtà.
Il cameriere lo guardava perplesso e intanto aspettava compitamente l’ordinazione.
Hiro deglutì a vuoto, si ricompose e chiese un’altra birra, sfoggiando un sorriso radioso.
Si stava veramente comportando come un idiota.
Doveva smetterla.
Doveva tornare coi piedi per terra, a pensare con lucidità e raziocinio.
Quel ragazzo era irraggiungibile, apparteneva già ad un altro, era un turista che se ne sarebbe andato entro pochi giorni e che viveva dall’altra parte del globo.
Quindi, meglio toglierselo dalla testa.
Sì.
Perfetto.
Annuì convinto e spense la sigaretta.
Toglierselo dalla testa.
Smettere di pensarci.
... Anche a quegli occhi, a quel sorriso, a quella pelle candida?...
Crollò il capo in avanti con un gemito.
Non ce l’avrebbe mai fatta!






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