I personaggi non sono miei. La storia è scritta senza scopo di lucro.
Buona lettura a tutti. Ichigo
Ali
parte VI
di Ichigo
Spostò lo sguardo sul piccolo timer fissato sopra la pulsantiera di comando e guardò l’ora: le 23.00, ancora una e poi sarebbe potuto tornare a casa, il suo turno finiva a mezzanotte in punto; era stato uno dei privilegi concessigli nel contratto di lavoro, poiché era ancora uno studente. Osservò distrattamente i pulsanti numerati che, uno dopo l’altro, s illuminavano man mano che salivano, indicando che si stavano avvicinando al piano dove i passeggeri sarebbero scesi e solo quando l’ascensore fermò la sua corsa e il campanello trillò indicandone l’arrivo, Hanamichi si accorse distrattamente che erano arrivati al quindicesimo. In modo professionale, Sakuragi aprì il cancelletto uscendo per primo, aiutando la donna a fare lo stesso tendendole la mano educatamente, quando questa venne investita da una furia in corsa che, dopo esserle andata addosso, non si era fermata neanche per chiedere scusa. Grazie alla prontezza di riflessi di Hanamichi, la signora riuscì a non cadere, sorretta tra le braccia del ragazzo, mentre lei gli si aggrappava a sua volta. “Grazie ragazzo…ma cos’era?” domandò poi al marito, che scosse le spalle aiutandola a riprendere l’equilibrio per raggiungere insieme la stanza che avevano prenotato. Sicuramente l’uomo non poté darle una risposta esauriente, ma qualcun altro invece aveva visto chiaramente cosa fosse, avrebbe riconosciuto quei due colori ovunque. ‘I miei colori ed i suoi’, pensò e senza riflettere si lanciò di corsa nella direzione in cui aveva visto quel ragazzo sparire, ritrovandosi alla fine del corridoio di fronte alla zona dei bagni. Si avvicinò alla porta che recava la scritta ‘Man’ su di una targhetta dorata posando il palmo della mano sulla superficie liscia di essa e, dopo aver fatto un bel respiro, la spinse piano ed entrò. *** Non mi sono sbagliato, io non mi sbaglio mai, su di lui poi. Chino, con le braccia sul bordo del lavandino e la testa nascosta tra esse, un ragazzo dai capelli nerissimi indossa la tuta da ginnastica rossa e nera dello Shohoku. “Rukawa”, lo chiamo in un soffio che a lui è arrivato comunque, perché solleva di scatto la testa raddrizzandosi velocemente e guardandomi con sorpresa. Ma c’è anche tanta tristezza nel suo sguardo: sta piangendo o lo ha appena fatto, gli occhi sono lucidi e luminosi di un blu intenso, le guance umide ed arrossate, mentre una stilla salata è ancora intrappolata tra le sue ciglia scure. Sento male al cuore nel vederlo così, lui è una persona forte che affronta le sfide, di qualunque genere esse siano, a testa alta, senza farsi ostacolare da niente e da nessuno, mentre adesso davanti a questa visione di lui così fragile, mi ritrovo a pensare di voler capire, ora più che mai, quale sia il motivo di questi suoi strani atteggiamenti. Con ‘fragile’ non intendo dire che sia debole, perché riguardo lui, sono due cose diverse. Perciò pronuncio ancora una volta nella mia mente quella domanda che mi posi alcune sere fa: ‘cosa ti stanno facendo Kaede?’ Faccio un passo verso di lui che automaticamente alza veloce un braccio e si asciuga con la manica della tuta gli occhi, sfregandoli quasi con rabbia, per eliminare qualsiasi traccia di quella sconosciuta e fastidiosa sensazione di dolore, o, forse in questo caso, di disperazione ed impotenza. “Kitsune” faccio un altro passo verso di lui e gli sono praticamente di fronte, non so neanche io cosa mi guidi in questo momento, so solo che voglio abbracciarlo e stringerlo e non mi importa niente delle conseguenze, tant’è che allungo le braccia verso di lui, rimanendo poi zitto ed immobile. Lui osserva questi miei movimenti lenti con sguardo dapprima indecifrabile, fino a che qualcosa non passa in quegli occhi ed allora scosta le mie braccia con un gesto seccato delle mani facendo un passo indietro, ma questo non è sufficiente a farmi desistere. Al contrario, resto con le braccia protese guardandolo negli occhi in silenzio, neanche lui dice niente e muove di nuovo le braccia con uno scatto facendo in modo che io sposti le mie, che nuovamente riporto con pazienza e voluta calma alla posizione precedente, senza dire una parola. Cominciamo così una breve lotta, non solo fisica, io per poterlo stringere e lui nel cercare di sfuggirmi, ma anche di sguardi: ci lanciamo intense occhiate con le quali è come se stessimo comunicando. Spero che questo mio non arrendermi alle sue proteste gli faccia capire i miei pensieri e la profondità delle mie intenzioni, che non sono atte ad umiliarlo o altro, come quella sua testolina di volpe potrebbe arrivare a pensare. Ed infatti in qualche modo deve averlo percepito, perché è lui stesso alla fine che, dopo un ultimo tentativo di resistenza, mi si getta tra le braccia passandomi le sue attorno al torace, stringendo tra le dita la giacca della divisa, sulla schiena e premendo il viso contro il mio collo. Immediatamente lo stringo a me avvolgendolo in un abbraccio, posando la mia testa sulla sua e respirando il suo buon profumo. Alzo una mano e faccio scorrere le mie dita tra i suoi morbidi capelli: “Kaede” mi ritrovo a sospirare per la prima volta il suo nome che, nonostante il suono dolce con il quale esce dalle mie labbra, lo porta ad irrigidirsi e scostarsi velocemente da me con espressione confusa, come se solo adesso avesse pienamente preso coscienza del suo gesto. E riesco a leggerla chiaramente nei suoi bellissimi occhi la confusione e la paura, per essersi mostrato così a me, colui che considera suo rivale ed è per questo che adesso mi rivolge nuovamente quello sguardo indifferente e gelido, quello tipico e sicuro della volpe che ho sempre conosciuto. Però c’è anche dell’altro che non riesco a comprendere ed è per questa mia distrazione che un pugno sul viso che non mi aspetto, riesce a sbilanciarmi costringendomi ad indietreggiare. Mi guarda senza dire una parola, accusandomi di qualcosa che non ho fatto, di una colpa più grande di quella che io abbia solo per averlo abbracciato e consolato, mostrandogli così il mio affetto per lui. Questa è la mia colpa Kaede: essermi innamorato di te, anche se questo non lo puoi sapere. E i tuoi occhi mi sfidano ancora e se anche litigare con te è l’ultima cosa che voglio in questo momento, ancora una volta mi ritrovo a fronteggiarti e a non cedere davanti al tuo sguardo. Se è la rissa quello che cerchi, bè stupida volpe, non sarò certo io a tirarmi indietro. Torno assolutamente me stesso mettendo da parte i sentimenti che provo per lui e mi riporto nella sua stessa linea d’aria colpendolo a mia volta con un pugno sul viso, che coglie anche lui completamente alla sprovvista. “Cosa diavolo ti prende stupida volpe?!” ***
Rukawa, in modo scocciato, si pulì con il dorso della mano il labbro che Hanamichi aveva spaccato facendolo sanguinare, rivolgendo al compagno uno sguardo duro. Rapido come sempre, gli si scagliò addosso cominciando con lui una lotta delle solite. Accidenti se gli era mancato quel pomeriggio azzuffarsi con lui, per sfogarsi come solo con Sakuragi era in grado di fare, perché il rosso lo spronava, Sakuragi lo stimolava, Hanamichi lo costringeva ad accorgersi di lui e a dargli la sua totale attenzione che doveva essere interamente dedicata ad una palla da basket. E adesso, finalmente, aveva l’occasione per scaricare in un modo più dignitoso e che gli si addiceva più delle lacrime tutta la rabbia che sentiva dentro e che aveva trattenuto durante la cena. Tutto sempre grazie a Sakuragi. Questo lo faceva sentire strano, perché non capiva come mai proprio lui lo facesse stare così e soprattutto perché continuava ad essere presente in quei momenti. “Doaho” ringhiò e caricò il pugno che batté violento contro la sua spalla, questo perché l’aveva visto piangere, l’aveva visto debole e non solo l’aveva abbracciato, ma lui stesso si era lasciato stringere. Come riusciva a fargli fare certe cose non se lo spiegava proprio e questo aumentava la sua furia. Hanamichi però non rimase di certo a guardare, cosa credeva, anche lui doveva scaricare la tensione. In palestra l’aveva lasciato stare, poi si era visto respingere un abbraccio, cosa pretendeva da lui? Un pugno ben assestato allo stomaco fece piegare il moro in avanti che lo guardò fulminandolo, non avrà davvero pensato che se ne sarebbe stato buono buono ad incassare i colpi senza fiatare? “Cosa cavolo vuoi da me si può sapere?” aveva parlato con un tono che Hanamichi non aveva mai sentito. Sembrava disperato, anzi, esausto di tutto, anche di lui e fu per questo che il rosso rimase un momento perplesso, ma non abbassò la guardia riuscendo a fermare il pugno che Rukawa aveva caricato, imprigionandolo nella sua mano. “Scusa? Io non voglio proprio niente da te è un caso che mi sia trovato qui, e poi tu sei quello che è andato addosso a quella signora senza degnarti neanche di chiedere scusa” Ma Rukawa ignorò l’osservazione e continuò: “nessuno però ti ha detto che mi potevi seguire, dovevi tornare a svolgere i tuoi compiti e visto che sei qui e non al posto che ti si conviene, farò rapporto al direttore perché il suo stupido impiegato è solo un’impiccione”. A quell’affermazione cattiva, Sakuragi gli torse il braccio che gli teneva imprigionato dietro la schiena avvicinandosi a lui e guardandolo con quegli splendidi occhi scuri spalancati: “non lo faresti mai, a me serve questo lavoro Rukawa, tu…tu non sai proprio un bel niente” gli urlò in faccia ormai completamente dimentico del motivo che l’aveva spinto a seguirlo. Come si permetteva di trattarlo in quel modo, cosa ne sapeva lui di tutto quello che aveva passato per arrivare fin lì? “E tu non sai niente di me, chi ti credi di essere per starmi sempre tra i piedi, chi ti vuole? Tu la devi smettere di farti gli affari miei, non sei il mio angelo custode, è chiaro?” anche Rukawa, ormai preso dalla situazione, cominciava a parlare a raffica diventando incredibilmente logorroico, ma tagliente. Perché era vero che si era sentito sempre addosso lo sguardo di Sakuragi in quel pomeriggio, uno sguardo attento, come se fosse veramente il suo ‘angelo’, ma anche pieno di compassione. E quando lei era entrata in palestra aveva sentito un carezza leggera sul braccio che aveva un che di protettivo appunto, ma che in quel momento, in quel luogo, quel tocco gentile, somigliava molto di più ad una scottatura. Ripensando a queste sensazioni, il ragazzo moro piantò i suoi occhi, freddi come non mai, in quelli di Hanamichi e senza lasciargli il tempo di replicare né di difendersi, si prese l’ultima parola, serrò forte la mascella e lasciò uscire: “non abbiamo nulla da spartire io e te, che cosa mi rappresenti sentiamo? Te lo dico io, niente…tu non sei niente per me!” A quelle parole dure e gelide Hanamichi aveva sentito il cuore mancare un battito ed il suo cervello aveva smesso di pensare, azzerando ogni azione razionale. La testa sembrava essersi svuotata, perché in essa rimbombava solo l’eco di quell’ultima frase che gli aveva letteralmente spezzato il cuore. Approfittando di questo momentaneo smarrimento dell’avversario, Rukawa riuscì a liberarsi dalla stretta del compagno e piantando entrambe le mani sul suo petto, lo spinse lontano da sé sorpassandolo e lasciandolo in quel lussuoso bagno, da solo con i propri pensieri.
Fine capitolo VI
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