I personaggi non sono miei, ma appartengono a T. Inoue

 

 

Ichigo

 



 


 

 

Ali

 

parte II

 

di Ichigo

 


“La ringrazio infinitamente direttore”.

 

Vedo mia madre piegarsi in un inchino di profonda riconoscenza e la imito immediatamente senza dire una parola, come d’altronde ho fatto per tutto il tempo del colloquio; a parte presentarmi non ho detto nulla, ho lasciato che fosse mia madre a parlare per me.

 

 “Sono sicuro che il ragazzo non ci deluderà. E poi ci serviva proprio qualcuno di così bella presenza per svolgere il lavoro di portinaio”.

 

Ecco il motivo per cui mi trovo qui, in questo elegante ufficio, per chiedere un colloquio di lavoro con il direttore che gestisce uno dei più importanti alberghi della città, in cui mia madre lavora come cuoca.

 

Sono passati ormai dodici mesi dalla morte di mio padre, dal giorno in cui gli venne quell’infarto.

 

Quello è stato anche il giorno in cui io, Hanamichi Sakuragi, sono morto, ma ho anche ricominciato a vivere.

 

Quell’evento mi ha cambiato, mi ha fatto maturare e crescere. È stato inutile incolparmi su quanto successo, ci ho messo più di sei mesi alla fine, per capire che non potevo continuare a piangermi addosso, per qualcosa di molto più grande di me. Perché in fondo, cosa sono io, un sedicenne qualunque, paragonato al Destino, quella forza sconosciuta e misteriosa che tutto guida e tutto regola?

 

Non ho potuto oppormi a Lui quel giorno e non serviva a nulla incolpare me stesso, gridarmi addosso fino a non avere più voce o gridare a Lui, adesso.

 

Mi sono guardato dentro e ho deciso che dovevo reagire, andare avanti cercando di vivere ogni giorno al meglio, per me e per mia madre. Perché non ero solo, perché avevo lei.

 

E l’unica cosa che concretamente potevo fare per noi, era lavorare. Aiutare mia madre non facendola preoccupare più di me, ma, anzi, dandole anche io la forza necessaria a riprenderci.

 

Avrei continuato a studiare, a giocare a basket ed avrei lavorato. Volevo tutto questo: anche con un po’ di sacrifici ce l’avrei fatta.

 

Ma ancora una volta mi sono dovuto ricredere e ridimensionare, era troppo bello per poter essere vero. Poter pensare di essermi ripreso. Troppo facilmente, troppo facile pensarlo.

 

Perché il Destino ancora una volta aveva messo in tavola le sue carte, stracciandomi alla grande.

 

Perché nonostante tutti i miei buoni propositi ed i miei sforzi, vedevo davanti a me solo porte sbattute in faccia alla prima occhiata, per il mio aspetto un po’ rozzo e duro: un teppista dai capelli rossi!!

 

È così che mi etichettavano senza udienza, senza facoltà d’appello.

 

Fino a che all’ennesimo rifiuto tutta la mia rabbia non è esplosa, nel modo più logico e naturale.

 

Ho pianto, pianto come un bambino, per la mia impotenza, per il non essere riuscito a salvarlo, per la mia assoluta incapacità di fare qualcosa di concreto per mia madre. Ho pianto perché mi sentivo solo e perso, perché lui se n’era andato ed io avevo ancora bisogno dei suoi consigli, perché in fondo è vero che sono solo un ragazzo di sedici anni.

 

Ed ho pianto come non ho fatto neanche quel giorno, nel quale mi sono ripromesso che sarei stato supporto per mia madre da allora in avanti.

 

E questa valanga di pensieri l’ho rovesciata addosso a lei che per volere del Destino ancora una volta, quel giorno, avendo smontato prima, mi trovò così, disperato, solo con il mio dolore.

 

E lei nonostante tutto ha capito, ha compreso il mio bisogno di sentirmi utile, di sentirmi vivo, di sentirmi indispensabile per lei…e per me.

 

E ripenso a tutto questo, adesso che, grazie a lei, porto indosso questa divisa rossa e nera.

 

Uniforme che, sembra strano, ma mi fa sentire bene; sarà per i colori a me familiari, non lo saprei dire.

 

Rossa la giacca, ornata di piccoli bottoncini dorati sui polsini e sul doppio petto che riportano il simbolo dell’hotel e neri i calzoni lunghi, con la piega centrale sul davanti, che mi cadono dritti in modo perfetto.

 

Scarpe da uomo eleganti con i lacci sottili legati a fiocchetto completano il tutto.

 

Forse non sono mai stato così elegante e posato in vita mia, perciò faccio la mia figura.

 

Ah no, piccolo dettaglio…mi sentirei veramente apposto se non dovessi indossare questo strano e ridicolo cappellino rosso, decorato anch’esso con dei bottoncini ad un lato della calotta. Ma almeno non sono l’unico, il ragazzo alla reception lo indossava anche lui.

 

Me lo sistemo un po’ meglio in testa in modo che i ciuffi davanti vengano nascosti bene e non mi diano fastidio sul viso e solo quando mi sfioro i capelli mi rendo conto che il direttore non ha detto una parola sul loro colore, ne ha storto il naso nel vederli, come fanno solitamente tutti.

 

Faccio un profondo respiro mentre i passeggeri che ho accompagnato finora si dirigono verso la grande sala d’aspetto ed io mi sento pronto a ricevere i prossimi.

 

Mi impongo di rimanere con la schiena dritta, a dire la verità mi fa un po’ male stare sempre fermo in questa stessa posizione, ma cerco lo stesso di assumere un’espressione professionale, quando vedo entrare nell’ascensore una bellissima donna in un elegante abito rosso, avvolta in una morbida stola.

 

Mi sorride gentile e noto che ha gli occhi di un bellissimo verde e di capelli lunghi neri, scurissimi. Le rispondo con un lieve cenno del capo e noto solo adesso la persona che cammina dietro di lei.

 

E non posso fare a meno di sussultare. Perché proprio lui è l’ultima persona che mai mi sarei aspettato di vedere qui e se non fosse che conosco a memoria ogni più piccolo particolare del suo viso potrei facilmente scambiarlo per qualcun altro.

 

Ma sono certo che sia lui è vestito divinamente in un completo scuro elegante, con il solito broncio e forse l’espressione leggermente sorpresa nel riconoscermi, mentre entra nella cabina.

 

Ma è lui.

 

È la mia kitsune e nonostante lo stupore che mi si agita dentro, nonostante il cuore mi batta forte nel petto ed il respiro spezzato in gola, con mia sorpresa mi sento solo dire: “Buonasera signori a che piano?”

 

Fine capitolo II