Pre-fic:
Aléxandros “Pre-fic”
non nel senso di prefica, e nemmeno in quello di “preliminari di una fic”.
No no, qui la fic c’è tutta, compiuta. Pre-fic nel senso che la scrissi
poco prima che nelle sale cinematografiche uscisse “Troy”, pensando...
come dire... di portarmi avanti col lavoro. Era
da un po’ che m’era venuto il ghiribizzo di slashare il buon Paride,
soprattutto pensando al suo leggiadro interprete nel kolossal suddetto.
Così alla fine mi decisi a farlo in anticipo, per scongiurare il rischio
che un’eventuale delusione mi riducesse all’impotenza. Decisione
quanto mai lungimirante, mi avvidi poco dopo, di fronte a quell’immane
scempiaggine che di per sé è “Troy” (parere personale,
naturalmente). Questa
è una fiction scritta PRIMA di vedere il film (di cui non sapevo quasi
niente allora e sarebbe stato meglio non sapessi niente del tutto) e
costruita, invece, su quello che conosco del mondo omerico in cui è
ambientata. Ma lungi da me, non sia mai, accampare qualsivoglia pretesa di
verosimiglianza storica e letteraria per ciò che ho prodotto, giacché
immagino che il povero Omero - ammesso che sia esistito - si rivolterebbe
nell’urna a vedere quel che ho combinato con i suoi nobili eroi. Dunque,
ho scritto solo per divertimento, per dar sfogo all’estro creativo e
biologico, e con in mente un solo preciso intento: quello di far copulare
tutti i personaggi quanto più possibile. Quanto al rating, in effetti
credo che a questa fic si addica la sigla PWP, che - come apprendo da
autorevoli fonti - ha la seguente spiegazione: “Plot?
what plot? (trama? quale trama?) la storia è solo una scusa per mostrare
una bella scena di sesso”. Beh...
non esageriamo... in effetti qui un plot c’è, e anche un’idea di
fondo che ispira la vicenda. Ma in ogni caso chi legge sappia che si
troverà di fronte a una Nc-17 + che fa spesso ricorso al linguaggio
portuale. Ergo, chi non si sentisse portato per la materia, forse farebbe
meglio a passare oltre: in caso contrario ricordi che entra a suo rischio
e pericolo. Uomo... anzi, donna avvisata... Titolo: Aléxandros Genere: fanfic slash Serie: “Troy” Pairing: Paride (Alessandro per i Greci)/Aiace (con l’aggiunta di varie altre “guest-stars”). Autrice: Lady Nïnde Rating: Nc-17 +
Disclaimer: i personaggi non mi appartengono (anzi, sì, invece: i personaggi di Omero appartengono a tutti!) e gli attori tanto meno (ma cerco di farmene una ragione). Bye bye!!! Aléxandros di Lady Ninde Infine,
era scesa sulla città l’ombra del tramonto che vela le cose, e anche il
clamore della battaglia arrivava stanco, come l’eco inascoltata e
distante di un lamento. Era abituato, ormai, a quella calma greve e
opprimente, a quel suono lontano di armi che si spegneva su un’altra
notte. Si intravedeva già, presso qualche tenda più prossima, l’alone
luminoso delle prime lampade accese. Ma
quel sentiero che portava al campo acheo l’aveva percorso molte volte, e
non aveva timore ad avvicinarsi da solo al cuore della forza nemica. Era
atteso, anche quella notte. Strinse
il pugnale nella mano e affrettò il passo, guardando fisso davanti a sé
mentre già si udivano, rare, le voci dei guerrieri tornati dalla
battaglia. Non
correva lo stesso rischio che avrebbe corso un altro mortale, perché sul
suo cammino vegliava una dea, la dea che egli aveva scelto. Che lo
proteggeva da allora, aiutandolo a realizzare i suoi desideri. Afrodite
che ama il sorriso: ne aveva il favore, e la maledizione. Perché ogni
desiderio d’amore ha una punizione, e un prezzo da pagare. Il
sorriso degli dei, sulle illusioni degli uomini. Ma
non gli dava quasi più amarezza, ormai. Tutto si stava compiendo, e non
era più il tempo della speranza. Quelli che avevano sperato erano morti
tutti. E sarebbe successo anche a lui. Paride
Alessandro, figlio di Priamo, pari agli dei. La fiaccola ardente che
avrebbe bruciato Troia, come nel sogno di Ecuba, sua madre. Avrebbe
incontrato il suo destino presto. Ma
non quella notte. Quella notte era atteso. Così
era cominciato tutto, tanto tempo prima: era tornato da solo, e l’aveva
trovato che lo aspettava. Come
se lo sapesse già. Un
brivido gli aveva attraversato le membra. Si
accorse che di nuovo rabbrividiva. Era
stato più forte di ogni parola, di ogni spiegazione. Il suo corpo dentro,
e basta. Che lo riempiva, lo usava. Le mani che lo tenevano, strette così
tanto sulle sue cosce da lasciargli i segni. Le braccia che lo sollevavano
quasi, trattenendolo mentre lo possedeva come furente, in silenzio. La
forza con cui lo sosteneva portandogli il bacino a sé, come se non avesse
alcun peso, come se non potesse in alcun modo opporsi. In piedi, col suo
sesso che gli affondava dentro spingendo velocemente, mentre sentiva le
proprie gambe contorcersi, avvolgersi su quelle di lui. E poi in
ginocchio, contro il letto di pelli, col contatto del suo petto velato di
sudore contro la schiena ansimante, curva, schiacciata da quella stretta.
E a terra, senza tregua, fino alla fine, coi colpi dei suoi fianchi e gli
affondi dentro la carne, con le sue mani che gli afferravano il ventre e
lo portavano verso quelle spinte, col sesso imprigionato e chiuso nel suo
palmo, nel suo movimento rapido e prepotente, che lo sfregava
avvolgendolo, mentre lo penetrava. Gli era venuto in mano mentre lo
scopava così. E lui aveva continuato a scoparlo, sempre più duro e
incalzante, e quando gli aveva goduto dentro aveva sentito il caldo del
suo seme che lo riempiva, che scivolava tra le cosce come una carezza. Nessuno
se n’era accorto. Da
soli, nella parte più interna della tenda, erano rimasti a terra muti per
un lungo tempo. Mentre il sangue rifluiva alle tempie, restituendogli il
respiro, avvertiva acutamente il tocco della sua mano in mezzo ai glutei,
che lo teneva. E quando si era girato per rialzarsi, e aveva guardato i
suoi occhi, si era sentito spingere ancora a terra dal suo viso, con una
passione calma, e la sua lingua gli era entrata in bocca rimanendoci a
lungo, fino quasi a farlo eccitare di nuovo. Tremava,
quando era uscito dalla tenda per raggiungere i compagni, partecipare al
banchetto ospitale che era stato offerto dal leale nemico, scambiare
parole e consegnare i doni infiniti che il principe acheo aveva accettato
come riscatto di Ificle, figlio della casa di Priamo. C’era
andato lui, Paride, a incontrare Aiace figlio di Telamone, il possente
guerriero, il più forte dei Danai dopo la morte di Achille. Si era recato
alla grande tenda con dignitoso corteo, ricche e convenienti offerte in
cambio della libertà del giovane catturato in battaglia, per riportarlo
alla casa del padre, alla rocca di Troia. Aiace
non aveva disprezzato i doni del re, il rango dei suoi inviati, e li aveva
fatti accogliere secondo l’usanza. Poi aveva condotto lui, capo
dell’ambasceria, nell’interno della tenda, per trattare lo scambio. Altre
volte si erano incontrati nel corso di quegli anni di guerra, sempre sul
campo. Sebbene mai si fossero battuti in duello. Ma
quella sera, per la prima volta, si erano trovati davanti da soli, e si
erano guardati. Quello
che era accaduto poi era stato così violento e improvviso che faceva
fatica a ripensarlo in modo ordinato. Erano le immagini a balzargli
davanti agli occhi, a scuotergli il cuore. Aiace
dinnanzi a lui, sulla sedia dagli alti sostegni. Come lo aveva fissato
senza dire una parola, come se gli avesse letto dentro fin dal primo
momento. L’impulso che aveva provato di avvicinarsi, invece che porsi di
fronte sul sedile di faggio preparato per l’ospite. E il gesto che aveva
compiuto, quasi glielo avesse ordinato, di chinarsi ai suoi piedi. Come
nell’atto del supplice, di stringergli le ginocchia. Ma non era questo
che aveva fatto. Lo
aveva guardato in volto, invece, e il possente Aiace lo aveva trapassato
con la scura profondità dei suoi occhi. Era avvampato, mentre lo vedeva
muovere una mano verso di lui, senza distogliersi dal suo sguardo. E
si era lasciato prendere quella mano, stretta dal polso, mentre il
guerriero acheo se la portava lentamente in grembo. L’aveva tenuta ferma
così, chiudendola sul suo sesso eretto, rigido e duro sotto la tunica
corta. Si erano guardati. Era
stato un istante solo: lo aveva preso nel palmo subito, dando quasi un
gemito, muovendo la mano su e giù intorno al tessuto, sentendolo fremere
leggermente. Poi, sconvolto dall’eccitazione, aveva cercato in fretta la
carne nuda sotto la veste, e nello stesso momento lo aveva circondato con
le labbra e si era sentito le mani di lui attorno al capo, che se lo
portavano addosso. Lo aveva preso in bocca e lo aveva succhiato, febbrile,
mentre sentiva il desiderio crescere, e il bisogno che lo toccasse. Così
era iniziata, senza parlare. In pochi momenti, appena rimasti soli. Lo
aveva succhiato con una passione che non ricordava da tempo infinito,
sentendo quel sesso farsi sempre più duro, stimolato dai colpi della sua
lingua, il sapore umido della sua eccitazione che si faceva strada sulla
cima, in lievi gocce. Avrebbe
potuto andare avanti fino a farlo godere. Ma a un certo punto aveva avuto
una voglia insopportabile di farsi possedere da quel membro durissimo. E
Aiace aveva capito, e l’aveva fatto. L’aveva
sollevato, facendolo stare in piedi davanti a sé, e gli aveva messo una
mano in bocca, perché la bagnasse con la lingua. Poi lo aveva toccato
intensamente in mezzo alle natiche, mentre lui già era fuori di sé, e si
era alzato tenendolo, infilandogli le dita dentro. Lo aveva allargato con
un gesto esperto e subito lo aveva posseduto, in piedi. Lo aveva scopato
in modo travolgente, stringendo tra le braccia il suo corpo totalmente
abbandonato a quelle spinte. Avevano
goduto pazzamente, nel più assoluto silenzio. Non
aveva mai goduto così. Mai,
nemmeno quando si era unito d’amore e di letto con Elena, nella casa di
Menelao che lo aveva ospitato. Nemmeno tanti anni prima, quando tutta
quella guerra era un miraggio lontano e lui era solo un giovane pastore
sul monte Ida, senza il peso di nessuna morte sopra le spalle: e il dio
Apollo lo aveva scelto, e lo aveva amato. Neanche
allora, nei giorni della scoperta e del desiderio, aveva provato un
piacere simile a quello. Eppure erano stati belli, quei giorni, in cui per
la prima volta aveva conosciuto il piacere, il vibrare della pelle
sfiorata dalle carezze, la brezza del respiro ansante sopra le labbra. Era
stato Corydon, suo compagno, a iniziarlo ai dolci misteri nei giorni di
primavera. Un giorno, mentre pascolavano il gregge, lo aveva raggiunto e
si era seduto accanto a lui, con uno strano sorriso. “Che c’è?”,
gli aveva chiesto lui allora, con uno sguardo così ingenuo che era
riuscito a percepire l’effetto del suo candore nel corpo dell’altro,
nei suoi occhi carichi di bramosia. Era
stato Corydon a insegnargli, nelle lunghe giornate passate soli, in riva a
un ruscello o al riparo di una radura. Lo sfiorava lentamente con le mani,
facendolo sdraiare sull’erba, e passava ore a lambirgli il petto con la
lingua, succhiandogli lentamente i capezzoli, chiudendoli tra le dita.
Lasciava che gemesse senza sapere cosa desiderare, che cosa chiedergli, e
poi lo baciava sulle labbra rosse e morbide, e stringeva con delicatezza
la sua erezione. Lo accarezzava lentamente, baciandolo, e spesso lo faceva
venire così, in un dolce e tormentoso abbandono. Oppure lo prendeva in
bocca, e lo succhiava a lungo. E si faceva succhiare e gli godeva tra le
labbra, col rumore del ruscello a fare da sottofondo ai suoi gemiti. Erano
stati belli quei giorni, ed era stato bellissimo il periodo venuto dopo,
quando quei loro giochi erano stati scoperti da Apollo, che era sceso nei
boschi del monte Ida e li aveva osservati, non visto, ed era stato rapito
dalla bellezza struggente del giovane principe, pastore per volere del
padre. Il
dio lo aveva desiderato subito, e subito lo aveva preso. Lo
ricordava ancora, quel giorno così lontano, perché era stata la prima
volta che era stato posseduto davvero. Apollo gli era venuto incontro,
assumendo le sembianze del suo compagno, e lo aveva guidato dietro un
cespuglio di bacche, nel folto del bosco. Eppure
lo aveva capito che non era lo stesso, che c’era qualcosa di nuovo in
quell’abbraccio pieno di brama, e di passione intensa. Mentre si
lasciava baciare, si faceva toccare da lui, sentiva che era diverso, anche
se non sapeva di trovarsi tra le braccia di un dio. Un
dio, che aveva mani e labbra e bocca e fianchi impetuosi, che sapeva
dargli un piacere che mai aveva provato prima. Era stato in suo completo
potere, tormentato dalla sua lingua, carezzato dal suo corpo che si
strusciava nudo contro di lui, spingendogli il ventre sull’erba,
sollevandogli il corto gonnellino di tela, denudandogli la spalla,
baciandola ardentemente mentre lui si dimenava sotto il suo peso,
coinvolto da quell’urgenza, da quella smania. Aveva
ansimato forte, quando aveva avvertito le gambe infilarsi tra le sue, come
mai era successo prima. “Corydon, Corydon...”, aveva ripetuto ansante,
sentendosi aprire, tenuto fermo dalle sue mani. Era
stato meraviglioso, sublime, perché Apollo, senza rispondere al suo
richiamo, si era spinto contro di lui e lo aveva posseduto in un solo
impeto profondo, senza fargli alcun male. Si era sentito riempire
completamente, e un godimento infinito lo aveva invaso, come un fuoco che
divora senza bruciare. Solo piacere, solo quello aveva provato, penetrato
dal sesso possente del dio, col ventre sul terreno e l’erba tenera a
carezzare la sua eccitazione che aumentava irresistibile, ad accogliere il
succo del suo godere, mentre quelle spinte crescevano, senza stancarsi
mai. Era stata un’esperienza incredibile, quella sua prima volta, perché
il suo amante divino lo aveva voluto a lungo, restando dentro di lui per
ore, facendolo godere più volte, fino a farlo svenire. E alla fine,
quando aveva goduto lui, con un grido soprannaturale che gli aveva
trasmesso tremiti inarrestabili, gli era sembrato che per un istante il
sole si spegnesse, e che ogni essere sulla terra cessasse di respirare. Poi,
quando lui si era ripreso dall’estasi e aveva riaperto gli occhi, Apollo
gli era apparso nelle sue vere sembianze, in tutta la sua maestà. “Dimmi
se ti sembro quello di prima!”, gli aveva detto. E
poiché allora, preso dalla paura per aver osato unirsi a un immortale, lo
implorava di risparmiarlo, il dio lo aveva rassicurato e gli aveva
promesso che nulla gli sarebbe accaduto di male, e che lo avrebbe protetto
come solo un dio sa proteggere il suo bellissimo amante. Era
durata molto a lungo, la loro unione. Agli dei piace prendere gli uomini,
divertirsi con essi nella beatitudine della loro condizione eternamente
giovane. E
non gli aveva chiesto di rinunciare a Corydon. Anzi, gli aveva imposto di
non rivelargli nulla, perché da allora aveva amato partecipare a quei
giochi, senza che il pastore suo amico lo potesse vedere. E
c’era stato un momento in cui, ebbro di quel piacere, lui non aveva
fatto altro che pensare a concederglisi. Cercava Corydon e si appartava
con lui in una smania continua, aspettando, esigendo le sue carezze,
incurante degli sguardi stupiti dell’altro che, da maestro, si sentiva
adesso superato da lui, quasi strumento del suo piacere. Ma
Corydon lo aveva amato sinceramente, e non si era mai rifiutato di dargli
quello che gli chiedeva. Il loro rapporto era divenuto intenso e ancora più
profondo, da allora. Il pastore si inginocchiava davanti a lui, lo
prendeva in bocca e non chiedeva altro che succhiarlo a lungo, lasciando
che assecondasse coi movimenti del bacino il ritmo che la sua lingua gli
dava. Paride impazziva, a quelle carezze, e gli posava le mani sopra le
spalle, ansimando. E aspettava, invocava dentro di sé Apollo che venisse
e lo prendesse in quel preciso momento, come ormai più volte lo aveva
abituato. Quasi
mai il dio rifiutava quella muta preghiera. Un
giorno, mentre il suo compagno lo lambiva con la lingua morbida, le spalle
contro il tronco di un albero, lui aveva avvertito il fremito della
presenza divina dietro di sé. Aveva dato un gemito, inarcando la schiena,
spingendo tutto il sesso tra le labbra dell’altro, che lo aveva accolto.
Apollo allora, carezzandogli il collo, gli si era accostato e lo aveva
stretto: invisibile a Corydon, sentito solo da lui. Gli aveva infilato il
pene in mezzo ai glutei mentre l’altro lo succhiava voracemente, e
tenendogli le mani ferme sui fianchi gli era entrato dentro facendolo
gridare di piacere, spingendolo con i suoi colpi nella bocca del compagno,
dandogli un nuovo ritmo incalzante, perché ad ogni spinta corrispondeva
un assalto appassionato della lingua di Corydon, che lo prendeva tirandolo
dentro, risucchiandolo in sé. Paride era quasi impazzito, e non aveva più
saputo capire se l’orgasmo stesse partendo dalla pressione veemente del
membro del dio nel suo corpo o dal vortice della saliva e della bocca del
pastore suo amico. Ma si era completamente arreso e gli si era riversato
dentro con un gemito oscuro, supplicandolo di ingoiare il suo seme. E gli
era sembrato di bagnarsi ovunque, anche dietro, dove il dio lo stava
penetrando ancora, sentendolo eccitarsi incredibilmente di più a quella
sua reazione. Apollo era venuto in lui subito dopo, infatti. E poi - come
se quello non lo avesse saziato e avesse ancora bisogno di soddisfare la
sua voglia, lo aveva lasciato mentre scivolava a terra, con Corydon che
finiva sul suo corpo esausto. E col sesso ancora durissimo, eretto, si era
steso su Corydon e lo aveva penetrato con passione, improvvisamente,
facendolo gridare di piacere sconosciuto. Lo aveva penetrato a lungo,
mentre Paride lo teneva a sè, abbracciandolo sul suo grembo. Eppure
con Aiace era stato più bello, anche se Aiace non era un dio. Forse era
stato più bello proprio perché non era un dio, e poteva capire come si
sentiva quando cercava nell’amore di dimenticare che la vita non aveva
senso, che tutto quell’infinito rincorrersi di soffrire e godere non
tendeva ad alcuna meta ristoratrice, ma solo a un ultimo nulla, senza via
d’uscita. Era più bello perfino il dolore che provava quando lo sentiva
entrare nel suo corpo per possederlo. Era più terreno, più vero, come
l’esistenza umana che avevano avuto in sorte. Perché
Aiace poteva condividere quel nulla, e perdonarlo per questo. E forse
perché avrebbe potuto amarlo, del sentimento assoluto che solo la
disperazione dell’umano sa raccogliere in sé. Era
ritornato alla sua tenda nel campo acheo da solo, quella notte stessa di
tanto tempo prima, quando il prigioniero riscattato era al sicuro ormai
nella casa dei padri, e le lacrime e la gioia del ritrovarsi avevano
ceduto il posto al sonno, e al conforto della terra amata. Lui,
Paride, era uscito di nascosto dalla città, invece, e aveva percorso a
perdifiato la strada che lo separava dall’accampamento dei Danai. Senza
invocare, in quella spedizione folle, la dea sua patrona perché lo
vegliasse: solo con la sua paura e il suo desiderio, per tornare da Aiace
e farlo ancora, fosse stata l’ultima cosa che la Moira gli concedeva. E
l’aveva trovato sveglio, ad aspettarlo. Come
se si fossero accordati, prima di separarsi. Come se fosse bastato quello
sguardo che si erano scambiati prima che si voltasse per ripartire, lungo
la strada di Troia. L’aveva
trovato sveglio. E, ancora una volta, non si erano parlati. Era
soltanto entrato, sollevando il telo della tenda, e appena entrato si era
fermato davanti a lui, lo aveva fissato. Aveva gettato a terra il pugnale,
che aveva tintinnato contro il fodero di bronzo. Il
guerriero acheo si era chinato in silenzio, e aveva raccolto quel pugnale.
Ne aveva snudato la lama, fissandolo lentamente. Poi gli aveva passato la
punta acuminata sotto la gola, ed era sceso sfiorandogli il petto. Aveva
sentito il freddo del metallo sulla cima del capezzolo, farlo indurire
subito. Aiace
gli aveva accostato la lama al fianco, allora, premendola su di lui, e
mentre la punta gli pungeva la carne Paride aveva avvertito la lingua di
lui muoversi sui capezzoli, succhiarli in modo assetato e calmo. Era stata
quella calma a farlo impazzire. Si
era abbandonato a gemiti crescenti, eccitato dalla pressione contemporanea
della lama sulla carne e della lingua sulle punte turgide, senza pensare a
nascondere la sua presenza nel campo, a non farsi scoprire. Era stato
Aiace a proteggerlo da se stesso, premendogli una mano sulla bocca. Lui
gliel’aveva morsa piano, leccandola. L’aveva sentito fremere, e
perdere il controllo, allora. Si era lasciato spingere a terra, sui
tappeti di lana tessuti da abili mani, e il compagno gli era andato sopra,
ansando sul suo petto, piantando con violenza il pugnale nel terreno. Gli
aveva alzato le gambe poggiandosele sopra le spalle, facendogli sentire la
pressione del pene eccitato. Gliel’aveva spinto tra le natiche, nel modo
che aveva già trovato poche ore prima, e gli aveva detto solo una cosa,
con voce bassa e roca, prima di riempirlo completamente: “Voglio
fotterti tutta la notte, Paride”. E
chissà perché quella frase, mentre si sentiva invadere dal suo sesso
rigido, lo aveva quasi commosso. *** Da
allora era tornato molte altre volte, invocando la protezione di Afrodite. Anche
quella notte. Mancavano
pochi passi alla tenda, e li fece senza guardarsi intorno. Il
telo laterale da cui s’introduceva sempre era aperto e rivoltato
indietro. S’infilò dentro e lo chiuse facendolo ricadere, poi rimase
fermo nell’oscurità. La luce proveniva dall’altro ambiente, dove il
guerriero prendeva il bagno. “Bravo,
non ti fermare”, sentì. Non
era solo: usciva dal bagno, assistito dallo schiavo di Cilicia che da
tempo teneva presso di sé, facendosi servire e prendendo piacere dal suo
corpo. Paride lo sapeva, e più di una volta aveva provato desiderio per
quel giovane bellissimo, dai lineamenti sottili, che un tempo era stato
principe, Liside fiorente. “Non
ti fermare. Scendi ancora...” Si
sporse col viso per vederli. Vicino alla vasca di bronzo, ancora fumante,
Aiace sedeva su un basso letto ricoperto da morbidi panni. Il servo,
davanti a lui, lo ungeva d’olio profumato, carezzandolo. Stava
massaggiando il suo corpo vicino al sesso, passandogli le dita intorno. La
sua erezione era forte e piena, e
con la mano Liside la circondava, carezzandogli intensamente
l’inguine, avvolgendolo sotto i testicoli e facendolo gemere di
godimento. Li
osservò, osservò le dita che risalivano ai capezzoli e li toccavano,
ammorbidendo la pelle con l’unguento lucente, facendoli ergere e
splendere, prendendoli tra pollice e indice. “Ancora...
scendi ancora...” Era
una cosa che Aiace faceva spesso, quella di farsi eccitare dal suo servo
senza arrivare subito a conclusione del piacere, resistendo al tormento
delle sue carezze languide ed esperte fino ad eccitarsi indicibilmente. A
volte lo aveva fatto anche davanti a lui, e non gli aveva permesso di
avvicinarsi finché non era stato più in grado di resistere. Solo quando
lui ormai pregava, perché la potenza della visione era sconvolgente,
Aiace allontanava Liside e gli tendeva la mano. Lo stendeva prono sul
letto e gli mordeva le spalle, lo possedeva così strappandogli quasi le
vesti, dicendo al servo di guardarli, e di toccarsi mentre lo facevano. Ma
quella sera Paride pensò che Aiace sarebbe venuto prima di farlo
partecipare, perché il modo in cui Liside lo sfiorava era irresistibile
al solo guardarlo, e anche il suo pene era eretto, e bagnato in cima. Il
guerriero acheo aveva carezzato le guance dello schiavo, e lo aveva
dolcemente tirato giù, tenendogli il viso tra le mani, fino ad
accostargli la bocca al suo sesso. “Adesso
prendilo - aveva detto -, e succhiami”. Aveva
un modo di succhiare incredibilmente intenso, muovendosi avanti e indietro
con passione sempre maggiore. Paride osservava come incantato quel
movimento, il grande corpo di Aiace, le cosce possenti allargate, la
schiena flessuosa e i glutei rotondi del giovane chino davanti a lui, che
si aprivano impercettibilmente, seguendo il ritmo e il divaricarsi delle
ginocchia sul terreno. Gli
sfuggì un gemito di voglia repressa, per tutti e due. Aiace alzò il viso
lentamente, e lo fissò, continuando a tenere il capo di Liside tra le
mani, a farlo succhiare. Lui,
senza dire nulla, si slacciò la tunica e la fece scivolare a terra. Era
vicinissimo a loro, ormai. “È
bello il tuo corpo nudo, Alessandro”. “Non
chiamarmi così - ripose tremando leggermente -. Solo quando mi scopi devi
chiamarmi così...” “È
quello che sto per fare... è bello il tuo corpo nudo...” Allontanò
la bocca del servo da sè, e, tenendolo chino a terra ancora, prese Paride
per un braccio. “Vieni,
principe: tu non conosci l’abilità meravigliosa di Liside, ma stanotte
la conoscerai, perché lo terremo con noi”. Gli
passò la mano tra i glutei, e spinse un dito umido, piano, dentro di lui,
strappandogli un sussulto di piacere represso. Lo portò lentamente
davanti allo schiavo, restando di lato a loro, e con una carezza tra i
capelli avvicinò le labbra del giovane al sesso di Paride: “Fallo a
lui, adesso...” “Oh...” Il
gemito gli uscì appena si sentì risucchiare incredibilmente da quella
bocca, con la mano di Aiace che lo toccava. “Ti
piace, Alessandro?”, mormorò lui, quasi con un sorriso. “Oh...
sì...” Poi,
inaspettatamente, allontanò con delicatezza la mano e si chinò a terra
come il suo servo. “Succhialo
bene, Liside. Tu lo succhierai, e io leccherò il suo culo morbido, e
mentre tu lo succhi lo scoperò con la lingua fino a farlo piangere. Deve
supplicare che lo fottiamo, stanotte”. Impazzì
a quelle sole parole. Aiace gli andò dietro e gli allargò bene i glutei,
spingendolo contro il servo, e mentre Liside lo avvolgeva con le labbra
con un’intensità insopportabile, l’altro iniziò a lambirlo, a
leccarlo, a cercarlo e ad entrargli dentro con sempre più insistenza. Le
sue mani lo stringevano tenendolo aperto, mentre la lingua non gli dava
tregua, e la sua carne cedeva sempre di più a quelle spinte, facendosi
penetrare da lei. “Oh...
basta... basta...”, ansimava, desiderando che continuasse ancora e che
smettesse nello stesso tempo, e si decidesse a prenderlo completamente, a
farlo morire. Era vero, avrebbe supplicato, e subito. “Ti
prego... prendimi... adesso prendimi...” Lui
non smise, e nemmeno l’altro lo fece. Lo portarono all’estremo, finché
credette di non potersi più trattenere. E poi, proprio quando sentiva di
stare per venire si fermarono nello stesso momento, e aspettarono. “No...
no...” protestò con un gemito rabbioso. “Lo
senti, Liside? Non ne può più... non ne può fare a meno...” Si
sentì quasi svenire, perché la sua eccitazione era così forte da
annebbiargli la mente. Sentì solo la sua voce che implorava, più volte:
“Scopami... scopami...” “Ora
sì... ora ti scopo, sì...”, gli disse sollevandosi, e gli premette
contro un’erezione durissima e rabbiosa, lo penetrò e cominciò a
possederlo lentamente, poi sempre più veloce, tenendolo per i fianchi, in
piedi. “Oh
sì... Sì... sì...” “Così...
bravo... fatti scopare... ti piace farti scopare così... lo so che non
resisti più...” “No...
non resisto... no...” “E
allora godi... godi Alessandro... godi nella bocca del mio servo mentre
scopo nel tuo culo...” Non
riuscì a sopportare altro che quelle parole e quell’ultima spinta. Il
grido cupo che gli uscì come un rantolo dalle labbra lo portò via a se
stesso, e sentì solo la pressione acuta di quel pene che lo riempiva e il
getto violento del proprio sperma che sgorgava nella bocca dell’altro. Era
troppo, e scivolò a terra sui panni umidi e caldi del bagno. Ma Aiace non
aveva intenzione di lasciarlo, quella sera. “Non
ho finito, Alessandro... non abbiamo ancora finito...” disse posandosi
su di lui, e penetrandolo di nuovo, con un gemito. Poi,
come se fosse per un accordo stabilito prima, mentre lo possedeva ancora
aprì piano le gambe. “Liside non ha finito...”, disse guardando lo
schiavo. Quello si chinò sul padrone, allora, e premette il sesso eretto
contro il suo bacino. “Vieni...”, gemette egli vibrando di voglia,
aprendosi per accoglierlo. “Fai godere anche me nello stesso modo...” Afferrò
saldamente i fianchi di Paride e, al colmo dell’eccitazione, si tenne
profondamente dentro di lui. Fu allora che Liside gli pose le mani intorno
e lo penetrò con un gemito di piacere intensissimo, sfogandosi della
brama così a lungo repressa. Era l’attendere così prolungato che
rendeva appassionati e potenti i suoi assalti, quando infilava il suo
giovane sesso in Aiace, facendolo godere tremendamente. “Sì,
Liside... bravo... ancora... mi fai godere... fottimi mentre fotto lui...
scopami...” Lo
fecero eccitare ancora. Gli diedero alla testa i gemiti confusi di tutti e
due, e la forza delle spinte del guerriero dentro di lui, e l’intensità
dei gemiti di piacere che egli lasciava andare mentre si sentiva penetrare
dal servo sempre più intensamente, più velocemente. Fino a che furono
entrambi in balia delle spinte senza controllo di Liside, accettando il
movimento che era lui ad imporre, abbandonandosi al piacere che sentirsi
possedere strappava a entrambi. Finché Aiace riprese a muoversi ancora,
più rapidamente, per affrettare l’orgasmo che sentiva ormai arrivare, e
ordinando al servo di non fermarsi si avvinghiò ansimando a Paride,
dimenando frenetico il bacino. E passandogli la mano davanti gli prese il
pene strofinandoglielo sul ventre. Raggiunse l’orgasmo così, con un
grido, scopandolo e toccandolo ancora, e Paride si eccitò follemente e
cedette quando lo riempì del suo sperma, e quando le ultime forti spinte
di Liside che arrivava al piacere premettero la mano di Aiace sul suo
sesso, e lo fecero venire ancora. Andò
avanti così per la notte intera, e solo molto più tardi congedarono il
giovane schiavo rimanendo soli. Perché dopo quei momenti acutissimi, e
dopo un breve sonno che gli aveva restituito le forze, Paride era stato di
nuovo assalito dal desiderio, avvertendo la pelle morbida di Liside
carezzare sul letto la propria, e la rotondità dei suoi fianchi dormirgli
accanto, mossa delicatamente dal respiro. Così aveva iniziato a tentarlo
percorrendogli con la mano la schiena, i glutei, e si erano di nuovo
eccitati cominciando a baciarsi languidamente, accanto al corpo
abbandonato di Aiace che li seguiva come in un dormiveglia. Aveva
desiderato da tanto possedere Liside, e stavolta non aveva controllato
quel desiderio. Si erano baciati a lungo, toccandosi dappertutto, e poi
era stato come se il giovane glielo chiedesse, come se ne avesse bisogno
sopra a tutto, perché si era voltato e gli si era offerto, aprendo
lentamente le gambe. Paride gli era scivolato sopra eccitato, ed era
entrato in lui. Ed entrando nel suo corpo lo aveva stretto, e si era
lasciato andare a gemiti intensissimi spingendo contro quel corpo morbido,
inarcato e proteso in un’offerta smaniosa. Lo aveva fatto venire quasi
subito, muovendosi dentro lui, mentre Aiace li guardava, contemplando in
silenzio il loro gioco: finché anche l’eroe aveva iniziato a
carezzarlo, accompagnando con le mani i suoi movimenti nel corpo di Liside,
stringendosi contro di loro con il pene di nuovo eretto. E quando Paride
aveva dato le ultime spinte prima di godere abbandonandosi in quel corpo
morbido e aperto, aveva afferrato il braccio forte di Aiace sostenendosi a
lui, e lo aveva stretto con un ultimo spasmo, inondando del suo seme il
giovane. Ora
erano soli sul grande letto, i corpi nudi distesi accanto, coperti da
morbida lana. Si
girò verso Aiace, e ne contemplò il profilo nella penombra, il viso
immobile levato verso il cielo, le labbra chiuse. Pensò
che mai in tutta la sua vita gli era successo di incontrare qualcuno che
sapesse farlo eccitare, farlo godere così. Eppure
non era per quello che andava a quella tenda ogni notte. Non
era il motivo vero. Lo
sentì sospirare, e vide i suoi occhi chiusi. La luce fioca della lampada
a olio fece brillare solo per un istante la linea impercettibile di una
lacrima. Non
disse nulla, si sentiva solo. E
sentiva che era solo anche lui: forse per questo quando stavano insieme
gli sembrava di potercela fare ad affrontare ancora la vita. “Perché
mi hai voluto, Aiace?” L’altro
sospirò ancora, e non rispose. “Perché?
Io sono un nemico, sono la causa di questa guerra. La causa della vostra
sofferenza, della morte dei tuoi amici, dei miei, del vostro vagare in una
terra ostile per tanti anni. Eppure tu mi hai voluto”. Egli
scosse impercettibilmente il capo, stringendo appena la coperta con la
mano. “Mi
hai accolto fin dalla prima volta. E anche dopo non hai mai detto a
nessuno che venivo qui. Eppure ho ucciso Achille, che era tuo amico.
Eppure se io morissi potresti far finire questa guerra, potreste tornare
alle vostre case, e anche la mia città sarebbe libera dal vostro
assedio”. Guardò la propria mano che si stringeva in un pugno,
lentamente. “La mia morte sarebbe la soluzione di tutto. Eppure tu mi
hai voluto”. “La
tua morte non sarebbe la soluzione di niente. Di niente. Era nostro
destino venire qui a combattere Troia. Era destino di Achille morire
ammazzato da una tua freccia. Era destino che il capriccio di una dea ti
facesse desiderare la moglie di Menelao. Ognuno segue il suo destino,
anche noi. Anch’io, e anche Alessandro figlio di Priamo, che morirà
quando il Fato l’avrà deciso”. Paride
si girò contro il giaciglio, nascondendo il viso tra le braccia. Quando
il Fato l’avrà deciso, certo. Come nella profezia che parlava di lui,
per la quale sarebbe stato Filottete, col suo arco, a uccidere colui che
aveva rapito Elena provocando la guerra. Filottete,
abbandonato solo e malato a Lemno dai suoi fedeli compagni. E poi ripreso,
dai suoi fedeli compagni, perché li facesse vincere. “Questa
guerra ci ucciderà, Aiace. Nessuno di noi ne uscirà vivo. Ci ha già
ucciso dentro, ci ha ucciso tutti”. “Sì,
è così. Ha ucciso anche quelli che torneranno, e resteranno vivi. Quello
che avevamo prima lo abbiamo perso da molto tempo, e ora non fa più molta
differenza respirare su questa terra o vagare sotto di essa come
un’ombra”. “È
per questo che mi hai voluto? Perché non fa differenza?” Aiace
si girò verso di lui, la linea dei fianchi nudi disegnata dal bagliore
della lampada. Gli sollevò il viso in un gesto lento e silenzioso, eppure
non rude, non aspro. “Non
è per questo - disse fissandolo -. Lo sai”. Paride
lo guardò e si sentì come se la marea dolce del pianto stesse per
invaderlo, bruciandogli gli occhi e il cuore. Lo
so. Tu hai voluto me, e nient’altro. Non la maledizione della mia
esistenza, non il destino che la Moira ha tessuto quando ero nel ventre di
mia madre. Non il disprezzo per quello che ho fatto, per quello che avrei
dovuto fare. Mi hai voluto com’ero, come sono adesso col peso della mia
vita sopra le spalle, senza volere che cambiassi. Si
sentì disperato come mai lo era stato prima. “Perché
io, proprio io, Aiace? Ho bisogno di saperlo. Ti prego, dimmelo, o non
potrò chiedertelo mai più”. Allora
il braccio di lui gli si posò sulla vita. Ne avvertì il tocco, e il
respiro caldo accostato all’orecchio: “Perché
appena ti ho incontrato, Paride, e ti ho visto tremare di fronte a me nel
silenzio di questa tenda, ho letto nei tuoi occhi la stessa insopportabile
paura del nulla che avevo anch’io. Non è mai stata la morte a
spaventarmi, ma l’assurdità di tutto questo. E ho visto che era così
anche per te”. “È
per questo che mi hai preso in quel modo, senza dire nulla?” “È
per lo stesso motivo per cui tu ti sei chinato davanti a me, e mi hai
succhiato fino a farmi morire”. “Volevi
morire mentre lo facevo?” “Volevo
entrarti dentro, perché starti dentro e godere con te era l’unica cosa
che avesse veramente senso. L’unica che ne ha ancora”. “Aiace...” “Dimmi”. “Tu
sai che cos’è l’amore, Aiace?” L’altro
sospirò, posandogli la fronte sulla schiena. “Non
lo so. Non credo che si possa sapere”. Rimase
in silenzio a lungo, prima di rispondere ancora: “Non
lo so... so che quando aspetto il tuo arrivo mi sembra che il tempo che
passa abbia un qualche scopo. E che quando gemi di piacere tenendomi tra
le gambe io voglio più di ogni cosa consumarmi in te, e mi sembra che ci
sia un motivo almeno per il nostro essere qui, in questo luogo”. Paride
non disse nulla, e si voltò su di lui. Accostò la bocca alla sua e lo
baciò a lungo, ascoltando le lingue che s’incontravano. Non
sarebbe durata a lungo, lo sapeva da sempre. Ma quella sera sentì per la
prima volta davvero il dolore di pensarlo. E gli parve che quel legame
grande e impossibile fosse la punizione più dura che avesse mai dovuto
affrontare. Gli parve che la fine fosse più vicina, e che la morte gli
facesse paura. Sarebbe
tutto finito, troppo presto, adesso. Lo pensò mentre tornava di nascosto
a Troia. Lo pensò perché per la prima volta, arrivato sulla cima della
collina, si guardò indietro. ****************************** “Venite!
Venite!” La
voce arrivava dalle mura, ed erano troppi giorni che non sapeva più
niente di lui. Troppi, perché la guerra aveva avuto una tregua, una
tregua amara. Il
tempo del compianto di Achille era finito, e al campo acheo, dopo il lungo
periodo di lutto, gli Atridi avevano assegnato le armi dell’eroe. Le
armi del primo dei Danai, figlio di una dea, dovevano andare al più forte
dopo di lui. Ad Aiace, figlio di Telamone. Ma
non era stato così. Perché
il divino Odisseo aveva conteso quell’onore ad Aiace, e la dea Atena
l’aveva aiutato a ottenerlo. “Venite!
Paride, vieni!” Avrebbe
voluto non sentirlo, quel richiamo, per il senso di vuoto che gli aveva
scavato dentro. E non dover rispondere, non dover andare a vedere, salendo
sulla rocca. Voci confuse e mischiate descrivevano l’accaduto. E non
aveva ancora compreso cosa dicessero, ma aveva avvertito una sferzata di
dolore nel petto, come un ammonimento. Poi,
dall’alto delle mura, la scena. L’umiliazione,
e capì subito che lui non sarebbe sopravvissuto. Pecore,
e buoi, e il guerriero più nobile e forte degli Achei con la spada
insanguinata, che ne faceva strage. La teneva per l’elsa, con tutte e
due le mani, e gridava il nome di Agamennone e Menelao, fissando le bestie
con occhi senza luce. Il suo grido di guerra più tremendo, quello che
faceva fuggire chiunque. E la sua furia, in mezzo a belati, muggiti. “Aiace
è impazzito!” Impazzito. Impazzito
e trionfante sulle greggi, per prendere vendetta di quell’affronto,
credendo di aver sconfitto gli Atridi, di averli uccisi in duello per
punirli di avergli negato le armi. Solo,
al centro di una folla di Danai che lo guardavano attoniti, e dalle mura
della città i Troiani. Un
ragazzo, vicino a Paride, scoppiò a ridere. Aiace
è impazzito. Impazzito
per la troppa guerra, per la superbia della sua forza. Per l’oltraggio
dei re, per la violenza al suo onore. L’unica
cosa rimasta, il nome, nell’insensatezza di tutto. Ma
cosa resta, senza più neanche il nome? Nessuno
disprezza impunemente gli dei. Era
stata Atena dagli occhi splendenti. Era stata lei, la dea che proteggeva
Odisseo. E che odiava il fortissimo Aiace, per aver sempre rifiutato il
suo aiuto. Per aver sempre voluto combattere la sua guerra da solo. Atena
lo odiava, e gli aveva tolto la luce della mente. Il
glorioso Aiace aveva ucciso in battaglia pecore e buoi, e gli uomini
ridevano ancora, mentre tornava in sé. Lo
vide stremato, aprire gli occhi sulla realtà, guardarsi la spada nella
mano, lasciandola cadere a terra. E sentendo con orrore il suo orrore, il
suo dolore per la vergogna, Paride pensò alla bellezza del suo viso, del
suo profilo che gli baciava la pelle. “Siamo
fantocci nelle loro mani”, diceva sempre, quando parlavano degli dei.
Quando a letto, dopo aver fatto l’amore, mormoravano senza quasi
guardarsi. E
più della morte, più del nulla di cui aveva paura, Aiace aveva sempre
voluto stare lontano da loro. Vivere senza gli dei, che non potevano
capire che cos’era un uomo. Che sapevano solo giocare con gli uomini,
poi gettarli. Atena
aveva giocato. Gli aveva mostrato la sua potenza, umiliandolo. E
certo lo osservava, adesso, solo e ridicolo, in ginocchio sulla terra che
nutre gli eroi. * Quella
notte corse un rischio immenso, e andò di nuovo da lui, alla sua tenda. Il
grande padiglione era buio, e sembrava quasi, nell’oscurità e nel
silenzio scesi sopra quel luogo, che fosse più distante dalle tende degli
altri. Come se qualcuno l’avesse spostato. Sembrava
non ci fosse nessuno, quando entrò non visto, sollevando il telo. Ebbe
paura, mentre muoveva i passi per cercarlo. Paura di tutti gli altri, che
lo scoprissero. E paura di lui. Paura
di non trovarlo. Di trovarlo. “Eccoti,
nobile Paride. Sei venuto a guardare l’infamia di Aiace, figlio di
Telamone, uccisore d’armenti? Vieni, è qui”. Era
un tono di voce amaro, come mai gli aveva udito, nell’amarezza che,
pure, velava la sua voce da sempre.Un tono disgustato, di un dolore
mortale. Era
solo, completamente solo, seduto sul bordo del letto. Nel buio ne percepì
lentamente le forme, le mani sul viso. “Aiace...” “No,
non dire niente. Non c’è niente da dire”. Rimase,
ancora, in silenzio. In piedi, senza avvicinarsi a lui, guardandolo
immobile su quel letto. Vi rimase finché sentì le gambe fargli male. “Da
quanto tempo sei qui, Aiace?” Non
gli rispose subito. Sembrava che le parole non le percepisse, quasi gli
arrivassero in ritardo, portate dall’aria lentamente. “Quando
e dove non significano più niente, ormai. Non dovevi venire, Paride”. Certo,
non doveva. Doveva lasciare che rimanesse solo, come facevano tutti gli
altri. Ognuno ha il suo destino e gli va incontro. Lo aveva detto anche
lui. “Lo
so, non dovevo. È per questo che sono qui”. Fu
allora che lo vide
sollevare gli occhi, e guardarlo. Non c’erano parole per esprimere quel
dolore, lo sapeva. La vergogna non si racconta, si paga e basta. Un
guerriero deve vivere bene, o morire bene. “Cosa
vuoi fare,
Aiace?” “Niente
che tu possa impedire. Non dovevi venire qui”. Nel
buio, la sua voce gli arrivava bassa, immota. Il
riverbero della luna distante sulla spada al suo fianco, conficcata nel
terreno. Morire
bene, questo avrebbe fatto. Non
c’era niente con cui potesse impedirlo. Gli
andò di fronte, allora, e sentì straziante il dolore invadergli il
cuore. Vivere e seguire il destino, ogni vita come un gioco nelle mani
degli dei. Davvero, non era la morte che sgomentava, ma l’assurdo. Gli
cadde in ginocchio dinnanzi, e lo abbracciò posandogli il capo in grembo. “Non
farlo, Aiace”, implorò piangendo. Lui
gli carezzò il capo lentamente, con un movimento di una dolcezza
indicibile. Non aveva mai pensato potesse esistere una carezza così
dolce. “Aiace...” “No...
non dire niente, Alessandro. Rimani qui. Resta, perché tu solo hai
capito. Io l’ho saputo da sempre che tu solo avresti potuto capire”. Lo
tirò a sè, spingendolo in un abbraccio silenzioso a distendersi con lui
sul giaciglio. Poi gli fu sopra, e il suo corpo lo coprì e le sue labbra
lo sfiorarono sulla bocca, con gli occhi chiusi. Un gemito scosse Paride,
mentre lo baciava improvviso, e si strinse a lui con tutte le forze
rispondendo disperato e muto, col caldo delle lacrime che gli rigava il
viso. Fu
un bacio, fu a lungo soltanto un bacio, ricevuto e dato con i corpi
intrecciati, premuti l’uno all’altro, le mani unite. E poi fu il
desiderio, il bisogno, la reazione d’amore, le braccia aggrappate alle
sue spalle e la gioia, e il gemito profondissimo e grato con cui gli si
abbandonò dentro, per l’ultima volta, e come per un momento, solo un
momento, si lasciò andare alla deriva dentro di lui. ****************************** Chinò
il capo distogliendo gli occhi, e li volse lungamente in basso, sotto le
mura. Non
voleva guardare più. Il
fumo del rogo si distingueva ancora, lontano. Le ampie volute nere si
stendevano come braccia sopra l’accampamento, sul cielo pallido
dell’aurora dalle dita di rosa. Si perdevano allontanandosi, sfumando
troppo lontano perché lo sguardo potesse vedere realmente dove finivano. Portate
i vostri doni al nobile Aiace, e alla sua nobile morte. Era
stato un magnifico funerale, aveva detto il messo. Gli
dei e la Moira lo avevano deciso. Quella era stata l’ultima
notte. Per
loro, per lui. Eppure
non avevano potuto umiliarlo, alla fine. Il grande Aiace era morto da
eroe. Sulla spada, come l’onore dei guerrieri richiede. Il suo corpo era
stato portato sopra lo scudo, e gli Achei, adesso, si contendevano le sue
armi gareggiando in valore. Alzò
di nuovo il viso. Un raggio del nuovo sole gli illuminò gli occhi lucidi,
mentre stringeva le labbra. Sorrise. Ogni
uomo segue il suo destino, l’aveva detto. Anche
Paride figlio di Priamo. In
fondo, la cosa era consolante. Si
strinse il mantello, fermandolo con la fibbia d’argento. Il sole si
alzava, ed era ora di armarsi. La
città e il campo si risvegliavano. Lontano, gli arcieri ungevano le corde
degli archi. FINE |