Titolo: Affoga nell’Arno
Autore: -Silvia-
Rating: R
Dediche: Ad Anna Barsalini: la mia fonte storica, ma soprattutto, d’ispirazione.

 


Affoga nell'Arno

di -Silvia-

*fic scritta per il progetto letterario "Morceaux"

 

Luci calde e velate a rassicurare chi bagnano.
La sala non è gremita e ancora parecchi tavoli sono vuoti.
Il vociare non è che uno sfumato contorno, perché il vero sottofondo che fa da cornice al rinomato locale è la musica. Frizzante e malinconico Blues, sempre sognante ma anche corposo.
Lui è il vero protagonista e per lui quei tavoli si riempiono ogni sera.
Appesi ai muri alcuni famosi autografi, vanto e lusinga per i proprietari: in realtà è ciò che di più inutile lascia di sé un’artista.
La firma di quei geni è solo la musica, perché l’arte è l’unica vera scia che lascia dietro di sé un genio.
Niente che si possa attaccare ad un muro.
Il parquet è di un lucido che abbaglia. Così come il pianoforte nero che, dal centro della sala, sul palco rialzato, produce le note allegre e carezzevoli di “Margot” di Keith Jarret.
La porta d’ingresso si apre e gli occhi di Karen Art corrono alla piccola campana dorata legata sopra lo stipite, che trilla annunciando un uovo ingresso.
Due ragazze sorridenti che subito vengono accompagnate al tavolo dal cameriere.
Entrambe improbabili nel ruolo di Lorenzo Barsalini, l’uomo che sta aspettando da più di un’ora e quarantatré minuti, mentre seduta al tavolo da sola beve dalla tazza di fine porcellana la propria cioccolata calda.
Aspetta un po’ in ansia il suo “ospite”.
Non sa bene come definirlo perché di Lorenzo Barsalini lei conosce solo il nome e l’attività di sarto; ha affrontato un viaggio snervante solo per incontrarlo, come ultima promessa fatta al nonno.
Proprio come in quei film drammatici in cui l’uomo malato, prima di morire, stringe la mano al figlio e gli bisbiglia uno di quei segreti oscuri che appartengono al passato, Jonathan Art è morto ottantaseienne, assolutamente certo e fiducioso che lei avrebbe mantenuto la parola data.
E non è stato facile non deluderlo.
Dieci giorni di ricerche e alla fine Karen era riuscita a risalire ad un certo Lorenzo Barsalini che a Firenze gestiva una delle sartorie più rinomate, famoso per essere stato il sarto fidato di Zeffirelli e nonostante l’età era ancora il beniamino del Maggio Fiorentino.
All’ennesimo trillare della campana entra finalmente un uomo anziano, indossa un elegante cappotto nero che subito porge al cameriere insieme ai guanti.
Ha un sorriso placido sul viso, i capelli pettinati all’indietro sono bianchi come le sopracciglia.
Il cameriere diligentemente gli indica il tavolo in cui Karen lo aspetta e con andatura leggermente curva e zoppicante l’uomo la raggiunge sorridendo lievemente.
Karen educatamente gli porge la mano e il suo sorriso migliore.
-Il Signor Barsalini, immagino.-
L’uomo gliela stringe in maniera decisa e annuisce.
-Mi dispiace averla fatta attendere, ma domani a teatro c’è la prima del “Don Giovanni” e la prova generale dei costumi è durata più del previsto.-
Si siedono al tavolo.
Con uno scarto di pochi secondi il piano si spegne e l’applauso del pubblico si accende al suo posto.
L’uomo ha due intensi occhi neri resi opachi e acquosi dall’età che avanza, ornati da piccole rughe simbolo di saggezza e vanto del tempo.
Karen si muove a disagio e la sedia di vimini scricchiola.
-Non c’è problema, credo piuttosto di averla disturbata in un momento poco opportuno. Sono io a scusarmi e, in verità, ad essere parecchio imbarazzata. Mi aveva detto chiaramente quanto fosse impegnato e mi ha stupita che poi abbia cambiato idea.-
L’uomo sorride arricciando le labbra di un rosa pallido e altre rughe si increspano sul suo viso.
-Ho cambiato idea non appena mi ha detto il suo nome.-
Si guardano in silenzio per pochi istanti, Karen si rende conto che sta trattenendo il respiro e la gamba destra sotto il tavolo le trema leggermente.
-Lei ricorda mio nonno?-
L’uomo sorride più apertamente forse con un velo nostalgico negli occhi e inclina appena il capo, gli occhi sulle proprie mani intrecciate e abbandonate sul tavolo.
-Sì, mi ricordo di Johnatan Art.-
La voce è roca e secondo Karen è perfetta per rievocare le memorie che cerca.
Un cameriere si avvicina discreto e poggia di fronte a Lorenzo Barsalini una tazza fumante di tè.
Dentro quella pozzanghera d’ambra vi galleggia una sottile fetta di limone; viene posato sul tavolo anche un piattino contenente tre zollette di zucchero, sistemate al centro di un piccolo tovagliolo bianco di pizzo.
-Sono tremendamente prevedibile, oramai non c’è più nemmeno bisogno che ordini.-
L’uomo ha una risata leggera.
Il cameriere sorride complice e si allontana in silenzio.
Karen fissa quei tre cubetti che sotto la luce risplendono come gioielli.
-Mio nonno è morto pochi giorni fa. Io ero la sua unica nipote ed ero con lui quando ha chiuso gli occhi. Noi avevamo un rapporto speciale, noi… lui mi parlava di tutto. Dalla morte della nonna ci eravamo ancora più uniti, il nonno adorava l’Italia e diceva che gli era rimasta nel cuore. Parlo bene l’italiano perché spesso l’estate venivamo qui in vacanza. Non a Firenze, ma in Liguria.-
Karen gira lentamente il cucchiaio nella cioccolata che via via si raffredda e diviene più densa.
-Nonostante il rapporto che ci univa lui non mi ha mai parlato di Firenze né di Clelia, eppure sono stati il suo ultimo pensiero. Questo un po’ mi ha sconvolto. Non ha pensato ai suoi figli, né alla nonna, mi ha chiesto di dare a Clelia Barsalini un pacco e ha aggiunto soltanto di cercarla a Firenze.-
Prende la borsa e la apre, tirandone fuori un pacco di medie dimensioni che poggia sul tavolo.
L’uomo fissa però la tazza che ha di fronte e, presa una zolletta, ve la fa scivolare dentro con grazia.
-Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che è morta nel 1947. L’unico Barsalini di Firenze ancora in vita è lei.-
Il suo volto è impassibile, solo aggiunge un’altra zolletta nel tè.
-Era mia sorella, è morta di polmonite.-
Finalmente la guarda, serio.
-Se sapeva che era morta perché è venuta?-
Karen lo guarda quasi stupita, su quel volto non c’è più alcuna traccia di bonaria cordialità, vi vede quasi fastidio.
-Ho promesso che avrei…-
-Avrebbe potuto inviarlo per posta.- la interrompe duramente senza nemmeno farla finire di parlare.
-Volevo solo…-
Lorenzo Barsalini di nuovo le ruba la parola.
-… Intromettersi in ciò che non la riguarda. Se non gliene ha parlato preferiva che lei non sapesse. Ci sono cose di cui un uomo non parla volentieri, nemmeno a chi ama.-
Eppure né il tono né gli occhi sono freddi, anzi, Karen li vede più caldi che mai.
-È venuta perché vuole che io le racconti ciò che Johnny le ha taciuto.-
Si porta la tazza alle labbra e ne beve un sorso bollente.
Karen allontana la propria tazza e apre il pacco, tirandone fuori una bambolina di porcellana bianca. Poggia su un unico piede sopra un disco d’ottone, l’altra gamba distesa all’indietro e le mani a formare un cerchio sopra la testa, dalla pettinatura alta. È una ballerina. La solleva e sotto il disco carica il carillon, da cui si diffonde una musica sognante. E lei danza aggraziata, se pur immobile.
L’uomo accenna un sorriso indecifrabile che potrebbe significare tutto o niente.
-La nostra sartoria anche durante la guerra cuciva gli abiti di scena per i teatri fiorentini e spesso noi due andavamo a spiare le prove. Clelia sognava d’esser ballerina.-
Le note si interrompono e il disco smette di ruotare.
Anche lei, dal sorriso dipinto e inanimato si ferma, schiava di una carica che le dà vita.
-Lei lo amava?-
Karen deve saperlo, prima di tutto il resto.
Vede l’altro passarsi una mano sugli occhi e poi lasciarla sulle labbra, forse a coprire o nascondere un’espressione che non vuole lei colga.
-Ha detto che ha fatto delle ricerche su mia sorella. Cosa sa di loro?-
Lei scuote subito il capo.
-Nulla, ho solo trovato la sua data di morte e il collegamento con lei. Nient’altro.-
Fa una breve pausa.
-La prego Signor Barsalini, mi racconti. Voglio conoscere quella parte della sua vita. La parte di cui non mi ha parlato.-
L’altro beve ancora il tè, un sorso più lungo e guarda verso il pianoforte.
-Ovviamente non ha calcolato che io potessi non essere felice di parlarne.-
-Prima lei ha detto: “Ci sono cose di cui un uomo non parla volentieri”, io credo, invece, che nel profondo tutti desiderino farlo. Altrimenti mio nonno sarebbe morto col nome muto di Clelia sulla bocca.-
Karen lo guarda ferma, suo nonno avrebbe detto testarda.
In realtà spera solo di non dover arrivare a supplicarlo, perché sarebbe davvero disposta a farlo.
Il piano torna a suonare, intonando una canzone lenta e romantica, e anche lei a cui non piace il genere si sente avvolgere.
-Oscar Peterson: “Moonlight in Vermont”. E’ la mia canzone preferita.- l’uomo sorride placido e la guarda negli occhi, tanto intensamente da farla rabbrividire.
-Sia chiara e mi dica esattamente cosa vuole che io le racconti.-
-Ogni cosa. Mi racconti come lo ha conosciuto, come è nata la loro storia e come è finita.-
Lorenzo Barsalini punta i gomiti sul tavolo poggiando mollemente il mento sulle mani intrecciate; poi prende l’ultima zolletta dal piattino e la stringe tra l’indice e il pollice davanti agli occhi.
-Quando gli americani arrivarono a Firenze, tra canti e feste portarono anche scorte di cibo e medicinali. Regalavano dolci, cioccolata, latte condensato, zucchero e bustine di tè. Io detestavo il tè. Adesso non posso più farne a meno, non riesco a bere altro. Una mania molto inglese.- lo vede sorridere rivolto alla zolletta.
-Non sapeva di nulla perché lo zucchero era un privilegio troppo costoso. In casa il tè non mancava mai, lo portava un americano a mia sorella.-
-Era mio nonno?- chiede lei quasi impaziente.
-No, era uno dei tanti. Si chiamava James. C’era chi le regalava le calze di nylon, oppure le liquirizie che lei usava, come un moderno mascara, per allungarsi le ciglia. Gli americani sembravano adorare fare regali.-
Fa una breve pausa e la zolletta gli scivola nel palmo della mano.
-Mia sorella era una prostituta. Molte donne lo fecero e lei, che era tanto bella, divenne una delle più ambite.-
Karen resta immobile a fissarlo con occhi leggermente sgranati.
Non si aspettava nulla di simile.
Immaginava la storia di un amore romantico, magari contrastato dalla buona famiglia di lei che non vedeva di buon occhio un americano.
-Johnny, prima di morire, si è ricordato di una prostituta che intratteneva gli americani durante la Liberazione?-
Il piano torna silenzioso e lei si rende conto di essere stata offensiva.
-Mi perdoni non…-
-Oh, sì. Voleva dire esattamente ciò che ha detto. Ma visto che è la verità non mi sento offeso, né sono certo lo sarebbe Clelia.-
Karen fissa il carillon.
-Immaginava l’amore romantico per una donna eterea con dietro uno sfondo di guerra e dolore, Signorina Art? L’amore romantico durante la guerra si trova soltanto nei film e nei romanzi. Quegli americani che sfilavano di fronte la nostra porta e poi tra le sue cosce non cercavano romanticherie.-
Karen si sente vistosamente arrossire e in un moto di rabbia alza gli occhi per ribattere o forse addirittura andarsene, ma gli occhi dell’uomo, ancora una volta, la bloccano.
Sorride vagamente con affetto.
-Johnny non l’hai mai nemmeno sfiorata. Fui io il primo a conoscerlo e in un certo senso fu grazie a me che loro due si conobbero.-
La rabbia e il moto di stizza sembrano lontani.
Karen lo guarda in attesa e pensa che il nome di suo nonno stia bene su quelle labbra.
-Come? Mi dica come lo ha conosciuto, la prego.-
L’uomo sorride nostalgico e fissa la tazza di tè che ancora fuma.

Dalla tazza s’innalzano sottili colonne di vapore, sensuali ed ammalianti come serpenti incantatori dal corpo impalpabile.
Con delicata fermezza rapiscono lo sguardo di Lorenzo, che da minuti immobile, li fissa lasciandosi ipnotizzare, trasportato senza alcuna precisa direzione in un viaggio senza scopo, col potere di cullare la sua mente solitaria.
I nastri che gli danzano davanti si intrecciano come fossero due amanti in un letto fatto d’aria.
Lorenzo sa poco del sesso e non per diretta esperienza, la sorella baratta il proprio corpo per soldi, medicine e generi alimentari di ogni sorta.
Lei dice che si sacrifica per la loro sopravvivenza; per questo ad ogni ora del giorno file di americani impettiti sostano davanti la loro porta.
Odia i soldati, odiava i tedeschi, i fascisti e adesso odia gli americani; in generale odia le divise e la violenza, odia il rumore delle pistole.
Rabbrividisce e con l’indice si punge la fronte schiacciandolo poi sopra il sopracciglio, lo fa da quando è piccolo se è nervoso o impaurito.
È ormai un uomo, giovane, ma pur sempre un uomo e odia avere paura, non gli piace inghiottire fiele amaro quando li vede entrare in casa sua con la pistola nella fondina.
Lorenzo deve fingere di non sentirli; certo, ormai, non è più una novità.
Deve solo starsene lì seduto in compagnia di una tazza d’acqua bollente con dentro affogata una bustina di tè.
L’acqua lentamente prende un colore giallino poco invitante; ma latte e caffé non ricorda che sapore abbiano.
Il tè costa poco e c’è James che lo porta a casa ogni giorno; la Signora Annamaria dice che ha il sapore di acqua lavata: no, non James, il tè.
Di tutti gli eroi che sfilano dall’ingresso alla camera da letto di Clelia, James è proprio quello che gli piace di meno; sorriso presuntuoso e pieno di promesse che a Lorenzo non interessa affatto mantenga, non con lui.
A James piace sfiorargli casualmente il collo e pettinargli i capelli in disordine, ma la cosa che più odia è l’atteggiamento tronfio con cui pretende un bacio ogni volta che porta il tè.
L’unico merito che gli riconosce è quello di tenere impegnata sua sorella.
Clelia ha solo sei anni più di lui, eppure lo tratta come un bambino maldestro che per disgrazia gli grava sulle spalle; lei è l’eroina che salva entrambi dalla fame e invece che combattere con la spada su un cavallo, Clelia allarga le cosce ed emette gemiti come grido di battaglia.
Il papà e il fratello maggiore erano partigiani e sono morti entrambi qualche mese prima negli scontri contro i tedeschi.
Fucilati contro un muro bianco bagnato di rosso.
Lui aveva visto tutto.
Ancora trema al minimo rumore che lo coglie di sorpresa.
Quegli spari entrati nelle orecchie, per una bizzarra ragione, non erano mai usciti, rimanendo incastrati nel suo cervello.
La madre si era lasciata morire subito dopo.
La mattina l’avevano semplicemente trovata rigida e fredda nel letto.
Aveva una smorfia di dolore sul viso, Lorenzo immaginò si trattasse semplicemente del tocco della morte che tutto deforma al suo passaggio.
Gli restava solo Clelia e loro due non si erano mai capiti molto.
Non ci avevano mai neanche provato.
Beve lentamente per non bruciarsi la lingua, certo non per gustare il sapore; quella tazza dai grossi margheritoni blu e il lato scheggiato non contiene nulla che abbia sapore.
Prende della carta ed asciuga la tazza pulendola come può; la scorta d’acqua giornaliera è troppo preziosa per essere sprecata per lavare le porcellane.
Prende il lumino (*1) e va alla finestra spalancandola; l’aria di settembre gli accarezza gentilmente il viso e con i suoi profumi fa parlare di sé.
Lorenzo somiglia all’autunno, è difficile capire quello che pensa, quello che ha in testa; è sempre perso lontano che naviga pensieri o affronta ricordi.
Da Piazza della Signoria già provengono musica e voci.
-Lorenzo... Lorenzo?-
Tre ragazzi sulla strada, sotto la sua finestra. Il moretto che lo ha chiamato è Stefano Anticoli; abita nel palazzo di fronte ed è il suo migliore amico, da quando sono bambini.
Con gli altri due, invece, ogni tanto gioca a calcio.
-Ci sono i soldati in gonnella, vieni?-
Posa la candela sul davanzale e si sporge dalla finestra perché non può parlare ad alta voce.
Clelia vuole che lui finga che non c’è mentre lavora.
-C’è la mia amorosa?- chiede in un bisbiglio, tuttavia ben udibile.
Stefano ride e annuisce.
-Se non ti sbrighi te la pigliano.-
Annuisce e pensieroso afferra la giacca; apre e richiude la porta il più delicatamente possibile per non farsi sentire.
Abitano al terzo piano e scalino dopo scalino sente i capelli cadergli sulla fronte.
Stefano sorride e gli circonda le spalle con un braccio, fischiettando si avviano verso la piazza; gli racconta di sua madre che si intrattiene con il ciabattino che gli ha già regalato un paio di scarpe nuove.
-Tutte le donne son puttane e noi grulli che gli andiamo dietro.- dice ridendo da solo.
Attraversano una strada stretta e non illuminata per far prima, le finestre delle case spalancate in cerca d’aria che non costa quattrini.
Agli stendini sono appesi ciondolando i panni umidi; alcuni ancora gocciano e Lorenzo alza il viso per vedere dove sarà colpito. C’è puzza di umidità e di sudicio, c’è ancora puzza di guerra e tanfo di morto.
Lui lo ha sentito quella mattina.
Ancora lo sente quando entra nella camera della mamma; il profumo di lavanda è limpido nei suoi ricordi ma quando apre quella porta, gli entra solo puzza di morte nelle narici.
Odia quella stanza.
È inutile cercare lì sua madre.
Dalla serranda del panettiere, non del tutto chiusa, filtra una striscia sottile di profumo, quello del pane caldo che già stanno preparando.
Nella piazza di fronte Palazzo Vecchio e le sue quattro statue, ci sono cinque americani (*2) in camicia e gonnellino rosso a quadri blu. Suonano una marcia allegra con le loro cornamuse.
Lorenzo ride come ogni volta che li vede e soffia i capelli lontani dagli occhi; Stefano gli picchietta l’indice su una spalla e col mento gli indica verso la fontana di Nettuno dove sta seduta la sua Lucrezia.
Lei è bella.
Sta lì seduta e sorride alle sue due amiche. È più grande di Lorenzo di tre anni e recita la parte di Violetta ne “La Traviata” di Verdi; lo spettacolo allestito dal Teatro della Pergola per cui lui cuce gli abiti di scena.
Quante volte ha accarezzato la gonna che indosserà immaginando fosse lei stessa. Ha capelli ed occhi neri, tanto scuri e tuttavia lucenti, illuminati dalla luna.
-Che fai, tentenni?- chiede Stefano malizioso.
Lorenzo sorride e con una mano si sposta indietro i capelli color nocciola, avvicinandosi.
Lucrezia smette di sorridere e dà una gomitata alla ragazza che le siede accanto e che smette di parlare; tutte e tre guardano Lorenzo avvicinarsi.
-Buonasera Lucrezia.- la voce è quella di un adolescente innamorato.
-Buonasera Lorenzo.- dice lei pacata, sorridendo lievemente.
-Posso offrirti un gelato?- cerca di essere convincente e spavaldo nei suoi vestiti smessi.
Lei si liscia la gonna giallina e non trattiene una risata canzonatoria.
-Tony mi ha offerto già la cena.-
-Tony?- dice Lorenzo con una smorfia senza farsi scoraggiare.
-Sì, esco con lui.- si alza in piedi e insieme alle altre due ragazze tutte denti lo supera avvicinandosi alla gente che assiste allo spettacolo, qualcuno danza anche.
Rimane per un istante immobile e si morde il labbro inferiore.
-È perché sono più piccolo e l’americano è ganzo?- chiede ora infastidito.
-È perché non hai quattrini sufficienti nemmeno per te stesso… e senza lìlleri 'un si lallera.(*3) Tony mi sposerà e mi porterà con sé in America, non voglio restar qui a morir di fame.- non si volta a guardarlo e si allontana impettita.
Lorenzo sospira e si infila le mani nelle tasche della giacca, calciando un piede a terra; le cornamuse intanto smettono di suonare e la gente radunata intorno applaude con entusiasmo.
Torna vicino a Stefano e lo guarda mesto con una scrollata di spalle.
Sorride a Lorenzo comprensivo dandogli una pacca sulla spalla con fare incoraggiante.
-La prossima volta andrà meglio.- dice convinto.
Stefano lo guarda e scuote il capo con un lungo sospiro.
-Chi visse sperando, morì cacando!(*4)-
-Tu e i tuoi proverbi! Sta un po’ zitto, grullo.- si sorridono complici e Stefano si lascia andare ad una risata allegra.
Lorenzo non ricorda di averlo mai visto triste o silenzioso, ha sempre buon umore da distribuire a chi, anche solo per sbaglio, gli si accosti.
Si siedono a terra davanti gli americani sbronzi che si improvvisano per gioco musicisti, cantando e storpiando i successi italiani del momento oppure quelli che hanno fatto storia.
Lorenzo ha una passione infinita per la musica, soprattutto l’opera; lavorando come sarto agli abiti di scena per i teatri fiorentini presso la ditta Cerratelli, spesso ascolta le prove e non si perde nemmeno una parola, col risultato strabiliante di sapere a memoria varie arie.
È soddisfatto del suo lavoro e durante il Maggio Fiorentino (*5) quando i teatri duplicano le rappresentazioni, resta a cucire anche tutta la notte per terminare i costumi.
È sempre l’ultimo a lasciare il laboratorio e Vittorio, il capo-sarto, gli ha affidato le chiavi.
Per Lorenzo questo lavoro non è solo una fonte di guadagno, è soprattutto passione.
La radio, anche se malandata e mal funzionante è il suo tesoro; la custodisce gelosamente nella sua camera.
Stefano sbadiglia rumorosamente e con poca delicatezza gli affonda un gomito nel fianco.
-Andiamo a raccoglier more?- chiede sottovoce.
-L’ultima volta mi hai fatto cader nel fosso e Clelia non me le ha date solo perché ormai sono alto quanto lei.- l’altro ride, probabilmente ricordando i dettagli della caduta e della sua spinta giocosa.
Finalmente, dopo tre repliche di “O sole mio”, appare al centro della scena un altro soldato.
Ha un sorriso simpatico stampato in volto, i capelli tagliati cortissimi sono biondicci e gli occhi di un blu parecchio scuro. Indossa la tipica divisa verde e gli scarponi militari neri, dopo aver rivolto alla gente un inchino buffamente elegante, si porta alla bocca un piccolo astuccio rettangolare che Lorenzo non ha mai visto prima e che brilla di lucidi riflessi argentati.
L’americano ci soffia dentro e delle note squillanti si diffondono.
Sembrano quasi stridule come un grido.
Anche se a tratti divengono soavi, lasciando al loro passaggio un’eco sognante.
Da lente divengono frizzanti.
Ammoniscono e poi si scusano.
Gioiscono finendo in lacrime.
Accusano e condannano, dondolandoti, tra le braccia fatte di scale.
Lorenzo chiude gli occhi, non ha mai sentito una musica tanto strana, tanto vasta e indecifrabile.
Pensa che possa assomigliare all’uomo, capace di provare tanti sentimenti confusi tutti assieme.
Sente Stefano lamentarsi annoiato, sente la sua mano che gli stringe la spalla e lo scuote ridendo, credendolo addormentato.
Guarda il soldato che non produce note ma uomini di musica.
Vorrebbe alzarsi in piedi ed avvicinarsi a lui, chiedergli se per caso non sia uno strano sortilegio.
Vede che molti hanno preso a chiacchierare distratti o annoiati.
Improvvisamente è infastidito dagli sbadigli di Stefano, vorrebbe sgridarlo.
Vorrebbe obbligare tutti ad ascoltare.
Come può un soldato che uccide e bestemmia produrre qualcosa di tanto bello?
Anche adesso che tiene alla bocca quella scatola magica porta la pistola alla cintura.
Sente Stefano tirargli dal basso il polso e si rende conto di essersi alzato in piedi.
Si rende anche conto che il soldato adesso suona guardando proprio lui, tra tutti, probabilmente grato di avere almeno uno spettatore.
La musica si interrompe quando un altro soldato si avvicina e gli dà uno schiaffo sulla nuca dicendo qualcosa in americano che Lorenzo non capisce.
Entrambi i soldati ridono e le spinte di Stefano hanno la meglio. Lorenzo si fa tirare via per il polso.
Ha ancora quegli uomini di musica che gli girano nelle orecchie.
Volta la testa e vede che il “suo soldato” lo sta ancora guardando, gli sorride e fa un inchino, lo fa rivolto a tutti ma Lorenzo sa che è solo per lui.


-Non ci parlammo, fu solo una questione d’occhi e orecchie. Di suo nonno la prima cosa che conobbi fu la sua “scatola” che mi disse essere un’armonica e i suoi “uomini di musica” che mi disse essere Blues.-
Karen sorride e pensa al nonno, lo vede attraverso gli occhi del Signor Barsalini, giovane e spavaldo nella propria divisa e inseparabile dalla propria armonica.

La radio è l’unica voce che spezza il silenzio, col suo tipico ronzio elettrico di sottofondo.
Il volume è al massimo e sulle note del successo di Alberto Rabagliati “Ba-ba-ba-Baciami Piccina” Lorenzo e Vittorio Crini, il capo-sarto, prendono le misure a Chiara Peruzzi, il soprano che ne “La Traviata” di Giuseppe Verdi interpreterà Flora Bervoix; l’opera verrà messa presto in scena dal Teatro della Pergola.
Vittorio batte a terra il piede seguendo il ritmo della canzone e Lorenzo in ginocchio, sorride segnando con gli spilli l’orlo della gonna da tagliare.
Chiara Peruzzi è vistosamente annoiata e ogni tanto si copre la bocca per uno sbadiglio.
-Lorenzo, fammi un piacere… vai in magazzino a prendere le scarpette che la signorina Peruzzi dovrà indossare. Voglio esser sicuro che l’orlo sia perfetto per ritoccarlo il meno possibile.-
-Credo siano in cucina (*6) per esser tinte.-
-No, le hanno riportate in magazzino stamani. Vai e non ci metter le ore!-
Alzandosi in piedi le ginocchia scricchiolano e Lorenzo nemmeno nasconde il sorriso grato che gli sale naturale sulle labbra. Vittorio sa quanto adori perdersi tra gli oggetti di scena e trova sempre una scusa per permettergli di andarci. Lorenzo adora il profumo delle stoffe: il cotone che sa di sole, la lana pungente che sa di montagna, la seta liscia e costosa che profuma di belle donne.
Gli piace spostare i vestiti ed essere avvolto dalla canfora e dalla naftalina, dall’odore della muffa e del chiuso.
Il profumo della pelle delle scarpe o del borotalco delle parrucche.
Il profumo del ferro delle spade e delle pistole a tamburo, l’odore dell’olio usato per lucidarle.
Il profumo della terracotta e della ceramica delle maschere dai colori più svariati e dalle forme più fantasiose: quelle veneziane da Pantalone a Casanova, le maschere raffiguranti animali, quelle di lusso coperte di brillantini e gemme, quelle esotiche con piume e rifiniture dorate, quelle di cuoio dall’aspetto minaccioso e misterioso insieme.
Lorenzo sobbalza e si volta sentendo la porta cozzare contro il muro; la signora Ceratelli lo squadra accusatoria dalla soglia con le mani puntate ai fianchi e la solita espressione battagliera.
Perfino il marito piega il capo.
-Stai qui a cincischiare (*7) come sempre?-
-No Signora, cercavo le scarpe per il personaggio di Flora Bervoix.-
Guarda Lorenzo arcigna e fa una smorfia poco convinta.
-E le cercavi tre le maschere di scena? Sono pronte le uniformi, pulite e stirate. Voglio che le porti alla caserma e ritiri quelle sporche.-
-Perdonatemi signora ma spetta a Berto e…-
-Berto è malato e non posso mandare una delle mie ragazze. Sono già incartate all’ingresso, sbrigati e non cincischiare per strada.-
“La Cinghiala della Maremma”, come è stata soprannominata dai dipendenti e dallo stesso marito si volta e non ammette repliche.
-Io non cincischio.- dice ormai al vuoto nel magazzino.
Stizzito afferra le scarpette e le porta a Vittorio che ora sta prendendo le misure per le spalline.
Le due buste sono piuttosto pesanti, le porta tra le braccia sul petto con la carta gialla ruvida che gli sfrega fastidiosamente sotto il mento e sulle guance.
Non fa freddo ma nemmeno caldo e il pomeriggio si fa più scuro.
Le giornate cominciano ad accorciarsi.
Non dovrebbe essere in ansia, si dice che casa sua è praticamente una caserma e agli americani dovrebbe essere abituato. Eppure sente le mani sudare perché a casa può rintanarsi nella propria camera, mentre ora invece, è costretto ad entrare nel loro covo.
Oltretutto molti di loro lo riconosceranno e a Lorenzo dà fastidio essere indicato come il fratello de “L’amica degli americani”, lui che li odia.
E per sincerità verso se stesso, deve ammettere che più che altro, li teme.
È agitato ma il profumo del pane caldo lo sente ugualmente persino il suo stomaco lo fiuta e brontola.
In vetrina è esposto un cesto di cantuccini e Lorenzo sente le mandorle sulla lingua, vede suo padre inzupparli nel Vinsanto e sua madre brontolare.
Si morde il labbro inferiore: “Sono un uomo e un uomo non piange”.
Pensa anche che non gli piace troppo essere un uomo.
Ma la guerra i bambini se li porta via, chi sopravvive è un adulto e l’età è una boiata.
Sulle scale due soldati parlano tra loro nella loro buffa lingua; uno dei due si alza in piedi ed esclama quel “Boi” (*8) che a Lorenzo fa venire la pelle d’oca.
Gli indica le buste e quello gli apre la porta facendolo passare.
Incerto attraversa il corridoio ed evita accuratamente le scale che portano alle camere da letto dei soldati, camminando fino ad una stanza da cui sente venir voci e risate.
Educatamente batte le nocche contro il legno ed apre la porta esitando appena.
Contro la parete c’è solo un piccolo armadio, dai cassetti pendono dei fogli di carta, altri sono accartocciati e sparsi a terra.
Probabilmente è rimasta in disordine dalla fuga dei tedeschi, a cui apparteneva la caserma.
Al centro della stanza, intorno ad un tavolo, stanno giocando a carte quattro soldati.
Al suo ingresso uno di loro si alza in piedi sorridendo.
Lorenzo lo riconosce immediatamente: è James.
D’istinto, quando lo vede venirgli incontro, indietreggia di un passo mentre gli altri soldati ridono divertiti.
-Lori ci hai portato le divise?- chiede con quell’accento che Lorenzo non sopporta.
È orribile sentir uscire la propria lingua dalla bocca degli stranieri.
-Sì, la signora Cerratelli mi ha chiesto di prendere il cambio di quelle da rattoppare e lavare.- dice serio senza sorridere. Vorrebbe solo correre via.
-Vieni, le andiamo subito a prendere.- il soldato gli si avvicina ancora e gli tocca una spalla.
Lorenzo si scansa di lato e fa cadere le buste a terra.
Quando si piega per raccoglierle sibilando un’imprecazione tra i denti, si ritrova col viso all’altezza della pistola che James tiene nella fondina al fianco.
Sente gli spari e rivede quel muro bianco e rosso, tornando in piedi di scatto.
-Lasciale qui Lori, ci pensiamo noi.- dice James e gli posa una mano sulla schiena spingendolo fuori dalla stanza. Si rende vagamente conto che lo sta guidando verso le scale e si blocca, puntando a terra i piedi come un mulo ostinato e recalcitrante.
-No, io… ti aspetto qui.- e si sforza di sorridere fissandogli il mento; gli occhi proprio non vuole nemmeno intravederli, gli è bastata la pistola.
Sa già che ci troverebbe malizia, assieme a quel ghigno presuntuoso.
L’altro ride e gli vede la pelle del mento incresparsi.
-Sono pesanti, devi aiutarmi!- insiste in tono quasi convincente.
“Quasi” perché Lorenzo non è scemo e spostando di nuovo gli occhi verso la sua pistola rimane in silenzio.
-Hai paura di me, Lori?- è chiaramente provocatorio, eppure il tono sembra gentile e sinceramente interrogativo.
-Devo tornare in sartoria o la signora Cerratelli si arrabbia.-
-Vieni Lori, ci mettiamo poco.- di nuovo gli poggia la mano al centro della schiena, sarebbe quasi una spinta incoraggiante e delicata se quella non fosse la mano di un soldato.
Accelera il passo rabbrividendo e gli cammina davanti perché non vuole che lo tocchi. Lui non è Clelia.
In cima alle scale c’è un corridoio ai cui lati si trovano parecchie porte tutte identiche, alcune più malandate e storte di altre. James lo supera e si dirige con passo calmo fino all’ultima porta in cui sparisce.
Lorenzo si avvicina esitante e lo guarda dalla soglia.
È una stanza piccola e circolare, c’è al centro un tavolo che sembra piuttosto malandato e a terra parecchie divise sgualcite e sporche.
Non ci sono finestre e c’è puzza di chiuso, oltretutto è quasi buia.
-Aiutami.- dice James deponendo le divise in uno scatolone di cartone.
Ma Lorenzo non vuole stargli vicino, tanto meno in quella stanza e nemmeno supera la porta; avere il corridoio e le scale a portata di piedi è incoraggiante.
-Lori aiutami o farai tardi.- lo guarda attento e si tormenta un labbro, la signora Cerratelli starà sbraitando in negozio. Si avvicina titubante e controlla che la porta sia aperta.
Mantenendosi comunque distante da James si inginocchia a terra e senza guardarlo, infila le divise nello scatolone chiedendosi come farà anche solo a sollevarlo.
-Perché a tua sorella piaccio e a te no?- sente il suo sguardo addosso e i pantaloni e la maglia non gli sembrano sufficienti a coprirlo.
Si irrigidisce appena ma non risponde.
-Sei silenzioso e sembra sempre che cerchi di far credere che nemmeno respiri.- quell’accento gli dà fastidio ancora più degli occhi con cui lo punta e i piccoli movimenti con cui gli si avvicina.
-Ma io mi sono accorto di te. Sei molto bello.- lo vede allungare una mano verso il suo viso e si alza in piedi prima che arrivi a toccarlo.
-Fai a Clelia questi complimenti. Io sono un uomo.- lo dice serio.
L’americano ride e dice qualcosa nella sua lingua che lui non capisce.
Riesce soltanto a vederlo mentre si alza e Lorenzo si volta veloce verso la porta, venendo afferrato prima di raggiungerla; con una mano James gli copre la bocca e con l’altro braccio gli circonda i fianchi magri, tirandolo contro il suo corpo.
Nel tentativo di liberarsi dà un calcio alla porta che si chiude lasciandoli in un buio indigesto.
Si sente poi portare all’indietro, sente il proprio respiro spezzato e può sentire anche quello di James.
-Lo so che sei un uomo e ho visto come guardi i soldati. Perché io non ti piaccio?- cerca di mordergli la mano, ma l’altro gli spinge con forza indietro la testa.
-Ti darò i soldi. Ti darò da mangiare tutti i giorni. Ti farò regali… non ti farò male.-
“Sono un uomo e un uomo non piange”.
Se lo ripete nel cervello ma sembra che gli occhi siano una cosa a parte, perché mentre scalcia e si dimena per allontanare quella mano dai pantaloni sente le guance umide e bollenti, gli occhi gocciolare spalancati, annegati in se stessi.
Quella mano sulla bocca gli sembra sia incollata.
Anche mentre lo schiaccia a terra e lo tocca rimane lì.
Lo sente sdraiarsi su di lui e tenerlo a terra, la maglia arrotolata sul petto, lo sente bisbigliare parole in italiano e in americano.
Lorenzo pensa stupidamente che è meglio sia buio, almeno non vedrà nulla.
Poi sul fianco nudo sente qualcosa di ruvido e duro, capisce che è la pistola di James e che nemmeno l’ha slacciata; ha le mani ai lati della testa ma sono libere perché non gliele tiene.
Allunga piano la destra e mentre l’americano sembra gli stia lavando il collo, afferra la pistola e la estrae.
Quando James si rende conto di quel che è successo la mano corre a posarsi su quella del ragazzo che credeva ormai arreso e in lacrime.
Trova, al contrario, una stretta decisa.
Lorenzo lo sente irrigidirsi e cerca di strappargli l’arma dalla mano.
Con le unghie gli graffia il viso e si rende conto di non aver più la bocca coperta.
Comincia a gridare più forte che può e immersi nel buio parte un colpo, sente James trattenere il respiro e a lui dalla gola esce un verso simile ad uno squittio roco.
Un muro rosso.
Lo rivede più nitido che mai in quell’oscurità e lascia la presa sulla pistola senza però smettere di gridare.
Per un istante si chiede come può riuscirci, a lui sembra di non essere ancora nemmeno tornato a respirare.
Tiene gli occhi sigillati, come le serrande dei negozi la sera. Sente voci e passi, la porta spalancata e la sua voce che non si affievolisce, forse la forza risparmiata da quando è nato la sta usando tutta assieme.
Gli tirano via quel corpo e si sente rabbrividire ma non chiude la bocca né apre gli occhi.
Altre mani che lo toccano e Lorenzo non ne vuole più addosso, si dimena con le braccia e scalcia con le gambe.
Non capisce quello che dicono ma sotto la sua voce ne sente un’altra che grida e nessuna mano più lo tocca; torna immobile e gridando ora apre gli occhi.
C’è il suo soldato della musica che lo guarda dall’alto, smette di gridare e rimane immobile a fissarlo mentre si piega e lo solleva.
Lorenzo non distoglie mai lo sguardo, la testa la sente come vuota; viene portato in un’altra camera e poi sdraiato su un letto, sotto la schiena un materasso molliccio e sfondato.
Il suo soldato della musica gli sistema i pantaloni e glieli allaccia, gli sistema anche la maglia e Lorenzo ricomincia a piangere ad occhi chiusi.
Una pezza umida gli viene passata sulle guance, sulle palpebre; sente il rumore dell’acqua e la pezza di nuovo fresca gli torna sul viso.
Trema per la vergogna e per la paura, ma è suo diritto anche se è un uomo.
Ora pensa davvero che sia una boiata la cosa che gli uomini non piangono.
Lorenzo si dice soltanto che la prossima volta non lo farà davanti a nessuno.
Due mani gli stringono le spalle e lo tirano seduto, gli viene avvolta una coperta intorno alle spalle e si sente come chiuso in un bozzolo.
È lana, di quella ruvida che punge e fa pizzicare la pelle, riapre gli occhi e il soldato sorride lievemente sfregando le mani sulla coperta per riscaldarlo più velocemente.
Lorenzo stringe tra le mani al petto i due lembi della coperta e nemmeno si accorge di ricominciare a piangere; fissa quegli occhi tanto blu e gli vengono in mente i mirtilli.
Tira su col naso, forse in maniera un po’ infantile e il soldato gli passa il pollice sotto gli occhi.
-Me lo dici come ti chiami?- chiede piano, come se non volesse spaventarlo.
-No, i soldati non mi piacciono!- la voce gli esce un po’ stridula e pensa che ora che ha sparato a James vorranno vendicarsi.
Guarda verso la porta spalancata della camera.
La stanza illuminata da un paio di candele è piccolina, c’è solo il letto e una scrivania storta con sopra sparse delle fotografie stropicciate.
-Non piacciono nemmeno a me.- sorride allegro e gli si siede accanto sul materasso.
È strano perché più che paura Lorenzo prova curiosità verso questo soldato e nota che l’accento americano si sente appena.
Il soldato si sistema meglio facendo traballare il materasso e poggia la schiena contro il muro, stendendo dritte le gambe, si passa, distratto, le dita sul mento dove c’è una barba biondiccia e corta.
Poi cerca qualcosa nel taschino della camicia.
Sorridendo ne tira fuori un piccolo tovagliolo accartocciato che porge a Lorenzo.
-Mi chiamo Johnny.- gli dice in tono amichevole -Beh, in realtà Johnatan. Ma Johnny è meglio e tutti mi chiamano così.- aggiunge dopo un po’.
Lorenzo apre il tovagliolo e dentro vi trova due quadratini bianchi.
Sembrano quelli che a teatro mettono tra i vestiti per le tarme e l’umidità, solo che sono più piccoli.
-Purtroppo ho finito la cioccolata, ma ti tireranno allo stesso modo su il morale.-
-Dovrei mangiare della canfora?- chiede preoccupato sapendo quanto è nociva.
L’americano Johnny lo guarda facendo una smorfia divertente.
-Cos’è la canfora? Quello è zucchero.- dice sorridendo.
Anche Lorenzo ride pianissimo.
È la prima volta che vede dello zucchero solido e incuriosito ne mette uno in bocca, tenendosi l’altro per dopo.
-Sai, mio padre è italiano, di Genova. Poi si è sposato la mamma americana ed è andato ad abitare lì con lei. Per questo io parlo bene l’italiano.-
Ecco perché l’accento era meno fastidioso.
-Ti ho sentito suonare la settimana scorsa, perché poi non l’hai più fatto?- non sa bene nemmeno come gli è venuto in mente di chiederglielo.
Oltretutto con quel coso in bocca ha quasi rischiato di soffocarsi.
-Sì, mi ricordo di te e di come mi guardavi.- dice sorridendo, e a Lorenzo tornano in mente le parole di James di come lui guardi i soldati.
Rabbrividisce e si stringe forte nelle braccia, di nuovo spaventato.
-Ti senti male?- gli chiede accarezzandogli la testa, le dita tra i suoi capelli nerissimi e sempre spettinati.
Lorenzo sobbalza e si tira indietro, spaventato da quella carezza.
Gli viene in mente Tobia, un cane randagio che ha paura di ogni più piccolo movimento e guaisce ancora prima di prenderle. Eppure l’americano non ride, resta fermo, fissandolo serio. Non vuole che pensi a lui come ad un codardo o a un cane spaventato e facendosi coraggio gli si siede vicino anche lui contro il muro.
-Come ti guardavo?- la voce è colma di vergogna.
-Come se stessi facendo qualcosa di meraviglioso. Come se il mio blues fosse capace di una strana magia.-
Lorenzo lo guarda sentendosi ancora teso e incerto.
-Cos’è il blues?- chiede titubante.
Johnny sorride e allunga una mano sotto il letto, ne tira fuori una piccola sacca di stoffa che sembra velluto e da quella tira fuori la scatola argentata rettangolare che Lorenzo gli ha visto suonare.
Se la porta alla bocca ed esce una specie di marcetta allegra.
-Il blues non si spiega né racconta, si suona.- gli porge la strumento e Lorenzo lo prende in mano incuriosito.
-Non avevo mai sentito una musica così bella, né avevo mai visto questo.-
Johnny fa un ampio sorriso, sembra fiero e orgoglioso.
-Davvero ti è piaciuta? Gli altri sembravano annoiati ed è per questo che non ho più suonato. Quella è un’armonica ed è perfetta per il blues.-
Lorenzo annuisce trovandosi d’accordo, senza sapere nemmeno lui bene di cosa stanno parlando.
-A me piace la musica, a teatro mentre cucio ascolto le prove dell’opera e so a memoria molte arie.- questa cosa per lui è sempre stata motivo di grande vanto e ci tiene a riscattarsi davanti gli occhi di quel soldato.
Che poi è strano perché di solito pensa siano loro a dover dimostrare di non essere merde.
L’altro sorride e anche Lorenzo accenna una smorfia, un tentativo di sorriso, restituendogli l’armonica.
-Mi metti a paragone con le arie dell’opera? Sono onorato!- ride pianissimo e Lorenzo sospira.
Probabilmente è già buio e la signora Cerratelli potrebbe anche decidere di licenziarlo; pure Clelia si arrabbierà se tarda a rincasare.
Non per cenare insieme, non lo fanno mai, più che altro per il gusto di fingersi sorella maggiore, di tanto in tanto.
Lorenzo si morde una guancia.
-È già buio e i tuoi genitori saranno in pensiero. Ti va se ti accompagno?-
-I miei genitori sono morti, vivo con mia sorella.- lo dice alzandosi ancora un po’ traballante sulle gambe, mentre piega con cura la coperta e la posa sul materasso.
Il fazzoletto con quel dado di zucchero preferisce metterselo in tasca.
Si sente accarezzare gentilmente la nuca e rabbrividisce senza motivo.
-Mi dispiace.- Lorenzo alza le spalle e sorride incerto.
Johnny gli circonda con un braccio le spalle ed infila nella tasca posteriore dei pantaloni l’armonica; cammina così vicino a lui senza esserne infastidito. Solo le guance e le orecchie gli sembrano più calde.
Vede affacciarsi da una porta James e si irrigidisce, addossandosi istintivamente contro Jonny; ma si limita a fissarlo senza dire niente.
Johnny lo stringe più forte e anche le scale scendono in quel modo strano.
Anche per la strada deserta Jonny non lo lascia.
Lorenzo si chiede se anche Jonny voglia quello che James ha quasi ottenuto; tuttavia, pur non sapendo niente di lui, non prova fastidio.
Forse per quella musica tanto bella che sa suonare.
-Abito qui, in questo palazzo.- gli dice indicandolo. Il suo soldato della musica allontana il braccio e si tira appena indietro mentre lui con la chiave apre il portone.
-È al terzo piano e posso salire da solo.-
-Non è meglio se salgo a parlare con tua sorella?- chiede l’altro col viso rivolto alle scale.
Lorenzo gli posa una mano su un braccio e lo stringe, fissandolo spaventato.
-Non dirglielo, non voglio. Nessuno deve sapere cosa ho fatto.-
Jonny lo guarda senza capire inclinando il capo confuso.
-Tu non hai fatto niente.-
-Lui ha detto…- quasi brusco, Jonny gli prende il viso tra le mani e Lorenzo si stupisce di quanto siano grandi e un po’ ruvide, ma soprattutto calde.
-Dimentica ciò che ti ha detto. James voleva farti quello che un soldato nemmeno dovrebbe pensare di fare. Tu non hai colpe e per punizione James verrà mandato via, lui non ti darà più fastidio.- sente di nuovo gli occhi pizzicare e guardandolo annuisce lentamente.
È un pensiero stupido, ma gli vengono in mente le bustine di tè che adesso Clelia dovrà andarsi a comprare.
-Però non voglio che Clelia lo sappia.-
L’altro sorride e gli accarezza una guancia.
-Resterà un segreto tra noi due.-
-Sì, e tutto il resto del battaglione che è accorso quando ho gridato.-
Lo vede ridere e pensa che piacerebbe anche a lui riuscire a farlo.
-È James, che deve vergognarsi di questo non tu. Ed ora saliamo, tua sorella sarà in pensiero.-
Lorenzo brontola scettico e Johnny fischietta mentre salgono le scale.
-Non mi hai ancora detto come ti chiami.-
-Lorenzo, come mio nonno.- sale piano gli scalini con la voglia di chiacchierare con Jonny il più possibile.
-È un bel nome. E quanti anni hai Lorenzo?-
-Quindici, compiuti il mese scorso.-
-Davvero? Io credevo non più di tredici.-
Lorenzo fa una smorfia e lo guarda offeso, perché è davvero terribile dire una cosa simile ad un quindicenne che già non vede l’ora di farne sedici.
-Non mi guardare male.- dice Johnny ridendo, ormai giunti sul terzo pianerottolo.
-Sei troppo magrolino, dovresti mangiare più… come lo hai chiamato? Confara?-
Lorenzo non riesce a trattenersi e ride come solo con Stefano riesce ancora a fare.
-Canfora! Non si mangia si mette…-
La porta di casa si apre e Clelia con addosso una lunga vestaglia azzurrina guarda accigliata Lorenzo dalla soglia.
Ha i capelli neri sciolti sulle spalle e le labbra piene e rosse, su cui ha sfregato chissà cosa per apparire più bella.
-Hai visto che ore sono Lorenzo?- il tono è infastidito ma gli occhi sono già su Jonny che la guarda in silenzio.
Lorenzo lo capisce subito ed è arrabbiato.
Con se stesso perché non avrebbe dovuto farlo salire, con Jonny perché nemmeno dovrebbe guardarla, con Clelia che già sorride da bambola alla divisa di un nuovo cliente.


-Le cose invece andarono molto diversamente. Perché Johnny si innamorò di lei e credette di poterla avere solo per sé.- lo vede sorridere amaramente e poi guardarla intensamente.
-Io amavo suo nonno, lo amavo come può amare un bambino. Vedevo in lui l’uomo forte che sarei voluto essere. Gli stavo sempre addosso, andavo perfino senza timore in caserma, prendendo a portarlo in sartoria quando non c’era nessuno perché suonasse solo per me i suoi uomini di musica. Non so se ha mai capito, perché forse non capii bene nemmeno io.- sospira come fosse stanco e abbassa gli occhi sulla zolletta che ha ancora in mano.
-Non capii nemmeno cosa nel frattempo era nato tra lui e Clelia. Ero felice quando la sera veniva da noi a cena, quando dopo giocavamo a carte o cantavamo. Fu proprio quella felicità a rendermi cieco. Non capii che lui veniva per vedere lei. Più tardi fu l’odio a fare lo stesso e non capii che anche lei…-

Dei colpi.
Si sveglia e scatta seduto, gli occhi corrono alla finestra.
Fuori è notte e per un istante resta immobile e spaventato, pensando che i tedeschi stiano bombardando la città.
Ma i tedeschi si sono ritirati da più di due mesi.
La mente assonnata registra che sono colpi alla porta.
Sente i passi di Clelia davanti la sua camera fino all’ingresso.
Torna sdraiato grattandosi una guancia, sbadiglia e si sfrega gli occhi sporchi di sonno.
Fuori è buio pesto ed è un orario improbabile perfino per Clelia e i suoi soldati.
Incuriosito arriva in punta di piedi fino alla porta della propria camera e ne apre uno spiraglio; sente chiaramente la voce di un uomo.
Apre la porta e attento perfino al proprio respiro, cammina piano nel piccolo corridoio fino alla cucina; riconosce distintamente la voce di Clelia e di Johnny. Poggia la schiena contro il muro e ascolta ciò che si dicono.
-Tu sei pazzo, Jonny! Ti rendi conto di quello che dici?-
-Qui non hai nulla!-
Le loro voci arrivavano appena sussurrate ma chiare, complice la notte silenziosa.
-Una casa, tanto per cominciare!- Clelia sembra stizzita.
Sente gli scarponi di Jonny contro il pavimento e poi la sua voce che sembra diversa, triste.
-Offro a te e Lorenzo una vita migliore. Clelia, lo capisci che non sei più una bambina? Devi pensare anche al suo bene.-
-Non lo sono mai stata, Johnny! La guerra mi ha portato via la possibilità d’esser bimba.-
Lorenzo aggrotta la fronte senza capire di cosa stiano parlando.
La voce di Clelia sembra sofferente.
-Non posso. Non posso lasciare la mia vita qui, la casa dei miei genitori, la sartoria…-
-Clelia! La tua vita? Ti piace la vita che fai? E quale sartoria? Te l’hanno già portata via, non potevi permettertela.-
Sente il tonfo di uno schiaffo, lo sfrigolio della pelle.
-Non dovresti permetterti di parlarmi così. La vita che faccio è affar mio. E la sartoria presto potrò ricomprarla. Io e la signora Cerrateli abbiamo un accordo, ma tu non ne fai parte. TU, sei tu, che qui non hai niente. Sei entrato nelle nostre vite, hai reso Lorenzo più felice. Non lo vedevo così felice da quando i nostri genitori sono morti, lo ammetto. Ma non puoi fare altro per lui.-
Lorenzo si morde il labbro inferiore, respirando più veloce.
Il silenzio è pesante.
-Vorrei che anche tu potessi tornare a sorridere.-
Sente Clelia ridere.
-Lo faccio quando mi pagano e poi escono dalla mia vita.-
Ora, invece, si sente confuso e terribilmente triste perché forse qualcosa ha capito.
Johnny non dice altro, sente di nuovo i suoi scarponi sul pavimento e poi la porta sbattere violentemente.
Lorenzo stringe forte i pugni ed entra in cucina, restando immobile sulla soglia.
Vede Clelia alla finestra, la cucina è buia.
La sente cantare a voce bassissima e prova rabbia, voglia di ferirla come lei ha fatto con Johnny.
È il Valzer delle Candele, la sua canzone preferita.
-Johnny voleva che andassimo con lui in America, vero?-
-Torna a dormire, Lorenzo.- nella sua voce non c’è alcuna emozione.
Lorenzo sbatte una mano contro il muro.
-Io ci voglio andare. Io voglio andare con lui. Tu non puoi decidere per entrambi!-
-Sei uno sciocco ragazzino che della vita non sa niente. Tu resterai qui.-
Lorenzo stringe forte i pugni.
-Smettila. SMETTILA DI PARLARE COME SE INVECE TU FOSSI UNA DONNA!- lo grida con rabbia, vorrebbe costringerla almeno a guardarlo negli occhi.
-Sei patetico, Lorenzo. Non capisci che il modo in cui lo vuoi con te è sbagliato? Non capisci che è irrealizzabile?-
-Io andrò con lui, con o senza di te.- lo dice convinto e le si avvicina.
Lei ride e Lorenzo si sente arrossire.
-Peccato lui lo abbia chiesto a me. Nemmeno si è accorto del perché gli giri attorno.- dice lei divertita.
-Sta zitta!- sibila piano.
-Tu nemmeno ti rendi conto di quel che fai! Ami un uomo!- il suo tono ora è serio.
-E tu? Quanti ne ami tu di tutti quelli che passano da quella porta?-
Uno schiaffo.
Clelia lo colpisce col palmo aperto e gli occhi lucidi, il viso bagnato di pianto.
Lorenzo sente la guancia pulsare e la guarda infiammato.
-Nessuno. Nemmeno te stessa riesci ad amare.-
La supera ed esce sul pianerottolo, facendo di corsa le scale ed uscendo poi in strada.
Corre sicuro di dove andare a cercarlo, in giro non c’è un’anima.
In Piazza della Signoria, sotto la statua equestre di Cosimo I de' Medici, Johnny sta suonando la sua armonica.
Alza il viso e lo guarda stupito, allontanando dalla bocca quella magia.
-Lorenzo cosa ci fai qui?-
-Mi dispiace. Lei non capisce niente. Lei fa soffrire tutti quelli che la amano.- ha il cuore che corre a briglia sciolta cercando di risalire il petto.
Johnny lo guarda in silenzio.
-Ti prego… non partire.- gli sfugge un singhiozzo, il cuore c’è riuscito, adesso è in gola.
-Devo tornare a casa, Lorenzo.- sorride appena ed apre le braccia verso di lui.
Senza nemmeno pensarci ci si tuffa in mezzo e piange sulla sua divisa, e ripetendo più volte il suo nome, lo prega di non lasciarlo come Johnny sognava facesse Clelia.
-Forse, un giorno ci rivedremo.- dice lui accarezzandogli i capelli.
Lorenzo si rende conto che non gli chiede di andare con lui.
Alza il viso bagnato e guarda quei mirtilli, che non vorrebbe un giorno dimenticare.
Gli bruciano le orecchie e diventa caldo anche il viso mentre si allunga e tocca con la bocca quella di lui, solo lievemente. Coraggiosamente non distoglie lo sguardo e Johnny con una mano gli accarezza piano la nuca, tirandolo di nuovo a sé, in un bacio da grandi.
Sente la lingua di Johnny e si irrigidisce per paura d’essere soffocato, capisce che deve respirare col naso e chiude gli occhi; stringe fra le dita la camicia bianca e con la lingua cerca di imitarlo goffamente.
L’altra mano di Johnny gli accarezza la schiena e lo spinge ad avvicinarsi di più a lui.
Lorenzo si inginocchia a terra, si sente rabbrividire tra la pietra fredda e il corpo caldo del suo soldato della musica; geme piano nella sua bocca e Johnny gli passa una mano tra i capelli, scendendogli poi sul collo, mordendo la pelle, baciando la sua gola.
Le mani di Lorenzo vanno a stringergli le spalle e inclina la testa per lasciargli più pelle.
Si strapperebbe anche il cuore per lui se servisse a tenerlo con sé.
Gli scende ad accarezzare i fianchi magri e un po’ sporgenti, sospira e sente Jonny farsi sempre più vicino, dice qualcosa che lui non capisce e trema per il suo fiato sulla pelle umida. Poi si irrigidisce quando sente cosa ripete Jonny.
“Clelia”
Gli poggia le mani al centro del petto e si tira indietro trattenendo il respiro.
Lo guarda confuso e Jonny lo sembra anche più di lui.
Piano indietreggia e poi si volta, corre sulla pietra fredda e i suoi passi rimbalzano con un’eco sorda nella penombra di un’alba sempre più vicina.
Si siede a terra davanti al portone di casa, chiuso, nascondendo il viso tra le ginocchia portate al petto.
Ma non piange, non ci riesce, vorrebbe ma non può.
Sente il portone scattare ma non si gira, poi avverte la sensazione di qualcosa che gli viene posato sulle spalle.
È una mantellina di lana rossa, riconosce il profumo di viola.
Clelia.
Ancora quel nome che però ora resta taciuto, schiacciato tra i denti e morto sulle labbra.
-Vieni a casa, Lorenzo.- era da tanto che lei non gli parlava così.
Ma lui ormai la odia.
Lei potrebbe avere ciò che a lui non è concesso.
-Quale casa…- dice amaramente. –Non la voglio quella casa che puzza di felicità passata e impossibile da riavere.-


-Restammo seduti vicini mentre il sole sorgeva e saliva. Nessuno dei due tornò a parlare, lei salì quando giunse il primo americano a reclamarla, ma non sorrise come una bambola. Mi guardò un istante e disse solo: “Partirà tra poche ore, digli addio anche per me.”- Karen gli fissa il pugno serrato con dentro la zolletta.
Troppi pensieri gli vorticano nel cervello.
Si accorge che lui si è alzato in piedi, lo guarda lasciare i soldi sul tavolo e girarsi.
Si alza in piedi anche lei afferrando la borsa e il carillon, lo segue fuori dal locale accostandosi a lui in attesa.
-Devo tornare in sartoria. Le auguro un buon viaggio di ritorno, signorina Art.-
Lei, in un gesto naturale gli stringe un braccio e lo guarda seria.
-Andò a salutarlo? Me lo dica, la prego.-
-Clelia si guadagnò la sua giornata e Jonny partì.- dice restando immobile.
-Non le ho chiesto di Clelia, ho chiesto se lei ci andò.-
Lui sorride e guarda verso Ponte Vecchio che hanno a pochi passi.
-Mi ha chiesto di parlarle di Clelia, le ho raccontato fin troppo di me. Dopo la sua partenza io e Clelia ci allontanammo ancora di più, lei tornò a lavorare in sartoria come quando i nostri genitori erano in vita. Non parlammo mai più di Johnny e due anni dopo lei morì di polmonite. Mi chiese perdono, ed io feci lo stesso. Non siamo riusciti ad amarci, o forse sì, in maniera piuttosto strana. Ed io credo che in maniera altrettanto strana lei abbia amato Johnny.-
-Lo prenda.- gli porge il carillon che Lorenzo Barsalini afferra un po’ esitante.
Karen Art apre la borsa e ne tira fuori una piccola custodia rettangolare in pelle nera.
-Prenda anche questa.- dice porgendogliela.
Lui la guarda confuso e prende la custodia capendo immediatamente di cosa si tratta, la apre e l’armonica lo saluta, coi suoi bagliori argentati.
Vicino c’è anche un biglietto.
-Mi sono permessa di leggerlo, mi dispiace. Quando ha nominato Clelia per il carillon sono rimasta sorpresa, quando mi ha chiesto però di portare al fratello la sua armonica… ho provato dolore, forse rabbia ed invidia. Vede, lui non mai permesso nemmeno alla nonna di toccarla. Era ciò che di più caro custodiva. Pensavo l’avrebbe data a me invece che ad uno sconosciuto. Sono venuta a Firenze per capire perché, e poi se non fossi stata soddisfatta avrei taciuto sull’armonica e l’avrei tenuta io.-
Karen sorride e gli porge la mano.
-È stato un piacere.- lui gliela stringe fissandola serio.
-Perché me la lascia?-
-Perché è giusto così. A mio nonno e a me fa piacere che l’abbia lei. Il suo primo ed unico ammiratore.- ride piano e con un ultimo sorriso cordiale Karen Art si volta e si allontana.
Lorenzo sorride perché un altro Art, anche se molto tempo prima sorrise allo stesso modo prima di andarsene in quella stessa direzione.

Corre.
Corre tra le divise col fiatone.
La polvere alzata dai carri armati che sfilano nella direzione opposta da dove sono entrati mesi prima.
Lo cerca con gli occhi e con la voce.
Corre tra la folla di curiosi, qualcuno che agita la mano in segno di saluto.
Colonne di soldati che cantano in americano.
Al lato della strada ora rimane immobile.
Non lo troverà, nemmeno potrà vederlo un’ultima volta.
Si strofina con rabbia un pugno sugli occhi.
Non vuole tornare a casa da Clelia e dagli americani che, rimasti in città, fanno la fila davanti la loro porta.
Si morde il labbro inferiore e cammina piano, strusciando i piedi a terra.
Cammina verso il ponte, verso l’Arno che per le prime piogge si è alzato di livello.
È grazie agli americani se può tornare a passeggiarvi, i bombardamenti che non lo avevano sfiorato perché patrimonio culturale avevano comunque danneggiato ogni punto d’accesso, ricostruito in pochi giorni dagli americani.
Si chiede se anche dopo che saranno partiti tutti Firenze smetterà mai di puzzare di guerra.
Sgrana gli occhi e sente la sua armonica.
Cammina veloce, fino al centro del ponte dove le botteghe si interrompono con due terrazze panoramiche.
Davanti al monumento di Benvenuto Cellini, il più famoso orafo fiorentino, c’è Johnny.
Suona una melodia lenta.
I suoi uomini di musica sono tristi.
Cantano un addio a Firenze e l’Arno risponde.
Johnny gli sorride e allontana l’armonica dalla bocca con un piccolo inchino.
-Sono stato bene qui. Porterò Firenze nel cuore.-
-E di me, ti ricorderai?Un giorno, svegliandoti, non ricorderai nemmeno come si chiamava quel ragazzino sciocco che ti veniva dietro.-
Johnny si avvicina e gli bacia la fronte.
-Non mi dimenticherò mai di te.-


Lorenzo Barsalini si accorge che molti turisti lo guardano incuriositi.
Guardano un vecchio di settantasei anni che piange come faceva quel bimbo sessantuno anni prima, proprio davanti quel monumento.
Fissa la cancellata del monumento del Cellini che viene utilizzata dai turisti per appendervi dei lucchetti con scritte a pennarello, simbolo di un legame amoroso che si vuole indissolubile.
Apre la custodia dell’armonica e la fissa sorridendo, si passa una mano sul viso e si fa coraggio aprendo la lettera che Johnny gli ha lasciato.

“Gli anni sono passati ma io non mi sono dimenticato il tuo nome.
Regalami un altro pezzetto di Firenze, donami un soffio d’armonica sull’Arno.”

Due righe che lo costringono a portarsi una mano alla bocca.
Cammina piano e dalla terrazza panoramica guarda l’Arno, placido e appena increspato.
Nella sinistra stringe ancora la zolletta di zucchero.

Brilla come un sorriso cristallizzato e forte lo stringe nel palmo.
Tante volte si è detto di mangiarlo, ma non ci è mai riuscito.
In quei mesi lo ha conservato come fosse un tesoro.
Un cubetto di felicità.
Eppure la felicità non può avere dimensioni tanto equilibrate.
Nella felicità non può esserci tanta proporzione.
È qualcosa di eternamente disturbato, fosse anche da una vigliacca preghiera mai espressa.
“Portami con te”
Una preghiera muta, su labbra immobili morse a sangue.
Lorenzo guarda l’Arno che resta indifferente di fronte il dolore di chi, affacciandosi, si specchia nella sua acqua.
Avrebbe voluto pregarlo di portarlo con sé, sa che lo rimpiangerà tutta la vita.
“-Cos’è la canfora? Quello è zucchero.-“
Non dimenticherà quei due mirtilli, né la sua musica.
Ma il sorriso…
Quel sorriso è quasi sciolto nel sudore della sua mano.
La mano di un ragazzo che cerca di diventare un uomo.
La mano si apre e il sorriso cade nell’Arno.
Galleggia solo per un secondo prima di essere inghiottito dall’acqua, come le sue labbra per rispetto non hanno avuto il coraggio di fare.
È un sorriso che affoga dentro le lacrime, su un viso ancora senza barba.
Si scioglie.
Si disperde.
Un sorriso portato chissà dove.
Troppo lontano.
Un sorriso che affoga nell’Arno.


Sorridendo, Lorenzo Barsalini, volta il palmo e lascia cadere nel fiume anche quella zolletta di zucchero.
Accarezza l’armonica e vi soffia dentro, a caso, note che hanno un senso tutto particolare.
Non note d’addio come quel giorno, altre che sembrano dire: “Bentornato”.

 


Note:

(*1) Lanternino composto da un bicchiere di vetro, in cui veniva versato dell’olio. Si appallottolavano dei fili di lana, fino a formare un unico piccolo gomitolo, messo poi a galleggiare nell’olio. Infine gli si dava fuoco. Il tutto veniva poi coperto da un cappuccio in ferro battuto, con in cima un gancio per permettere di attaccarlo ad un chiodo.
(*2) A Firenze insieme agli americani arrivarono anche un gruppo di scozzesi. Lorenzo crede siano comunque la stessa cosa.
(*3) Senza soldi non si può fare granché.
(*4) Detto toscano.
(*5) Manifestazione che vanta una lunga tradizione: la prima edizione è infatti del 1933. Richiama a sé tutti gli appassionati di musica con opere liriche, concerti e balletti.
(*6) La cucina era il laboratorio in cui si stiravano e tingevano gli abiti o gli oggetti di sartoria.
(*7) Perdere tempo.
(*8) È il “Boy” che in inglese significa ragazzo.