Per Nausicaa, che l’ha salvata dalla distruzione e come sempre mi ha aiutato nella revisione.

Per Ria e per Calipso, che spero apprezzeranno il mio sforzo di fic romantica.

I personaggi non sono miei, etc etc.

Buona lettura!

 

L’Invincibile Armata - Acceptance

di Greta

 

Sono stanco, ma soddisfatto.

Guardo le mie mani arrossate e penso che comunque ne è valsa la pena.

Stasera sono rimasto in palestra fino a tardi per provare dei nuovi schemi, e alla fine sono riuscito a raggiungere la perfezione.

Del resto, di meno non mi sarei accontentato.

E adesso sto tornando a casa. Sorrido tra me e me, ‘casa’ è una bellissima parola, e per me ha acquistato il suo significato più bello da quando ho cominciato ad associarla a quell’uragano con cui divido la mia vita.

Con le mani in tasca e il viso affondato nella grossa sciarpa blu, cammino velocemente, sapendo che qualsiasi cosa troverò, una volta varcato il portone, sarà qualcosa di caldo e carico di affetto.

Hanamichi non è contento di questi miei allenamenti prolungati. Quando si accorge che non seguo gli altri nello spogliatoio, ma invece rimango in lunetta a provare i tiri liberi finché tutti non sono usciti, il suo sguardo si incupisce. Quante volte ha cercato di rubarmi il pallone, oppure di trascinarmi fuori della palestra, lamentandosi della poca attenzione che gli dedico, che CI dedico…

Ma sa anche lui che non è vero. E’ solo che ho questa passione, e non posso rinunciarvi, perché costituisce il punto fermo che mi ha sostenuto in tutti i momenti difficili della mia vita, la passione che mi ha difeso anche da me stesso.

Certe cose non posso dirle ad Hanamichi. Conoscendo il suo carattere, e quello che pensa di ‘noi’, sosterrebbe che non devo aver bisogno di niente, che ci sarà sempre lui accanto a me, pronto a proteggermi da tutto e da tutti… già, il mio tensai personale!

Ma io non posso rinunciare alla cosa che, ormai, è diventata parte di me: inizialmente il basket era uno svago, poi è diventato una passione, e ora è il modo che ho per realizzare i miei sogni, i miei e quelli di Hanamichi. E forse, anche se qualche psicologo da strapazzo potrebbe dire che è una debolezza, questo sport e la mia abilità come giocatore sono il mio paracadute, la sicurezza che, qualsiasi cosa possa accadermi, loro non potranno mai essermi sottratti. Pensate che la scimmia rossa possa accettare un discorso del genere? Beh, non lo conoscete. Lui non vuole rivali, anche se non ha ragione di temerne, vuole essere il mio solo contatto con il mondo, il mio mondo, e prenderebbe come una offesa personale sapere che io ho bisogno di un’assicurazione.

Infilo la chiave nel portone. La luce filtra dalle finestre, e sorrido pensando che lui è già arrivato, e del benvenuto che mi darà entrando.

All’inizio, io, noto come la persona che odiava essere anche solo sfiorata, pensavo di non riuscire ad abituarmi al bisogno di contatto fisico che ha il do’aho, ma alla fine mi sono reso conto che non è per niente spiacevole stare nella sua stretta calda, sentire la sua possessività attraverso i gesti, gli abbracci, i baci, i sorrisi.

E così sono diventato più espansivo, più affettuoso. A volte mi stupisco ripensando a come mi comporto in alcune circostanze, a come cominci pericolosamente ad assomigliare ad un gatto fuseggiante. Eppure per Hana è sempre poco, spesso mi chiama ancora volpe algida. Sì, spesso, ma ci sono alcuni momenti in cui anche lui capisce che non è la definizione più adatta.

Entro in casa. Dopo il freddo dell’esterno, mi sembra che questo calore sia già un primo abbraccio.

Mi tolgo la giacca pesante, lascio la borsa degli allenamenti, e comincio a guardarmi intorno.

Le luci sono accese, ma stranamente il do’aho non è nei paraggi.

Entro in cucina: niente neanche qui. Nel soggiorno ci sono già stato… Seguendo la scia delle lampade, salgo al piano di sopra. Sono sicuro di trovarlo nella nostra stanza, magari si è addormentato, anche se la cosa si adatterebbe di più a me, oppure sta leggendo con le cuffie a tutto volume… e invece niente.

Mi prende una strana agitazione.

Non rimane che la porta chiusa del bagno.

Mi avvicino. La luce filtra da sotto, e finalmente sento dei rumori, e poi la voce di Hanamichi, anche se in verità sono più versi che parole…

Busso deciso.

Un rumore di qualcosa che è caduto, poi un ‘ahio’ e un improperio.

Busso di nuovo:

"Hana, sono io, che succede?!"

Silenzio, un leggero lamento, poi la sua voce incerta:

"Esco subito, un secondo!"

Un nuovo lamento, e stavolta mi è chiaro che è di dolore.

"Do’aho! Fammi entrare" gli ordino.

"Esco subito…" ribatte lui, continuando a far cadere le cose.

Mi sto arrabbiando e agitando. Cosa diavolo sta facendo chiuso là dentro?

"Scimmia, apri subito questa porta o la sfondo!" lo minaccio.

Sento la chiave girare nella serratura, e la porta socchiudersi. Aspetto che sia lui ad aprire, e fortunatamente sono appoggiato allo stipite, perché lo spettacolo che mi si presenta non è certamente qualcosa di piacevole.

"Che diavolo hai combinato?!" non riesco a trattenermi, vedendolo in boxer e t-shirt, le ginocchia insanguinate, così come i gomiti, le mani… per non parlare del viso!

Lui ha un’espressione colpevole: abbassa lo sguardo e borbotta qualcosa che non capisco.

A terra, il pavimento è disseminato di garze, bende, disinfettanti, pomate… anche le forbici.

Mi avvicino, guardando meglio i tagli sotto la luce. Poi gli faccio cenno di sedersi sullo sgabello, senza aggiungere altre parole.

Mi inginocchio accanto a lui, e comincio a medicarlo ferita per ferita, disinfettando, pulendo dalla terra, massaggiando, coprendo con garze sterili.

Alla fine, il mio do’aho somiglia più ad una mummia che a un essere umano in carne ed ossa, ma almeno abbiamo sventato il pericolo di infezioni.

In tutto questo tempo, non ho pronunciato una parola. Lui ha cercato spesso di catturare il mio sguardo, come se volesse capire quanto sono arrabbiato con lui. Eppure io non lo sono, sono solo dispiaciuto, perché so che queste ferite non possono che essere la conseguenza di una rissa.

Ogni tanto, quando il disinfettante penetra nei tagli, noto la sua smorfia di dolore, ma per il resto mantiene quell’aria mansueta che dovrebbe intenerirmi.

Mi alzo, rimettendo tutto nella cassetta del pronto soccorso. Lo aiuto ad infilarsi il pigiama, e poi lo sostengo mentre scendiamo le scale.

Preparo la cena in silenzio, e sempre senza parole, mangiamo.

Vorrei trovare qualcosa da dire. Non voglio che lui pensi che sia arrabbiato, e poi mi fa pena vedere come cerchi di sforzarsi di usare le bacchette da solo, sebbene il braccio gli faccia male.

Lascio stare il mio piatto, e mi siedo accanto a lui, imboccandolo.

Lui sembra vergognoso, come se quello che sta subendo fosse più adatto ad un bambino che a un tensai… poi, all’improvviso, si sporge su di me, e mi deposita un bacio sulla guancia.

"Non pensare di intenerirmi" sibilo, pur non volendo respingerlo.

Lui mi appoggia la fronte sui capelli, sollevando un braccio per accarezzarmi. Ma le ferite gli strappano una smorfia di dolore. Sono io, allora, ad abbracciarlo stretto, perché so che quello che è successo non è qualcosa fatto ‘contro’ di me, ma è qualcosa che fa parte di lui.

Mi lascio andare a questo moto di affetto per appena qualche secondo, poi comincio a riordinare la stanza, posandogli una mano sulla spalla per fargli capire che non deve neanche pensare di alzarsi.

Quando è di nuovo tutto a posto, sempre muovendomi seguito dai suoi occhi, mi riavvicino a lui, lo aiuto a tirarsi in piedi, e lo guido fino al divano. Ci sediamo vicini, ma presto lui si gira, sdraiandosi completamente e appoggiandomi la testa in grembo.

Porto il mio sguardo nel suo, come a dargli finalmente l’autorizzazione a parlare.

"Oggi sono uscito con Yohei e gli altri…" mi dice, catturandomi le mani nelle sue e accarezzandomele quasi volesse calmarmi "Siamo andati in sala giochi, come al solito. Niente di particolare, Takamiya ha mangiato come un maiale, io e Mito abbiamo sfidato Noma e Okuso al biliardo, poi siamo usciti".

Rimane qualche istante in silenzio, ma io non dico niente. Deve essere lui a spiegarmi quei lividi, quella continua necessità di menare le mani, di ricorrere alla violenza.

So bene quanto sia facile provocare un ragazzo di diciassette anni, anche io ho spesso fatto a pugni, ma per Hanamichi è qualcosa di diverso. Lui è a capo di una banda, e non mi piace il mondo che gira intorno alle bande di quartiere della città. E’ qualcosa di non solo rischioso, è qualcosa che può portare più lontano di quanto non si voglia, magari ad essere reclutati, oppure a scontrarsi, con capi Yakuza in cerca di nuove leve.

"Stavamo attraversando il parco quando abbiamo deciso di fare un giro nel vecchio quartiere… il mio quartiere".

Qualcosa mi si stringe nel petto: è un anno e mezzo che Hanamichi vive con me, a casa mia. Questo è il mio quartiere, non il suo, questa è una zona ricca, piena di ville e giardini, donne che portano a spasso il cane, e bambini ben vestiti che vengono accompagnati in scuole prestigiose da fiammanti automobili. Non ho mai voluto pensare a come potesse muoversi in un posto del genere: era il mio quartiere, doveva diventare il suo. Percepire la sua nostalgia per il mondo in cui viveva prima mi fa sentire colpevole, come se in qualche modo io abbia agito con egoismo, fidandomi del suo sorriso, del suo cercare di prevenire ogni mio desiderio.

Lascio una mano tra le sue, ma libero l’altra e comincio a passargliela tra i capelli morbidi.

Lui alza gli occhi stupito, come se non si aspettasse questo mio gesto di affetto. Io gli sorrido, e lui fa altrettanto, anche se non so se abbia capito davvero il senso del mio gesto. Si gira leggermente, avvolgendomi le braccia intorno alla vita, e spingendo la fronte contro il mio petto.

"Mi ha fatto impressione ripercorrere quelle strade. E’ strano perché, dopo averci passato tanti anni, adesso me ne sento estraneo, come se quei luoghi appartenessero ad un’altra vita" mormora piano, il tono serio, lontano da quello scherzoso che utilizza quando parla di sé in terza persona, definendosi il tensai.

"Ti dispiace non vivere più lì?" riesco a chiedergli, vincendo la paura delle parole.

Lui scuote la testa, continuando ad abbracciarmi:

"Non riesco a vedermi in nessun altro posto che con te, kitsune. Non è il luogo ad essere importante, siamo noi…"

Le mie mani si fermano, appoggiate sul suo collo.

Lui solleva la testa, e mi guarda con una luce scherzosa negli occhi:

"Ancora una volta il grande romanticismo del Tensai ti ha lasciato senza parole, eh?" e ride riappoggiandosi a me.

Anch’io sorrido, scuotendo la testa per non dargli soddisfazione. Sì, il mio tensai mi ha stupito ancora, proprio per la sua capacità di dire delle cose bellissime ed inaspettate come se fossero le più banali del mondo.

Io non ho la sua stessa bravura con le parole, fortunatamente non parlo neanche a sproposito come lui fa spesso, però ogni tanto mi piacerebbe non doverlo sempre obbligare ad interpretare le mie espressioni, i miei silenzi. Mi piacerebbe che anche lui sentisse quelle parole che tutti gli innamorati vorrebbero sentirsi dire.

"Quei posti mi hanno fatto un po’ di tristezza" riprende, stringendosi forte contro il mio petto, incurante delle ferite che devono fargli male sfregando contro i miei vestiti "La mia vita era diversa, allora. Non era peggiore, ma mancava qualcosa di chiaro per cui combattere. Intendo un obiettivo, una persona…" si interrompe.

Rimaniamo in silenzio. Nel camino acceso, un tronco ormai quasi completamente consumato cade, crepitando e lanciando nell’aria una cascata di scintille.

"Sai Kaede, mentre camminavamo davanti ai cantieri aperti, a quelle case così poco appariscenti, quasi dimesse, io non facevo che pensare a te, e a quando non stavamo insieme…"

Le mie mani si fermano, non ho bisogno di avvicinarmele al viso per sapere che le dita sono gelate.

"E ho capito che per tutti quegli anni ho vissuto con un vuoto dentro."

So che a lui non piace parlarne, ma ho capito benissimo che immagine ha davanti agli occhi in questo momento. Hanamichi ha vissuto un dolore che anch’io conosco: pur non essendo possibile fare graduatorie sui sentimenti, so che la sua esperienza è stata ancora più orribile della mia. Abbiamo entrambi perso una persona che amavamo molto, ma a lui sono rimasti per tanti anni i sensi di colpa per non essere potuto intervenire per aiutare il padre in fin di vita, ma ancora vivo.

"Poi sei arrivato tu, e hai colmato ogni vuoto, mi hai dato tutto, e hai accettato tutto quello che avevo da darti." Si interrompe per un attimo, poi riprende a parlare, guardandomi con le guance arrossate: "So di non essere una persona facile con cui vivere, sono possessivo, geloso, disordinato, presuntuoso…"

Provo a farlo tacere posandogli un dito sulle labbra, ma lui mi cattura la mano accarezzandomela dolcemente, e continua a parlare:

"Tu mi hai accettato, pregi e difetti… più di una volta mi sono domandato perché, visto che potresti avere chiunque…"

Scuoto la testa: voglio dirgli che sono io ad aver avuto tutto quello che desidero, che non c’è nessuno che possa darmi la stessa felicità, ma Hanamichi sembra un fiume in piena, inarrestabile.

"Sai qual era il mio unico desiderio fino a quando ci siamo incontrati?" mi chiede.

E io gli rispondo sorridendo e provando a prenderlo in giro:

"Trovarti una ragazza sciocca ma carina che ti ripetesse in adorazione che sei un tensai?"

Lui mi fa una boccaccia, ridendo e sfiorandomi la guancia con la mano, poi torna serio:

"No, volevo vendicarmi per quello che era successo a mio padre, volevo vendicarmi di quelle persone che mi avevano impedito di… aiutarlo".

Chiude gli occhi, stringendomi le braccia intorno alla vita.

"Li hai più rivisti?" mormoro piano. Non sono sicuro di aver fatto la domanda giusta.

Lui rimane qualche istante in silenzio, prima di rispondere:

"Uno sì, ma non era il capo, era uno dei due che mi bloccavano la strada…".

"Lo avete picchiato?" gli chiedo.

Lui annuisce, ma non sembra volermi dare particolari. Poi riprende vivacità:

"Poco dopo ho incontrato un tipo, sul terrazzo della mia scuola… e il grande tensai ha capito che non era la vendetta quella che avrebbe dato un senso alla sua vita" e sorride, stringendo il suo abbraccio.

Sorrido anch’io, un sorriso quasi impercettibile. Anche la mia vita è cambiata su quella terrazza, ma allora non me ne ero accorto.

"Mi stavi raccontando di oggi pomeriggio…" lo riporto al racconto originale.

"Già, siamo tornati nel vecchio quartiere, e stavo ripensando a come fosse cambiato tutto, a come mi sentissi estraneo non solo a quelle vie, ma ai sentimenti che provavo allora…"

"E chi avete incontrato?" gli chiedo.

"Stavamo camminando quando abbiamo visto, in un piccolo giardino pubblico, un bambino che giocava con un cane. Sai, quello non è un quartiere in cui si vedano spesso scene simili. L’animo duro e puro del tensai si è commosso davanti a questo spettacolo…"

Sorrido, ma stavolta solo tra me e me. Il mio do’aho ha una dolcezza e una affettuosità sorprendenti.

"Beh, con Yohei stavamo chiacchierando di quando andavamo noi a giocare in quel parco, quando sono sbucati tre tipi che hanno cominciato a prendere in giro il ragazzino, dicendogli di portarsi via quel cane sporco e pieno di pulci… Poiché il bambino si opponeva, hanno cominciato a spintonarlo, prima piano, poi sempre più forte. Quando il ragazzino è finito a terra, hanno preso a tirare sassate al cane…"

La sua voce è sempre più tesa, come se la rabbia stesse salendo insieme al racconto.

Del resto, credo che neanche io sarei rimasto indifferente di fronte ad uno spettacolo del genere.

"Insomma, non ci ho visto più… all’inizio siamo andati solo io e Yohei, poi si sono uniti anche gli altri e…" si interrompe, guardandosi le braccia piene di cerotti "…il resto lo vedi anche tu!"

Io non rispondo nulla, non riempio quel silenzio che è sceso dopo le sue parole.

"Sei molto arrabbiato, Ru?" mi chiede, sfoderando quel tono da bambino di sei anni che utilizza sempre quando vuole farmi sbollire un’arrabbiatura.

Io mi rilasso contro lo schienale del divano, e ricomincio ad accarezzargli i capelli, muovendo piano i polpastrelli sulla sua pelle, dorata anche nel pieno dell’inverno.

Scuoto la testa, vedendo che mi guarda stupito:

"Sono preoccupato… penso sia normale" ribatto, sperando che la smetta di osservarmi come se fossi una bestia rara.

Lui si solleva, appoggiandosi sul gomito ferito e trattenendo la smorfia di dolore.

E poi… l’inevitabile.

"LA MIA VOLPACCIA E’ PREOCCUPATAAAA!!!!!!" mi urla nell’orecchio.

Ecco, ora sapete perché evito sempre di dirgli cose affettuose… questa è la sua reazione standard.

Non faccio in tempo a pensare altro, che lui mi avvolge completamente, cominciando a divorarmi il viso con baci appassionati.

"Do’aho, piantala!!" cerco di riportarlo all’ordine, ma non ci riesco che dopo un buon quarto d’ora.

Lui continua a guardarmi con occhi ridenti. Poi, riappoggiandosi sulle mie gambe, solleva la mano per accarezzarmi i capelli:

"Non devi essere preoccupato per me. Il tensai è il più forte di tutti!" lo dice scherzando, ma io leggo bene la serietà di quello che mi sta dicendo.

Scuoto la testa, mi chino su di lui e stavolta sono io a depositargli un bacio leggero sulla fronte:

"Non mi piace tornare e trovarti così…" gli dico piano.

"BWAHAHAHAH!!! Il tensai non si fa certo spaventare da quattro stupidi teppisti!!! Io e la mia banda siamo i paladini di Kanagawa: BAMBINI, DONNE, CANI E GATTI… il Tensai è il vostro protettore!!!" declama battendosi la mano sul petto.

Devo ammettere che mi viene da ridere, ma non lo faccio, perché le mie paure sono ancora tutte lì.

"Non mi piace che ti picchi per strada con i peggiori teppisti della città. Non mi piacciono gli ospedali…" stavolta il mio è quasi un sussurro, forse perché lo sto spiegando a me stesso, più che a lui.

No, non mi piacciono gli ospedali. Ne ho visto uno quando avevo sei anni, non voglio tornarci.

Lui mi stringe una mano tra le sue. Una cosa che mi ha sempre colpito è il calore della sua pelle, anche con le temperature più gelide le sue mani sono sempre bollenti.

"Kaede, io non esco con l’intento di fare a botte, ma non riesco a trattenermi, quando vedo…" si interrompe, chiudendo gli occhi. So che non gli piace ammettere che odia le ingiustizie, che vuole punire quei teppisti di quartiere che non si rendono conto di quanto terrore possano incutere nelle persone più deboli.

Hanamichi è buono e generoso, ma preferisce nascondersi sotto una maschera di bulletto di strada.

E io non posso che accettarlo, anche se credo che ci siano molti altri modi per sfogare la sua preoccupazione per gli altri.

A volte vorrei che ognuno di noi due fosse arrivato per l’altro prima di ogni altra cosa, e invece l’armata è arrivata prima di me, e in qualche modo il basket è arrivato prima di lui: devo accettare il fatto che lui amerà sempre girare per le strade della città, a capo della sua gang arrangiata, pronto a menar le mani per proteggere le persone che hanno bisogno di un fratello più grande, di un amico, di qualcuno che anche per soli pochi istanti possa farli sentire sicuri. Devo accettare che dovrò condividerlo, che dovrò accogliere questo aspetto della sua vita come tutto quello che lui ha portato con sé, che è un tratto del suo carattere. Ogni tanto tornerò a casa e mi spaventerò trovandolo pieno di tagli… ogni tanto qualcuno verrà a provocarlo in palestra, ogni tanto i suoi tagli saranno dovuti anche a me, alla sua incontenibile gelosia, ogni tanto avrà anche torto, ma qualsiasi cosa debba succedere, io sarò sempre al suo fianco, come lui è sempre stato al mio nonostante non capisca fino in fondo la mia passione per il basket.

"Ti amo…" gli sussurro.

Lui si solleva, prendendomi il viso tra le mani, cercando di catturare il mio sguardo, che io tento invece di celargli:

"E’ la prima volta che me lo dici…" mormora, e la sua voce è rotta dall’emozione.

Lo so bene, eppure è tanto che ho capito di amarlo. Ma rimane questa mia strana difficoltà a dare un nome ai miei sentimenti, ad esprimerli a voce alta.

Mi mette le mani sulle spalle, attirandomi a sé, senza darmi possibilità di fuga. Colma gli ultimi centimetri, sforzando la schiena dolorante:

"Ti amo tantissimo, Kaede…" mi dice, appena prima di toccare le mie labbra.

E’ un bacio lungo e tenero, che ci lascia con gli occhi incatenati… entrambi, sì, anch’io, con un sorriso dolce. Poi ci abbracciamo di nuovo, e io mi sento ancora una volta al sicuro sentendo la sua stretta robusta. Rimaniamo in silenzio, ed è un silenzio che urla le nostre emozioni, la forza di quello che proviamo l’uno per l’altro, è un silenzio che ci ripete e ci fa accettare quello che ci siamo appena detti, il nostro nuovo passo verso la completa accettazione e comprensione l’uno dell’altro.

"Suonami qualcosa…" mi sussurra improvvisamente, continuando ad accarezzarmi la schiena.

La sua richiesta mi sorprende. Non suono mai quando c’è Hanamichi, ma ho scoperto che più di una volta lui è rimasto ad ascoltarmi, senza palesare la propria presenza.

Mi alzo piano, aiutandolo poi a riappoggiarsi sui cuscini.

Mi siedo davanti alla tastiera, senza chiedergli cosa preferisca: voglio stupirlo, suonando quello che gli piace come se fosse una prova del fatto che, nonostante le apparenze, io sono attento a qualsiasi cosa lo riguardi.

Comincio a suonare il concerto N.3 di Rachmaninoff. Presto mi lascio catturare dalle note, come sempre quando mi abbandono alla musica.

Sono completamente perso nella foga della mia interpretazione, quando sussulto per il ritrovarmi le braccia di Hanamichi strette intorno alle spalle…

Continuo a suonare, ma stavolta senza isolarmi, suonando solo per il mio do’aho.

Lui sovrappone le sue mani alle mie, che corrono ancora sulla tastiera, poi intreccia le nostre dita, come se volesse che io lo guidassi anche in quel mondo che sembra trascinarmi lontano da lui, quel mondo solo mio.

Mi interrompo.

"Non dovevi alzarti…" gli dico senza voltarmi, non riuscendo però ad esibire il tono di rimprovero che vorrei.

"Non riesco a stare lontano da te…" lo dice scherzando, ma stringe il suo abbraccio, appoggiando la fronte sulla mia nuca.

Mi giro verso di lui, e gli sorrido. Poi mi alzo, gli passo un braccio intorno alla vita, sostenendolo.

"Dove mi porti… il mio volpino artico si sta riscaldando?" mi chiede sorridendo malizioso.

"Mph!" sbuffo, senza dargli retta e guidandolo verso la nostra camera.

Lo aiuto a stendersi sul letto, poi mi infilo anch’io sotto le coperte.

Lui cerca di avvicinarsi, trattenendo i lamenti per il dolore, ma sono io ad appoggiarmi a lui, a posare la mia testa sulla sua spalla e ad allungare il braccio sul suo torace:

"Dormiamo Hana…" gli bisbiglio, sollevando le dita per giocare con i suoi capelli corti.

Lui riesce ad avvolgere il braccio intorno alla mia schiena.

"Mi piace quando sei affettuoso come un gattino…"

Mi sembra di vederlo, nonostante il buio, quel suo sorriso soddisfatto…

Anch’io sorrido, ma entrambi sappiamo che non gliela darò mai vinta:

"Non ti ci abituare, do’aho!" gli sibilo con forzata freddezza.

Ma lui sogghigna e mi stringe ancora di più a sé.

L’Invincibile Armata – The End