Homo Homini Lupus

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CAP: 8/8

SERIE: X-Men

RATING: RPG

NOTE: i personaggi non sono miei, li amo, ma non ci guadagno nulla a scriverli! Appartengono tutti ai loro legittimi autori

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Silenzio.

 

Gabrielle dormiva, sedata, in quella che era stata la loro stanza. Il palcoscenico di una finzione.

 

Charles si fissava le mani piene di una tazza bianca. Di ceramica. Il contrasto con il colore del caffè era affascinante.

 

Non aveva altro da guardare. Non voleva, in effetti, vedere nulla.

 

Non voleva sapere.

 

Non voleva ricordare.

 

Solo il ticchettio monotono spezzava l'aria immobile della notte. Nonostante il freddo la finestra era spalancata.

 

Il freddo, però, andava bene: mordeva la carne, s'infilava nelle ossa. Faceva male.

 

Era una benedizione.

 

Era vivo, se soffriva.

 

Vivo.

 

La porta si aprì alle sue spalle.

 

La sofferenza straripò come un fiume che avesse rotto gli argini.

 

Charles affondò il capo fra le mani.

 

"Li hai uccisi!"

 

"Mi auguro di sì."

 

Erich si sedette sulla sedia di fronte a lui.

 

Charles non riusciva a sollevare lo sguardo. Avrebbe voluto parlargli, chiedergli spiegazioni.

 

Ma sapeva che sarebbe stato perfettamente inutile.

 

Peggio: pericoloso.

 

Erich gli avrebbe risposto quel che Charles non era pronto ad udire.

 

Che non voleva.

 

"Cacciatore." Sussurrò.

 

Percepì un annuire distratto. Avrebbe voluto dire 'assassino' ed Erich lo sapeva: ma per lui non faceva differenza.

 

Charles balzò in piedi.

 

"Per dio, ma non provi niente!?"

 

Lo sguardo piantato negli occhi. La rabbia che raramente aveva provato, a velargli la mente.

 

La sedia colpì rumorosamente il pavimento.

 

Erich sembrava fatto di ghiaccio.

 

"Rabbia per non averli trovati prima. Per non aver impedito che prendessero Gabrielle. Per averti messo in mezzo."

 

Rabbia.

 

Il fiato gli mancò, la gola si strinse in un nodo doloroso. Erich si limitava a fissarlo, seduto, neppure un po' colpito, o dubbioso. Di sicuro non sfiorato da un minimo senso di rimorso.

 

Charles picchiò i pugni sul tavolo.

 

"Non lo sopporto!"

 

Charles non riusciva a capirlo.

 

Charles non poteva odiarlo.

 

Erich sospirò.

 

"Sarebbe meglio se tu te ne andassi."

 

Gli si mise in piedi, di fronte.

 

"Dove?"

 

"Dove vuoi. Per domani mattina avrai un volo, qualunque sia la tua meta. I miei referenti saranno disposti anche a requisire una flotta intera, purché tu te ne vada."

 

La sua mente vagò in tondo per un lungo istante, resa quasi cieca e sorda da ciò che il suo cuore provava.

 

Si appigliò a una stranezza sintattica. Ad una parola utilizzata in maniera inusuale in quel contesto: referenti.

 

Referenti, non superiori, come era ovvio credere che fossero.

 

"Un cacciatore lavora sempre solo?"

 

Stupore nel mutare inaspettato dell'argomento.

 

"Io lo faccio."

 

"Perché?"

 

"Sono diverso da loro."

 

Il tono pragmatico e leggero di chi abbia affermato un'enorme banalità.

 

Diverso da loro. Loro: non 'voi'.

 

Loro due erano uguali. Loro due erano un 'noi'.

 

Charles chiuse gli occhi.

 

"Siediti ti prego."

 

Erich sorrise, mentre Charles si chinava a raccogliere la sedia.

 

"Non te ne andrai."

 

"Parliamo."

 

Charles quasi rise.

 

Erich fece quello che gli era stato domandato: si sedette. Ma non parlò.

 

Non avevano, in realtà, nulla da dirsi. Nulla che potesse essere detto. Nulla che non sapessero di già.

 

Erich sapeva benissimo che per Charles la vendetta non era una strada proficua da percorrere, perché il sangue, per lui, portava solo altro sangue e non lavava nessun torto passato.

 

Charles era consapevole che la fiducia non aveva posto nel cuore di Erich, e che non sarebbe servito tutto il suo amore e la sua dedizione per far germogliare quel seme, se anch'egli non avesse voluto.

 

Si guardavano. Si sapevano. E non potevano che tacere immobili uno di fronte all'altro, come se fossero di fronte, entrambi, alla propria nemesi perfetta. Una parte della loro stessa anima che non avrebbero mai potuto possedere.

 

Charles chinò il capo.

 

Solo il silenzio sembrava adeguato, perché solo in esso avrebbero potuto evitare di dirsi di no.

 

Un sorriso alieno fiorì, inaspettato, sopra di loro.

 

Gabrielle li fissava dalla soglia: vestita. Pronta. Lo sguardo era fermo, consapevole.

 

Maturo.

 

"Non c'è posto per me, qui."

 

Quando lei si voltò, Charles fu sul punto di fermarla con ovvie, esatte obiezioni mediche ma bastò un cenno di Erich per sigillargli le labbra.

 

L'altro si alzò, seguendola.

 

Li sentì parlare pacati, a bassa voce, dietro la porta socchiusa, ma non si obbligò a comprendere cosa si dicessero. Non aveva importanza.

 

Gabrielle aveva ragione: non c'era più posto per lei, tra di loro. Probabilmente non c'era mai stato.

 

Charles si posò una mano sugli occhi.

 

La voce di Erich si fermò in quello che sembrava un saluto, una specie di benedizione, o un augurio, e dei passi leggeri si allontanarono.

 

Di nuovo il silenzio.

 

Il suo ritornare.

 

La porta a chiudersi, finalmente, in maniera definitiva.

 

La presenza di Erich a riempire tutta la stanza. E l'intero universo di Charles.

 

Sollevò lo sguardo sentendosi scioccamente sorridere.

 

Ma di fronte ebbe il vuoto: nello sguardo, nell'espressione.

 

Il vetro spesso di due bicchieri picchiò sul tavolo. Erich si riempì il proprio e lo svuotò in un sorso.

 

"Che fai?!"

 

"Bevo. - pacato. Tranquillo. Come se non fosse successo nulla, come se non ci fosse quell'odore di morte tra di loro. E il ricordo. - Ne vuoi?"

 

Charles negò col capo, irritato, quando Erich evitò il suo sguardo.

 

"Quello a cui hai assistito è pericoloso, Charles. Gabrielle è ben più saggia di te."

 

Avrebbe voluto rispondere in maniera asciutta, sferzante. Non poté.

 

"Non è rimasto più nessuno che possa riconoscermi."

 

"No. Ma la conoscenza sa tendere ottimi tranelli."

 

Era il suo modo di mostrarsi preoccupato.

 

"La so gestire."

 

La voce di Charles tremava, ma Erich non infierì.

 

Alla fine del terzo bicchiere Charles gli fermò la mano.

 

"Basta! Ti fa male!"

 

Erich cercò di ribattere, ma Charles non gli diede il tempo di farlo, perché lui era un medico e certe cose le sapeva, e doveva dargli retta.

 

Erich quasi sorrise: Charles non sapeva nulla. Eppure era lì a dare ordini.

 

A lui.

 

Lo fissò: c'era, tra di loro, netta, la forza di guardarsi negli occhi, ma non quella di domandarsi qualcosa o di dirsi altro oltre quell'insostenibile silenzio. E insieme sapere che non poteva esserci molto altro oltre a quello.

 

Erich sapeva che le parole servivano a costruire orizzonti di senso, mentre per lui non esisteva nulla del genere. Non esisteva più.

 

Forse non era mai esistito.

 

Erich non sapeva che farsene delle parole, di quelle che Charles gli aveva detto, di quelle che gli stava per dire, o che avrebbe voluto. Il mondo di Erich da anni era senza parole, senza voce.

 

Solo il suono indistinto delle fiamme che lambiscono il mondo e disgregano il suo tessuto razionale, che rendono tutto cenere. Solo il rumore incessante del dolore, della vita che viene macinata, istante dopo istante, e che combatte.

 

Combattimento, sì. Guerra, dolore fatica.

 

Vita.

 

Vita che è lotta per vivere.

 

Erich aveva imparato negli anni, a portare avanti quella guerra. Charles, invece, sembrava non saperne nulla, come se anche lui non fosse stato parte di quello stesso mondo.

 

Erich si trovò a fissarlo, e, stupito, a riconoscere che no, Charles non viveva il suo stesso mondo.

 

Per quello cercava parole per riempire il silenzio tra di loro.

 

Se lo avesse saputo si sarebbe limitato a guardarlo.

 

Se lo avesse saputo si sarebbe posato una mano sugli occhi e avrebbe sperato di non aprirli mai più.

 

Erich avrebbe preferito che Charles non gli avesse parlato, che non lo stesse guardando.

 

Avrebbe voluto il silenzio vuoto e solitario che di solito lo circondava dopo le missioni: un letto, e il sonno profondo e assurdo creato dalla spossatezza ultraterrena che gli scava solchi, nell'anima.

 

Quel sonno benedetto e senza sogni che lo coglieva solo dopo aver respirato la  morte.

 

Charles, invece, testardo, parlava.

 

E domandava.

 

Curioso: voleva sapere, pretendeva spiegazioni. Forse pure un atto di contrizione. Forse.. forse qualcosa che neppure Charles stesso conosceva.

 

Erich non aveva nulla da dare, né da spiegare.

 

Erich non conosceva le parole, non ricordava neppure il loro suono.

 

Erich sapeva che era sempre stato così: da quando riusciva a ricordare. La morte era silenzio, e il rombo del fuoco che consuma, era l'odore dolciastro e ributtante che scende dal cielo come una pioggia sottile di cenere trasportata dal vento. Era la mente vuota, opaca, affogata in fumi liquorosi che vanno benedetti perché, solo quelli, permettevano di aprire gli occhi, giorno dopo giorno, e di far seguire un respiro ad un altro.

 

E Charles a dirgli di no: di non bere. Che fa male.

 

Se Erich avesse avuto la forza avrebbe riso. Non aveva mai sentito una sciocchezza più grande di quella.

 

Ma non rise.

 

Lo fissò e si sentì perduto. Per un istante.

 

Erich non sapeva il motivo, ma sapeva bene che era stato Charles.

 

Sarebbe stato meglio convincerlo a partire.