Homo Homini lupus
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CAP: 4/8
SERIE: X-Men
RATING: RPG
NOTE: i
personaggi non sono miei, li amo, ma non ci guadagno nulla a scriverli!
Appartengono tutti ai loro legittimi autori
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Un
appartamento semplice. Probabilmente identico a mille altri.
La
porta d'ingresso si apriva su una stanza chiara quasi vuota, che ruotava
intorno ad un tavolo e quattro sedie. Poco più in là un
divano messo di sbieco verso un apparecchio televisivo.
Era
facile immaginare che lì dentro non ci vivessero donne: nessun soprammobile,
neppure il minimo oggetto inutile, né quadri. Solo il candore immacolato delle
pareti dipinte di fresco. E un calendario striminzito.
'La
camera libera è di là. - Erich aveva indicato una delle due porte affiancate
sulla destra - E' una matrimoniale, in effetti, ma sull'affitto potremmo
accordarci. In fondo sei uno dei pochi coinquilini che mi vadano a genio.'
Charles,
stupendosi da solo, aveva faticato un poco ad udire al di
sopra del rombo tumultuoso del suo cuore. Si rifiutò di domandarsi il
motivo.
'E la tua?'
'Dall'altra parte.'
Una
porta. Esattamente come le altre.
Una
lieve ombra di fastidio nell'indicarla come se, sotteso, vi fosse l'implicito avvertimento
di non entrarci senza un permesso più che esplicito.
Curioso:
la durezza aspra di Erich fioriva sempre in frangenti
che Charles considerava perfettamente innocui.
Era
tutto come si aspettava che fosse: una casa piccola, spoglia. Un po' triste
anche se chiara. E piena di luce.
Assolutamente
invasa dalla luce.
Il
pomeriggio successivo l'aveva trascorso a trasferirsi lì, e a sistemare le sue
cose.
Charles
non era abituato a nulla del genere: pensava alla sua casa bianca, con le
colonne all'ingresso, lo scalone di rappresentanza e il parco nel verde delle
colline di Salem Centre. Pensava all'appartamento in
cui aveva vissuto al Campus. Alla villa che sua madre
affittava quando, in primavera, si trasferiva in Florida. Pensava alle
feste a cui aveva partecipato, a tutte le case che aveva frequentato.
Pensava
a quello, guardandosi intorno, e una parte di lui gli
diceva che avrebbe dovuto sentirsi smarrito.
Era
solo: Erich era uscito per il suo turno in ospedale, e il silenzio a circondarlo
sembrava quasi vivo. Tutto quello che aveva dovuto guardare era stato veduto, e
da fare non gli rimaneva altro.
Eppure non
riusciva a smettere di sorridere. Gli era ritornato in mente, chiaramente,
quando era bambino e sua madre gl'insegnava a dar retta
al proprio istinto perché a volte esso può farci vedere più lontano dei nostri
poveri occhi.
'A
volte il nostro Angelo Custode ci sussurra pezzi di verità, sta a noi
accoglierla.'
Ora:
laico, medico affermato, ricordava quella storiella per bambini e sorrideva,
come se non avesse mai potuto compiere un'azione più sbagliata che non
crederle.
Che
stupidaggine!
Sospirò
sedendosi sul divano, e stupendosi un poco nel non trovarlo così scomodo, come
s'era aspettato.
Aveva cose
più serie di cui preoccuparsi, a cui pensare, ora. Il suo lavoro. I suoi
pazienti.
Gabrielle.
Gabrielle
Haller era la sua paziente. Il dottor Shomron l'aveva
chiamato dagli USA principalmente per lei, e per lei
s'era esposto in una maniera irragionevole fin dal primo giorno in cui era
stato lì.
Gabrielle
aveva quasi trent'anni, appena poco più giovane di
lui, e si comportava come una bambina. Il trauma, lo stress, probabilmente.
E
perdutamente infatuata di lui.
Una
ragazzina: educata, graziosa, sorridente, dolce. Arrossiva per nulla ed era
adorabile osservare come si stupiva del corpo in cui si era svegliata,
maturo, morbido e molto lontano da quello acerbo che ricordava. La terapia
sarebbe stata faticosa, lo sapeva, ma non era un problema: a tutti già pareva
un grosso miracolo che fosse sveglia.
Il
resto si sarebbe potuto sistemare.
Riusciva
addirittura a ridere!
Gabrielle
era il suo personale miracolo.
Charles
doveva ammettere che, tramite lei, aveva imparato
molto: per esempio ora sapeva per certo che i pazienti in stato catatonico
riuscivano comunque a percepire quello che accadeva intorno a loro, a udire ciò
che veniva detto loro. Gabrielle ricordava Erich, diceva di aver udito spesso
la sua voce, che le parlava e le teneva compagnia.
Erich
aveva osservato Gabrielle correre ad abbracciarlo con una strana espressione ma
non aveva detto nulla.
Erano
divenuti amici, loro tre.
Amici:
più o meno.
Gabrielle
era innamorata del suo terapeuta – tipico -, nei confronti di
Erich si comportava quasi fosse stata una specie di sorella minore,
aspettandosi da lui, istintivamente, di essere protetta.
Erich,
schivo com'era il suo carattere, aveva accettato il ruolo che Gabrielle gli
aveva assegnato con la sua solita, scarsa manifestazione di un reale
entusiasmo.
Charles..
Charles si impedì di proseguire in quel discorso.
L'unica
cosa davvero importante era che Gabrielle stesse davvero meglio. Tramite lenti,
piccoli passi migliorava ogni giorno, e quello forse era il metodo più
auspicabile per una persona che avesse subito ferite
simili.
Gabrielle
aveva, di fronte, ottime possibilità.
Gabrielle
avrebbe potuto avere tutto quello che le spettava, e quando fosse guarita,
sarebbe stata perfetta. Di carattere e di aspetto.
Gabrielle
era assolutamente reattiva, aveva potuto già
diminuirle di molto le medicine. Se davvero la sua psiche non era letteralmente
regredita, ma le era stato in qualche modo impedito di
svilupparsi, allora possedeva in sé davvero una flessibilità invidiabile.
Nonostante il
trauma spaventoso.
E
quando faceva quel pensiero non poteva non pensare che
avrebbe voluto domandare a Erich del suo passato. Di quello
che aveva vissuto. Di quello che aveva patito. Di quello che si portava dentro. Del suo, di trauma.
Avrebbe
voluto chiedergli quale fosse, per intero, il numero tatuato sul suo braccio e
conoscere la storia nascosta dietro quelle cifre.
Avrebbe
voluto poterlo fissare negli occhi, mentre narrava, perché essi erano così
chiari e trasparenti da sembrare finti, eppure sapevano riempirsi di infinite sfumature. Ne era
certo.
Si
passò una mano sulla fronte.
Gabrielle.. Gabrielle, intanto, stava meglio.
Gabrielle
che era così carina.
Gabrielle
che era così dolce.
Gabrielle
che lo guardava e sorrideva, Gabrielle che gli prendeva la mano e arrossiva..
Charles
prese un respiro ed uscì sul piccolo balcone. La luce calava rapidamente
nell'aria asciutta e tersa del deserto che soffiava fin lì.
Si
appoggiò al parapetto: Erich.
Nonostante
tutto continuava a sognarlo. Lui e i lupi. Lui e la luce strana di una notte di ghiaccio avvolta in lingue di
fuoco. Lui e i suoi occhi che non sembravano umani e
che, insieme, erano la prima manifestazione di un animo per natura splendido.
Lui, di un'adolescenza forte e pura che giocava e rideva senza mai guardarlo.
'Homo homini lupus'
Erich
era davvero un lupo pronto a sbranare il proprio fratello
per ottenere qualsiasi cosa desiderasse? Il suo cinismo era spesso venuto a
confrontarsi con la propria fiduciosa apertura. Sembrava che loro due non avrebbero mai davvero potuto andare d'accordo su nulla. Invece parlavano, discutevano. Invece Charles sentiva Erich
vicino, e anche se non condivideva del tutto le sue idee, le comprendeva e
sapeva che poteva accettarne i principi che vi stavano alla base. Forse anche
lui avrebbe ucciso per difendere chi amava..
Forse..
Ci fu un movimento sul limite dell'orizzonte, parve. Repentino
e incomprensibile. Una luce accompagnata ad un sospeso silenzio innaturale.
Il
silenzio.
Charles
si protese un poco in avanti: se non fosse stato per
il silenzio avrebbe pensato, semplicemente ad un'esplosione, qualcosa di
drammaticamente frequente in quei giorni e in quella parte del mondo. Eppure l'aria ferma lo smentiva.
Charles
si guardò rapidamente intorno. Forse si era sbagliato, forse era stato uno
scherzo ottico dovuto al sole che s'infrangeva sulla superficie rossa e ardente
del deserto che si poteva intravedere tra le sagome bianche dei palazzi..
La luce
si ripeté.
Una
saetta.
Il
cielo che muoveva guerra alla terra.
Niente
pioggia, niente tuoni: una tempesta elettrica.
Charles
spalancò gli occhi, stupito. Aveva letto alcuni articoli scientifici sull'argomento,
ma non sapeva fosse una cosa solita.
Lo
spettacolo era meraviglioso e, insieme, inquietante. Forse sul deserto, però,
era un fatto tanto consueto da non sembrare neppure più degno di nota a chi...
sentì il proprio stupore circondato da quello di molti altri. Sembrava che metà
della popolazione di Haifa fosse alla finestra ad ammirare ciò che avveniva non
troppo lontano dalla città, e l'altra metà fosse per
strada.
Frammenti
di pensieri, emozioni, lo solleticarono piano.
'guarda!
ancora..'
'.. l'altra volta..'
' .. i fulmini..'
'.. la pressione atmosferica che..'
'.. e l'impianto elettrico..'
'ricordi?'
'..bello..'
'.. black
out!'
'.. senza
fiato..'
Fascinazione
pura e stupore. Charles sapeva che, ora, tutta la città era carica di elettricità statica e che le trasmissioni radio sarebbero
state fastidiosamente distorte per un periodo piuttosto lungo ma, per assurdo,
l'unica cosa cui riusciva a pensare era che avrebbe avvertito la scossa
poggiando le mani ovunque.
La
frequenza dei fulmini diminuì fino a scomparire del tutto lasciando
l'impressione di un orizzonte disperatamente vuoto.
L'immobile
lucore notturno, ora, pareva pallido ed insipido. Inutile.
La porta
si aprì alle sue spalle, Charles si scoprì a
sorridere, sobbalzando appena dallo stupore. Un Erich aggrottato rimase
immobile sulla soglia, per un attimo, prima di regalargli un unico sguardo
fosco.
Sembrava
nervoso, di certo era stanco.
Due
passi. Un'antina che cigolò aprendosi, il rumore del
vetro che scivolava su un ripiano duro.
Un
nuovo sguardo.
"Buon
riposo, Charles."
"Non
hai visto i.."
"No.
- asciutto. Non si voltò più - Ho mal di testa."
Si
chiuse nella sua stanza come quella motivazione avesse avuto il potere di
spiegare ogni cosa.
Come
se ci fosse bisogno, sempre, di spiegare ogni cosa. O una scusante.
Charles
sbatté le palpebre, sentendosi strano.
Appoggiò
una mano sullo stipite della porta.
E
avvertì la scossa.