Homo homini lupus

___

CAP: 3/8 

SERIE: X-Men

RATING: RPG

NOTE: i personaggi non sono miei, li amo, ma non ci guadagno nulla a scriverli! Appartengono tutti ai loro legittimi autori

___

 

 Era vero. Lo sapeva.

 

Lo aveva saputo da subito: quelle visioni, quegli occhi, i lupi.

 

Il vedersi senza conoscersi e sentirsi come preda d'un assurdo colpo di fulmine: riconoscere nell'altro un proprio simile. Vicinanza, assonanza, possibilità.

 

Gli amici si conoscono nello stesso modo, a volte basta meno che uno sguardo. Tra amanti pure è così: una scintilla scoccata chissà dove. Senza spiegazioni né motivi..

 

Lui ed Erich: una nuova razza?

 

Eppure, nonostante tutto, era bastato guardarsi per sapere.

 

E credere non serviva a nulla, perché credere è un atto di fede e si basa sulla speranza suscitata dall'ignoranza. Quando invece si sa perfettamente ogni cosa, la credenza diventa sapere, accettazione. Sicurezza.

 

In più: in questo modo non era svanito il fascino, anzi. Lo stupore certo s'era tinto d'un incredibile calore e la convinzione razionale di non essere solo aveva assunto la morbida dolcezza della rassicurazione.

 

Non da solo, mai più, perché, in fondo non lo era mai stato. Non lo sarebbe mai stato, neppure se non fosse esistito nessun altro all'infuori di loro due.  Insieme, ora, bastavano a riempire il mondo.

 

Charles si sciacquò il viso di fronte allo specchio annerito del bagno del reparto e, incrociando il proprio sguardo, quasi sorrise.

 

Era uno psichiatra, conosceva le persone, era giovane e, in più, per qualche motivo che non comprendeva, era sempre stato circondato da un buon numero di ragazze che si confidavano con lui e, dunque, aveva ampia dimestichezza con certi processi mentali: e davvero i suoi sembravano i discorsi di un innamorato! Almeno: di uno che si fosse preso una cotta fulminante.

 

Ci aveva pensato spesso a quanto il riconoscimento del sé tramite lo sguardo altrui fosse percepito frequentemente come una fonte d'amore, e quanto fosse fondamentale. Charles, dopo tutto, non si era mai sentito non amato, o non riconosciuto, non aveva mai patito la sindrome del reietto o dell'escluso. Nonostante i suoi poteri, aveva imparato presto a convivere con essi e non credeva di essere più speciale di quanto capitava a qualsiasi adolescente 'normale' del mondo. Era stato certo, poi, di non avere bisogno di un altro come lui per.. per essere felice. Aveva cercato qualcun altro che possedesse la sua particolarità solo perché era ragionevole che ci fosse, ma non ne sentiva alcun bisogno.

 

Lo credeva con forza.

 

Si era sbagliato.

 

Uscì nel corridoio spoglio.

 

Quella era una pessima giornata per il piccolo Isaak, uno dei pochi nati nei campi. E sopravvissuti ad essi.

 

Di solito stava muto e immobile per ore intere a fissare un punto vago, presente solo nel suo sguardo. Oggi, invece, pativa il ricordo di troppo dolore, di troppo orrore, e urlava disperato l'angoscia e la debolezza, e avrebbe volentieri sbattuto la testa contro il muro con violenza, ripetutamente, per farvi uscire quelle immagini terribili, se delle mani forti, come quelle che gli circondavano le spalle, non l'avessero sollevato, cercando di calmarlo con parole e lenti movimenti piuttosto che con i soliti medicinali a cui era fin troppo avvezzo.

 

Isaak urlava: l'avrebbe fatto per ore, ma Erich non gli avrebbe mai permesso di farsi del male, per quanto poteva. A qualunque punto del suo turno fosse, qualunque medico ci fosse nei paraggi, non c'era nessuno in tutta Haifa che riuscisse a quietarlo come faceva lui con parole note a loro due soli, e delle braccia forti a proteggerlo.

 

Charles li guardava, in fondo al corridoio. Isaak che avrebbe dovuto essere  un adolescente e sembrava un bambino vecchio, ed Erich: infinita pazienza, una dolcezza attenta e non stucchevole, sollecita.

 

Un’infermiera, accanto a di Charles, faticava a staccare lo sguardo. Biologicamente lei aveva tutte le ragioni per sentirsene così attratta: era una femmina di fronte a un prestante esemplare maschio dotato visibilmente pure d'un notevole istinto di protezione verso i cuccioli, non poteva che sentirsi sedotta. Quello che non riusciva a spiegarsi era perché lui stesso si fosse ritrovato a fissarlo in quel modo.

 

E se ci prestava davvero attenzione, si accorgeva che gli mancava un poco il fiato e si scopriva avvinto e affascinato.

 

Charles era un medico, sapeva bene come trattare con i pazienti e, in più, sapeva  di avere un atteggiamento naturalmente conciliante, però non sarebbe mai riuscito a trattare Isaak come faceva Erich.

 

Lui era stato.. padre.

 

L'idea lo colpì quasi fisicamente, con forza, obbligandolo a distogliere lo sguardo e ad allontanarsi.

 

Padre?

 

Poteva essersi sbagliato. Che non fosse in grado di leggere dentro la mente di Erich ormai avrebbe dovuto essersi rassegnato, eppure quello l'aveva letto nei suoi gesti, ed essi potevano mentire ancor meno che l'inconscio.

 

Padre: avrebbe potuto esserlo. E marito, anche.

 

Charles, di nuovo, non riusciva a farsi scendere il fiato nella gola e il motivo non riusciva ad immaginarlo.

 

Preferiva non saperlo.

 

Era il dolore: un grumo di sofferenza opaca e densa che pesava, tralucente, sul fondo dello sguardo di Erich. Non bastava esso a tenerlo fuori dalla sua mente, ma esisteva e rendeva le sue difese più forti ed alte.

 

Quel dolore poteva celare qualsiasi cosa.

 

Anche Erich era sopravvissuto. Per quanto aveva potuto esser stato fortunato, a riguardo, doveva essere passato attraverso qualcosa che non si poteva dire. Charles non lo sapeva, ma lo percepiva, e ringraziava l'abilità di poter rinchiudere fuori di sé le voci di tutti quelli che lo circondavano, altrimenti sarebbe impazzito.

 

Di tutti, tranne Erich.

 

Quell'inferno aveva annientato, spezzato, menomato ognuno di quelli che erano lì. Aveva distrutto. Forse: aveva cancellato.

 

La vita. Il passato. La speranza di un futuro.

 

Un padre?

 

Era forse stato padre, prima, e dopo il campo aveva cancellato ogni cosa? Eppure era così giovane!

 

Chissà a che età era stato preso. Chissà quanto tempo aveva trascorso imprigionato. Magari non era di famiglia completamente ebrea, ma era considerato un mezzosangue e dunque era riuscito a vivere fuori e in maniera quasi agevole, per più tempo. Forse era stato appena sfiorato. Forse.

 

Sarebbe bastato domandarglielo.

 

Non ci sarebbe mai riuscito.

 ___

 

Il pennino della stilografica tracciava segni stranamente incomprensibili, anche ai suoi occhi, mentre non faceva altro che meditare circa qualcosa di cui preferiva eludere anche il solo nome.

 

Un leggero bussare lo distolse da quello che stava facendo.

 

La porta non attese il suo cenno, per aprirsi e nel buio notturno e rapido che allagava ogni cosa, tracimando dalla finestra, la linea netta della luce giallognola della lampada tagliò la soglia.

 

"Sei ancora qui? - una domanda davvero stupita. E stanca - Ero convinto fossi già a casa."

 

Erich venne avanti lentamente, porgendogli delle cartelle. Charles si voltò appena per gettare uno sguardo sull'orologio a muro del suo ufficio.

 

"Il tuo turno non è finito tre ore fa?"

 

"Isaak stasera non riusciva a prendere sonno."

 

Un sorriso stanco, un po' pallido.

 

Non sembrava vero.

 

Charles lo guardava e non riusciva a capacitarsi: Erich era una somma infinita di contraddizioni, che non sarebbero mai riuscite a stare insieme. E più si sforzava di comprendere, più si scontrava con l'impossibilità vera di saperlo, di conoscerlo.

 

Quel silenzio era insieme minaccia e pace, meraviglia e terrore.

 

"Vuoi un caffè?"

 

Erich gli si sedette di fronte soppesando lentamente la richiesta mentre, con due dita, si premette una tempia, in un gesto ormai frequente.

 

"Fosse stato un altro momento ben volentieri. Ora però sono distrutto: devo solo decidermi ad andarmene da qui."

 

"Se mi aspetti potremmo fare un pezzo di strada insieme. Devo solo mettere via un paio di cose."

 

Charles si alzò in piedi più precipitosamente di quanto avesse calcolato.

 

Un plico di cartelle mediche scivolò di lato.

 

Un foglietto bianco ondeggiò pigramente nell'aria.

 

Perfetto: pensò.

 

La luce sbieca che lasciava una pozza chiara circoscritta al piano ingombro della scrivania. Il ticchettare delle lancette, nero su bianco, che sembrava vivere tra loro come un qualcosa di fisico, adatto a scandire lo spazio. L'uomo, di fronte a lui, che era solo una macchia chiara, sfumata nel buio della sera, immobile nell'attimo presente, con due dita a prendere al volo un lembo di carta, un lampo curioso nello sguardo, un'espressione inusuale...

 

L'istante perfetto passò.

 

"Cerchi un appartamento?"

 

Lo stupore era palese e sincero.

 

"L'ospedale ha avuto problemi con le assegnazioni, da quel che ne so, e non vorrei sembrare scortese, ma non mi piace affatto stare in albergo. Mi pare di non riuscire mai a riposare come si deve."

 

"Non ne avevo idea. - sotto le dita la carta frusciò, piegandosi piano, come nel sussurrare un sorriso segreto. - A volte il caso... sai? Fino a poche settimane fa dividevo un appartamento con dei colleghi che non credo tu abbia fatto in tempo a conoscere. Si sono trasferiti a Gaza."

 

"Stai cercando casa anche tu?"

 

Un nuovo sorriso, indecifrabile.

 

"Meglio: dei coinquilini."