Homo Homini Lupus
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CAP: 2/8
SERIE: X-Men
RATING: RPG
NOTE: i
personaggi non sono miei, li amo, ma non ci guadagno nulla a scriverli!
Appartengono tutti ai loro legittimi autori
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Becky gli sorrise, affascinante e suadente.
Era una
giovane donna molto piacente. E probabilmente lo
sapeva benissimo.
"Lei
è davvero galante, dottore! - una mano passata fra i capelli, lenta e seducente
e Charles seppe di essere già stanco di lei. - Però la
fa semplice, sa? Si accorgerà presto che qui è molto diverso che a casa."
Casa:
lei era americana, proprio come Charles. E proprio, come Charles, la guerra
l'aveva vissuta da lontano e in Israele s'era trasferita spinta
da una scelta ideologica e non perché vedesse in quella terra vergine una
possibilità di un qualche vero riscatto.
Se
Charles era a digiuno di molte cose, lei era al suo stesso livello, almeno per
quanto riguardava la vicinanza emotiva di molti che vivevano al loro fianco:
era ebrea e aveva accettato quel posto perché era un buon lavoro, però. . per
Charles fu come mettere appena a fuoco lo sguardo.
E capì a
cosa si stava riferendo.
Per
lei, come per molti, i sopravvissuti erano un problema.
Quelli
dolenti, quelli feriti, quelli spezzati da un Olocausto che non a torto era
stato battezzato con quel nome. Quelli cui si poteva leggere addosso il marchio di un inferno che avrebbe dovuto non
esistere sulla terra: guardarli era non potere, non sentirsi in colpa.
Gli
immigrati dovevano costruire un nuovo paese, volevano ritagliare, nel mondo, un
lembo di terra che fosse realmente loro: governo e
leggi e società e tutto quello che faceva di un territorio un vero stato
sovrano. Volevano poter cancellare quello che si aveva alle spalle per
costruire ciò che sapevano di meritare: i sopravvissuti erano quelli che ora lo
impedivano. Con la loro stessa esistenza. Con la loro presenza.
I
sopravvissuti. Fossero stati morti sarebbe stato più
semplice: più semplice piangere, angosciarsi, porsi delle domande impossibili
sull'essenza del male assoluto su questa terra. Era più facile avere a che fare
con incubi devastanti che avevano il dominio sulle notti, nel sonno, piuttosto
che sapere che si sarebbero potuti incontrare in pieno giorno. Ovunque.
Terribile,
ma assolutamente umano.
Charles
lo sapeva.
E
sapeva, anche, che una delle tentazioni più forti, in questo
caso, era il cinico, egoista pensiero che fossero le vittime ad aver
mentito, ad un certo punto, per ingigantire le colpe e le responsabilità dei
loro carcerieri, perché una crudeltà simile, una malvagità di tale intensità
era impossibile esistesse.
Semplicemente.
Quello
era l'effetto delle parole: scritte, raccontate, taciute.
Ma quando
le prove erano impresse sulla carne viva? Quando c'erano gli occhi di coloro che erano stati bambini, allora, che li guardavano
nello stesso modo allucinato in cui avevano contemplato il cielo grigio e il
fumo che usciva dalle ciminiere dei forni?
La
vera, ultima, definitiva crudeltà era proprio quella:
negare ai sopravvissuti la possibilità della pietà dei loro fratelli.
Come si
poteva giudicare, comprendere, accettare un qualcosa accaduto in un universo
alieno, dove tutte le regole conosciute erano state stravolte? E come
affrontare, poi, che quell'universo alieno era stato
lì, tra di loro, era esistito nel cuore stesso di una
società progredita, evoluta, che non era poi molto dissimile da quella in cui
erano vissuti tutti loro?
Di una
cosa era grato alla sua Gabrielle: era rimasta,
psichicamente ed emotivamente, quella ragazzina che era stata all'arrivo al
campo di concentramento. Risvegliarsi e trovarla immatura era stato tutt'uno, eppure, nonostante fosse
terribile pensarlo, tutto quello, la sua menomazione psichica, i suoi problemi
rendevano più semplice guardarla, affrontarla, parlarle. Come se sotto
l'etichetta di infermità fosse possibile trovare una
specie di giustificazione alla propria vigliaccheria.
Alla
propria incapacità.
I
sopravvissuti malati erano imbarazzanti per chiunque. Ma
quelli sani potevano essere intollerabili.
Impossibile
guardarli, vederli. Di ascoltarli neppure a parlarne.
Come
medico psichiatra Charles sapeva che, in questi casi, il silenzio più o
meno coatto era una scappatoia usuale per non affrontare il dolore e la paura. Però rimaneva una pericolosa arma a doppio taglio.
Un
discorso lontano catturò l'attenzione di Charles, che fu distolto da quel suo
cupo meditare.
"Sa?
In confidenza: mi mette un po' a disagio anche se non riesco proprio a
comprenderne il motivo. E' sempre più che cortese con tutti! E
poi non conosce ancora uno dei suoi migliori pregi: è un mago con le cose
meccaniche, sa?"
Di chi
stava parlando?
Il
cuore di Charles ebbe un curioso strattone: Erich.
"E'
un ingegnere, da quel che ne so.."
La
ragazza rise.
"Anche mio fratello maggiore, ma non sa cambiare una
lampadina! Invece lui ha fatto ripartire l'impianto elettrico dell'ospedale
come niente! Un mese fa, una delle molte tempeste di lampi sul deserto ha
causato un corto circuito e mi sa che, se non c'era lui, eravamo ancora al buio
adesso. Da allora, quando si rompe qualcosa - qualsiasi cosa - il primario
chiama lui, e le assicuro che nessuno s'è mai lamentato! Beninteso, per me può
far funzionare le cose anche solo per imposizione delle mani, ma…"
Becky continuò
a cinguettare, leggera, Charles si impedì di prestarle
ancora attenzione.
Aveva
avuto l'impressione che la ragazza stesse, inizialmente mostrando il suo
interessamento nei propri confronti e ora parlava di un altro? Oltretutto
continuando a lodare le sue infinite capacità, tipicamente 'virili': aggiustare
le cose!
Un
meccanico!
Era
abile, riusciva a fare tutto, un 'mago'.. bha! Bastava solo che ora non iniziasse a dirgli quanto lo
trovasse attraente, con i capelli tanto chiari, e così particolari, con quel viso
duro, e quegli occhi che..
"Ma è russo?"
Becky si
fermò e parve riflettere per un attimo.
"Non
lo so, dottore, per me gli europei parlano tutti con
un accento così assurdo! Sarà polacco.."
"Polacco?
- una voce che proveniva da lì vicino, e che li prese
entrambi alla sprovvista. Uno sguardo poco
conciliante, mitigato appena da una scrollata di spalle - Sono prussiano,
Prussia dell'est. Bastava chiederlo."
Lei lo
fissò un attimo, stupefatta, poi sorrise.
"Ecco:
polacco! L'avevo detto!"
Charles
scosse il capo.
"No,
la Prussia è tedesca.."
"Era."
Lei incrociò le braccia, Erich sospirò, seccato.
Charles
si domandò cosa mai poteva importargli da dove venisse Erich.
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"E'
difficile non domandarsi cosa t'importi della mia provenienza."
"Curiosità,
Erich, pura curiosità. - una nuova serata, ancora pallida, una nuova birra per
lui che solitamente era considerato, dagli amici, come
quasi astemio - Non avrei mai detto che tu fossi tedesco."
L'altro
si strinse nelle spalle.
"I
tedeschi non sono, alla fine, differenti da chiunque altro, Charles, e chi dice
il contrario mente. Dopo tutto io sono semplicemente
nato in una famiglia tedesca, tutto il resto della mia vita smentisce l'idea
che io possa sentirmi legato in qualche maniera speciale a quella terra."
Non c'era una particolare emozione in quel discorso, non si sentiva
dolore né un qualche rimpianto. Raramente Charles aveva immaginato di poter
incontrare un uomo così.
E non ci
aveva mai davvero sperato.
"Sai,
ci pensavo proprio oggi: non sei qui da tanto. Qualche anno, no? Immaginavo che
fossi tornato a casa dopo la guerra."
Un
sospiro: questa volta ci fu, appena sussurrato tra i
denti, ma percepibile.
"Casa?
Non esiste più nulla del genere. Non ho ricordi nitidi dei posti in cui sono
cresciuto e, anche se ce li avessi, tutto è stato distrutto. Ho vissuto in un
altro paese per anni, in una di quelle che furono le
repubbliche baltiche, e.."
"In
Russia?! - uno sguardo, un leggero cenno. Charles sbigottì. - Sei.. sei un comunista?!"
Charles
si stupì del suo stesso stupore nell'udirsi fare un'affermazione simile, che
tanto suonava d'accusa. Fortuna che ad Haifa non era
come a New York, dove chiunque si sarebbe voltato, preoccupato, a fissare colui
che era stato additato in quel modo! Lì nessuno degli avventori, invece, diede
segno di aver udito, o di preoccuparsi.
Erich
si limitò ad una pallida occhiata di riprovazione.
"No,
ma anche se fosse? Mettila così: visto che non avrei
mai potuto essere nero, ho scelto il rosso."
"Esistono
scelte meno drastiche. - Charles dovette appoggiare il
boccale - Non è che o sei un reazionario o un
rivoluzionario, sai? C'è un'infinita gamma di opzioni."
"Immagino
che tu ti stia per farmi la tua personale apologia del liberismo democratico."
"Non
si tratta di apologia, si tratta di ragionevolezza!
Seriamente non riesco a capire, in un uomo pragmatico come sei tu, una scelta
simile. L'ideale ad essa sottesa, le scelte che si
devono fare per vivere in maniera coincidente con una società simile.."
Erich
sorrise.
"Homo
homini lupus."
Uno
sguardo dubbioso, il tempo di recuperare ricordi lontani, sepolti negli anni
del campus.
"Hobbes?"
Un
cenno del capo.
"Tu
parli di filosofia, Charles, non di vita concreta e io ti rispondo nella stessa
maniera. Per quel che mi riguarda Hobbes ha
perfettamente ragione: ogni uomo è solo un lupo fra i lupi. Lasciato libero
uccide, distrugge, non sa fare altro."
"Non
puoi generalizzare. Non è detto che ciò che è accaduto accadrà di nuovo."
Charles
si obbligò ad evitare di fissare il braccio dell'altro uomo, coperto dalla
manica candida della camicia: perennemente calata sui polsi, nonostante il
caldo torrido. E lui, in tanti giorni di frequentazione, mai un segno di
sudore, mai niente addosso che non fosse candido e
perfettamente stirato, senza una piega, neppure un po' spiegazzato. Ci sarebbe
stato da invidiarlo.
"Certo
che accadrà. Gli uomini non sono capaci di vivere in pace."
Charles
strinse le labbra.
"Ma dimmi la verità: davvero pensi ragionevole sacrificare la
propria libertà per una vita pacifica?"
"Libertà
è un termine eccessivamente valorizzato, e in maniera aprioristica. Gli uomini
solitamente non pensano, hanno sempre bisogno di qualcuno che lo faccia al posto loro. Non è meglio che si appoggino ad una
struttura che li obblighi a scelte definite? Così hanno pure una scusa perfetta
per la loro vigliaccheria."
"Ora
sei tu a fare filosofia. E stai generalizzando in
maniera eccessiva. Comunque davvero, in coscienza, sei
disponibile ad immolare la tua possibilità di scelta per una scusa?"
Uno
sguardo lungo, intenso.
"Io?
Io parlavo delle persone. Io non sono come loro. -
Erich lo fissò quasi dolorosamente - E tu lo sai."