“’33-‘52”

di Assurda

*fic scritta per il progetto letterario "Morceaux"

 

A settembre non dovrebbe fare così caldo. Non tanto da permettergli di stare all’aperto ancora con la giacca estiva. Odia mettersi in ghingheri, ed ha sicuramente scelto il lavoro sbagliato; fare l’avvocato però è l’unica cosa che gli riesce veramente bene, che sa di saper fare.
Però fa caldo anche con la giacca estiva.
Fa tanto caldo che gli ricorda la Corea nel 952
Per essere esatti, il 4 luglio del 1952.
Quella notte stellata sopra un oceano di soldati americani con le menti piegate alla nostalgia di casa, i nasi rivolti all’insù ad immaginare i fuochi d’artificio che non possono lanciare. Sono in guerra, e lo spettacolo pirotecnico equivarrebbe a dire “Ehi, siamo qui, veniteci ad ammazzare”.
Non che abbiano bisogno di una scusa: per ammazzarsi si ammazzano quasi tutti i giorni; uno che vedi oggi domani non c’è, finito in un ospedale da campo, disintegrato da una mina, sepolto in una fossa comune di emergenza per evitare epidemie. Qualcuno però si ammala e viene rispedito a casa. Diego Lopez ha appena ventisei anni e una laurea con lode in Legge. Nessuno però lo assume: colpa, forse, del suo viso innegabilmente sudamericano, o delle maniere brusche. O magari è solo perché è troppo bello per essere anche intelligente. In più, la ditta per la quale lavorava come impiegato è fallita, e lui è quasi al verde.
E c’è una guerra, l’esercito americano arruola anche nei licei promettendo un futuro felice, con ogni probabilità di morire prima di viverlo. Però pagano, e lui ha bisogno di un lavoro, sennò lo rispediscono in Messico. Diego si arruola, prende la cittadinanza e finisce in un paese straniero, in mezzo a dei neoconnazionali.
Il Diego Lopez di adesso, quello con la giacca e il lavoro da avvocato penalista ben retribuito, si accuccia per raccogliere un fiore che spunta tra gli steli d’erba nati spontaneamente fra i sassi.
Quello di allora, quello della guerra in Corea e della cittadinanza presa per opportunismo, di fiori ne vedeva assai pochi. Tra i fucili a tracolla, tra le bombe a mano e le altre armi non c’era affatto posto per motivi floreali, né a morto, né gioiosi. In situazioni del genere, se non ci sei tagliato, ti viene solo voglia di fuggire.
Ma non è una guerra a fare retrocedere gli uomini o a debilitare la forza d’animo di Diego Lopez.
Quello di adesso, ha da poco finito di parlare con Mrs Reeves, una donna sui cinquant’anni, coi capelli corti e rossi e gli occhi grigi di una freddezza estrema. Gli ha offerto un caffè, con un goccio di latte e due zollette di zucchero, paradossalmente prodotte dallo stesso zuccherificio per il quale lavorava prima di partire per l’Asia. La donna gli ha parlato francamente, quasi con distacco, eppure non se ne rammarica. Sa quant’è difficile, ci sta facendo i conti ora. Incredibile, gli aveva spedito una lettera. Com’era possibile riceverne una di quel tipo? Fosse stata intimidatoria si sarebbe potuto credere, per quanto assurdo, ad una vendetta. Ma a quel genere di lettera –più che altro per i suoi contenuti- nessuno avrebbe mai potuto crederci. Eppure era successo. Ne era sicuro.
Era successo realmente, o avrebbe voluto che succedesse?
Il Diego Lopez di allora, perdendosi nella foresta, si era lasciato stregare dal panorama, dai suoi colori troppo vividi per essere reali, dalla sfumatura color pastello che assumevano come nella pellicola di un cinema drive-in.
Si era perso in quel boschetto limitrofo all’accampamento, fissato lungo il 38° parallelo o giù di lì. Si era allontanato cercando un attimo di pace, sfuggendo all’ingrato compito di scodellare il rancho alla mensa da campo, cosa che odiava e gli faceva schifo. Non capiva cosa cazzo dicessero i suoi commilitoni e lui odia non capire. Per quello a scuola aveva dei bei voti: si chiudeva nei libri finché non capiva ogni singola frase, parola, concetto espresso. Testardo come un mulo e privo di senso dell’orientamento come solo un essere umano o un cane smarrito può esserlo. Distogliendo lo sguardo dal paesaggio patinato cerca con gli occhi in mezzo alla macchia qualche segno di familiare umanità. Una fronda si muove e il suo cervello gli dice di stare attento. Un Coreano? Il capitano che lo veniva rimproverare per non aver fatto il lavoro che gli era stato assegnato?
Dal cespuglio mosso sbuca una strana creatura dalla faccia nera, con due strane narici ai lati che gli ricordano gli occhi sfaccettati di una mosca gigante. Non aveva mai visto niente di simile, e l’essere si avvicina a gran velocità. Il suo respiro aveva un che di affaticato, affannato, meccanico. Quando capisce che gli si sta avvicinando di proposito, che lo sta puntando, Diego scappa. O, almeno, tenta di scappare, impaurito come quando gli dicevano di dover prendere il fucile e sparare. Odiava farlo, lo spaventava.
Sì, a morte.
Viene atterrato con eleganza da rugby, una presa forte e salda che gli mozza il respiro.
Solo a quel punto si rende conto che quell’essere strano è un americano con indosso una maschera antigas.
-Ehi, ma tu non sei Jones!-
-No, e chi cazzo è Jones?-
-Scusa, ma giocavamo a nascondino. Come sai non c’è mai niente da fare. Tu che ci fai qui?-
-Evitavo di servire il rancho, mi sono perso.-
-Forza, piccolo boy scout, papà ti riporta a casa.-
Il ragazzo lo aiuta a rialzarsi e gli fa cenno di seguirlo. Sembrava ci fosse nato nella foresta, che non avesse visto niente altro che foglie e tronchi per la vita intera. In meno di due minuti sono di nuovo in vista dell’accampamento, quando Diego ne aveva impiegati almeno venti nella sua scrupolosa ricerca.
-Eccoci a casa.-
E così facendo il giocatore di nascondino si toglie la maschera. Diego da quel giorno giurò di non aver mai visto qualcosa di più bello, più affascinante e –per lui questo aggettivo aveva un senso- libero.
Come uno che è vissuto al di fuori degli schemi, che non possiede un punto di vista morale o amorale, ma solo un’opinione. Non sa perché, ma il suo viso gli da quella sensazione di pace che sanno comunicare i bambini.
Il Diego Lopez di adesso, immerso e non perso in una foresta di pietra, ripensa a quella visione di allora con una nostalgia alimentata da un anno di distanza dall’ultima volta che ebbe il piacere di vederlo.
Il Diego Lopez di oggi ripensa al 4 luglio osservato di nascosto al di fuori nella folla, con accanto Adam, l’uomo della maschera.
Adam Reeves, il ragazzo che gli salva la vita trascinandolo fuori dalla coltre di fumo, grazie al suo anormale senso dell’orientamento, del quale Lopez è completamente sprovvisto. Pensa ad Adam e a quella metà di maggio di calma piatta.
Il Diego Lopez di allora era tormentato dai dubbi non meno, certo, di quello di oggi. Sopperiva alla mancanza di dinamicità facendo un tacito appello alla sua penna e alla sua agenda, scarabocchiando stereotipi umani, scrivendo i suoi pensieri a ruota libera per ammazzare il tempo. Sorrideva citando il Cappellaio Matto di “Alice nel paese delle meraviglie”: <<Se tu lo conoscessi, il tempo, non sarebbe molto felice di farsi ammazzare>>.
Adam era accucciato nella brandina affianco: faceva camminare la sua mano come le gambe di un uomo, fischiettando un motivetto di Frank Sinatra.
-Che fai?-
-Scrivo.-
-Che cosa?-
-Di un cretino che gioca a nascondino nella foresta, che si mette maschere antigas per non farsi riconoscere e che fischietta, male, canzoni di Sinatra.-
-Cazzo, uno sfigato veramente!- Adam pareva non raccogliere le “velate” (eufemismo) allusioni che si facevano alla sua persona. -Ehi, me li presti un attimo? Dico penna e fogli.-
Spazientito, Diego sbuffa, allungandogli la roba, che riesce a recuperare solo due ore dopo.
-Adam, dammeli!-
-Aspetta aspetta!!- e furiosamente continua a tracciare linee sempre più precise. –Fatto! Guarda.-
-Sono io?-
-Allora ti riconosci! E io che credevo di averlo fatto orrendo…-
-Dove hai imparato a disegnare così?-
Diego fissa il disegno estasiato, mentre il giovane Adam si impegna a raccontargli la sua fuga da casa, la sua idea improvvisa di scappare il più possibile lontano dai genitori e dal militare incontrato a scuola.
-Mia madre voleva che frequentassi una facoltà seria, ma io volevo assolutamente studiare Arte. Oppure me ne andavo fuori di casa, e così ho fatto. Non fraintendermi, non odio mia madre: mi mancano certe attenzioni che aveva, come quella di mettere ghiaccio e limone nell’acqua per gli ospiti.-
-A me non piace così.-
-E chissenfrega. Allora dovresti farti fare un caffè, è davvero brava a farlo.-
-Me ne ricorderò.-
E il Diego Lopez di adesso se l’era ricordato, e sente ancora tutto l’aroma di un caffè sublime che gli ha preparato la madre del suo commilitone. Nella tasca della giacca ha la scioccante lettera che gli ha scritto, aperta e macchiata di lacrime, e il proprio ritratto, strappato dall’agenda.
Com’erano arrivati a tanto?
Facile: è che certe cose capitano, tra i militari, come fra i carcerati. Alle volte la mancanza di una donna è troppo pesante, e una mano non ti basta più. Così cerchi quella di un altro –e non solo- che sia consenziente o meno. Ma loro due, Adam e Diego, come ci erano arrivati?
In che modo?
Con tutta la facilità di un’azione senza conseguenza, lasciando stare il cuore e i graffi che lasciavano le sue unghie sulla pelle sudata. Abbandonandosi, per una volta, al corpo e dimenticando, accidentalmente, di pensare.
Baciando per la prima volta labbra differenti da quelle di Mary Sue, la brava ragazza della porta dall’altro lato della strada che riaccompagnava a casa ogni sabato sera dopo il cinema, dopo il frullato bevuto con due cannucce.
Facendo sesso con Adam Reeves, dopo averlo rincorso nella foresta.
Su un cumulo di foglie come letto.
Sotto la luna come coperta.
Sotto l’effetto di birra trafugata dalle provviste.
Sotto, la coscienza, come un tarlo che pascola nel legno.
Diego Lopez oggi sa, secondo gli studi di un uomo –tale Alfred Kinsey-, che almeno il 37% degli uomini ha avuto un’esperienza omosessuale.
Lui più d’una. Anche se ci sarebbe da chiarire se l'esperienza viene definita in base al numero di rapporti o in base alle differenti persone, o se quelli con Adam erano solo sfrenati accoppiamenti da drogati di quelle sensazioni tattili che erano diventati.
Diego, adesso, torna a quel 4 luglio, da innamorato.
Di lui.
Innegabile è, adesso, l’affetto che provava per il ragazzo di sette anni più giovane. Non era una cotta, non era un rapporto fisico. Era innamorato di quegli occhi verdi, del suo talento e della sua sfacciataggine. Sotto la luna pirotecnica, loro esclusiva coltre, lo abbracciava, baciandogli di tanto in tanto una tempia, o mordendogli un orecchio, o cullandolo… e si domandava che cosa stesse facendo, perché gli piacesse farlo, e sebbene senza risposta, continuava con quegli atteggiamenti da innamorato.
-Diego…-
-Sì, Adam?-
-Com’è il Messico?-
-Spettacolare. Povero, ma ricco dentro. Ci sono un sacco di persone meravigliose ad ogni angolo di strada…-
-Non hai paura di non ritornarci?
-Sì, ogni tanto sì. Anche se, ora come ora, mi spaventano altre cose.-
-Per esempio?-
-La paura di morire, di perdere…-
-Cosa, la guerra?-
-No, non quello. Ho paura di sentirmi vuoto.-
-Ma alla tua età sono tutti così?-
Diego ride, stringendogli la vita, infilandogli le mani nei pantaloni troppo larghi per lui, che non riusciva mai a trovare una taglia giusta per la divisa.
Diego, quello di qualche anno fa, chiude gli occhi mentre fa l’amore con Adam. Il buio, tanto, non gli avrebbe permesso di vedere nulla in ogni caso.
Il Diego di oggi sa dare un nome a quella paura. La chiama amore, o solo infatuazione, per venire a patti con se stesso e con la propria morale. Il Diego Lopez odierno porta una mano al fianco, quel quattro luglio ancora intatto nei suoi ricordi. Il giorno successivo, stupidamente capitato in mezzo ad una rissa –la pressione psicologica si faceva sentire per tutti- un uomo lo accoltella con una mannaia da cucina, di striscio, ma riporta comunque una ferita profonda. Viene ricucito sul tavolo della mensa, senza anestesia, bevendo dalla fiaschetta di lucido metallo la grappa fatta in casa del capitano; viene portato all’ospedale da campo, è assalito dalla febbre. Gli vengono somministrate una manciata di medicine, la febbre passa, ma la ferita è troppo profonda per rimarginarsi in poco tempo. Appena le sue condizioni si stabilizzano, viene dichiarato non idoneo al servizio militare e congedato, rispedito a casa alla stregua di un pacco postale.
Quello di allora, non sapeva.
Adesso sa.
Non sapeva che non avrebbe mai più rivisto Adam, per quanto potesse continuare a cercarlo. Non sapeva che c’era stato uno scontro con le truppe cinesi.
Ora sa.
Era meglio non sapere?
Forse sì. Gli fa male leggere il suo nome, Adam Reeves, in lettere dorate. Fa male leggere sulla lapide: “Figlio devoto, amico carissimo. Che tu possa disegnare con le nuvole e le stelle il cielo”

11 GENNAIO 1933 – 6 LUGLIO 1952