25 APRILE 1501
Autore:
Dhely
Genere: storico-original
Pairing: Astorre (Manfredi, principe di Faenza)x
Cesare( Borgia, duca di Valentinois,
Gonfaloniere di Sacra Romana Chiesa e figlio di papa Alessandro VI) x Giovanni
(fratello di Astorre)
Rating: Nc-17, angst, incesto, death
WARNING: i pg qui descritti sono pg
storici, per cui ho potuto barare su tutto tranne che
sull’età: ed Astorre durante lo svolgersi di questa vicenda è minorenne. Inoltre è una death fic e non solo perchè, essendo la
storia ambientata nel 1500 è ovvio che loro siano morti. Astorre e suo fratello
vengono uccisi, giustiziati. Ho cercato di evitare il
più possibile le immagini troppo forti, e non era mia intenzione fare di questa
storia una fic estremamente
particolareggiata. Spero di esserci riuscita, ma ovviamente non posso esserne
certa.
Astorre socchiuse gli occhi.
Una lama di luce gli sfiorava il viso, penetrata dalla feritoia, lurida, nel muro muffito della sua cella. L’aria fetida e pesante era zuppa degli odori del Tevere, che scorreva poco più sotto.
A lui non importava: stava sognando la primavera. La sua casa.
Sognava la caccia nei boschi nei dintorni di Faenza, la pianura meravigliosa e fertile, gli alberi da frutto, la foresta, le mute di cani, i cavalli con le gualdrappe dorate, gli scudieri e le dame al castello, durante le feste, i poeti, la musica, i bambini che correvano al fianco del suo cavallo, ridendo e urlavano felici ‘il principe Manfredi!’.. e i fantasmi, i timori, tutto quello che sapeva nascondersi nella terra che gli era stata casa.
Un sogno confuso, ma dolce, come sanno essere solamente le cose che non potranno più tornare.
Allungò una mano, e trovò, come sempre era stato, la mano di suo fratello Giovanni. Con lui, sempre, al suo fianco: nei giochi e nelle cacce, durante i banchetti e le battaglie. Anche ora.
Perduti, sì, ma insieme. Non sapeva se dovesse essere un’idea confortante o semplicemente un modo per obbligarlo a soffrire ancor di più.
Si voltò appena verso di lui: Giovanni era sempre stato bello. Tenendo le palpebre socchiuse la sua figura spiccava indistinta, e non si notavano i fili di paglia fra i capelli spettinati, il viso sudicio, gli abiti a brandelli.
Dormiva, come aveva dormito lui.
Forse sognava quello che aveva sognato lui.
Sognava l’inizio della loro fine?
Astorre non sapeva se augurarglielo o meno. Perché, quando avevano iniziato a precipitare, erano stati entrambi così felici che non si sarebbe potuto spiegarlo a chi non avesse mai provato a essere nella loro posizione.
L’inizio della fine: ricordava benissimo la data.
Il 25 aprile del 1501.
La caduta di Faenza.
Il fumo aveva reso acre l’aria, le armi d’assedio erano poggiate contro le mura della città, divenute ormai inutili.
La popolazione schierata, nobile e seria negli abiti miseri.
Le armature dei soldati coperta di sangue, fuliggine, sudore e lacrime.
Gli stendardi contro il cielo.
Sprazzi di immagini leggere, che non riusciva a mettere insieme, frammenti impazziti, e il cuore fermo in petto, ghiacciato non dal timore ma.. dallo stupore. Dalla fascinazione perfetta.
Lui, il vincitore, lì davanti a loro, che rendeva omaggio ai combattenti e alla città tutta, benevolo.
Non era quel demonio che avevano raccontato: era un uomo raffinato che amava e riconosceva il coraggio, e che lo premiava con liberalità. E rendeva onore alla città più fiera che mai gli si fosse opposta, dicendo che in una battaglia non aveva mai veduto più atti di valore.
Era un uomo forte, nobile, austero. Quasi e solo nel riflesso dei suoi occhi, Astorre riusciva a ricomporre le immagini spezzate che ricordava.
Sapeva di lui? Certo! Chi in Italia poteva non conoscere il Duca Cesare Borgia? Gonfaloniere e capitano della Chiesa, e una sfilza tali di altri titoli che parevano non finire mai.
A volte ci pensava: sarebbe mai riuscito a conquistare tutto quello che voleva? Sarebbe divenuto.. re d’Italia? Un re solo, per tutta la penisola? La Francia non l’avrebbe permesso, e neppure la Spagna, no, ma se uno poteva riuscirci, ecco, quell’uno non poteva che essere lui.
Sorrise, sospirando appena.
Non riusciva neppure a ricordare davvero il suo volto.
E non perché, come aveva sentito dire, Cesare si coprisse il viso con una maschera scura, per non mostrare il viso sfregiato, no, e neppure a causa della prigionia o della tortura: semplicemente non ci era mai riuscito. Cesare era un uomo, dicevano, ma era il suo spirito, la forza che emanava da esso a imporsi alla presenza del mondo. E dunque anche il suo aspetto, la sua espressione erano frammenti di quello spirito, del suo fuoco.
Avrebbero potuto sfigurarlo orribilmente ed Astorre sapeva che avrebbe saputo riconoscerlo fuor d’ogni dubbio. I suoi occhi erano quelli d’un falco: potere e volontà, fusi insieme, qualcosa di innominabile e insieme di penetrate.
Era meraviglioso ed elegante: nelle parole, nei gesti, nell’atteggiamento. E nobile.
Un temibile condottiero
Il pomeriggio in cui la sua città era capitolata, egli aveva giurato che avrebbe trattato con rispetto la gente di Faenza, e per quello che aveva potuto vedere, egli aveva mantenuto la sua parola.
Cesare manteneva sempre la parola data.
Infatti, a loro nulla aveva giurato.
Nulla.
Doveva essere quell’aria malsana a premergli sul petto, rendendogli difficile respirare e causandogli quel dolore cupo, profondo..
Giovanni singhiozzò al suo fianco, stringendosi a lui, nel sonno. I ceppi sfregarono stridendo contro le pietre del pavimento. Astorre lo abbracciò, facendogli poggiare la fronte sulla sua spalla in una posizione che era solita ad entrambi.
Sorrise di nuovo, sfiorandogli i capelli.
Dormivano spesso così vicini, nel suo letto.
E Cesare li guardava e sorrideva.
Diceva loro che erano belli, entrambi, e che insieme erano una visione degna di un re. Diceva che di Giovanni adorava le mani, la sottile eleganza dei polsi, e le gambe, mentre di Astorre preferiva la schiena, il viso, e l’espressione. Le labbra: le amava di entrambi, e gli occhi, sì. E insieme: così dolci, quando dormivano, così attraenti e ingenui, da svegli.. lo diceva mentre gli posava una mano sul capo e gli sfiorava i capelli, ne arricciava una ciocca tra le dita, quando sfiorava il viso di Giovanni, dolce.
Oppure, se Giovanni era seduto sul bracciolo della poltrona e gli porgeva acini d’uva, e lui aveva il capo appoggiato al suo ginocchio, e non faceva altro che osservarlo, come a bere la sua presenza, le sue parole. Non gli serviva null’altro, non avrebbe mai potuto pretendere nulla di più. Astorre non si era mai sentito così perfettamente felice, non sapeva neppure si potesse provare un sentimento simile, da vivi.
Astorre s’era accorto di amarlo la prima volta che l’aveva veduto, ai piedi delle mura della sua città, a stringere d’assedio il suo regno, il suo trono, la sua gente. La prima volta che il demonio delle leggende era venuto, in carne ed ossa nella sua terra, a dire al signore di Faenza, il Principe Astorre III Manfredi, di accettare la resa.
Astorre non s’era arreso, ma il cuore, sovente, non segue i dettami della ragione, e s’era ritrovato schiavo di lui ancor prima che l’ultimo attacco fosse sferrato.
Una falena muore perché, stoltamente, ama il dio fuoco.
Per lui era lo stesso: stava morendo perché aveva amato chi non poteva amare.
Avrebbe potuto essere furbo, avrebbe potuto cercare di strappargli qualcosa, qualche concessione, qualche.. oppure fuggire. Sfruttare una distrazione di qualcuno del suo seguito e scappare, ma non aveva potuto. L’aveva proposto, una notte, a suo fratello, ma Giovanni l’aveva fissato, furente, s’era stretto a lui in un abbraccio forte e non aveva detto nulla.
Nessuno di loro poteva lasciare Cesare.
Forse era davvero un demonio, ma alla fine, a chi importava se lo fosse davvero stato? Lui l’avrebbe amato in ogni caso, e gli altri non avrebbero smesso di odiarlo.
Ricordava benissimo le cavalcate al suo fianco, la sua voce, le sue mani forti muoversi nell’aria, a indicare piani e battaglie. E il suo orgoglio: magnifico, bellissimo, che insieme all’ambizione gli faceva scintillare lo sguardo. E la forza, e l’intelligenza di chi sa che può compiere un destino luminoso.
O perire nel tentativo.
Ricordava la sua figura nera, gli abiti scuri e sobrii che avvolgevano quel corpo magnifico. La spada elegante che gli brillava al fianco.
Un giorno gliel’aveva mostrata: la fattura squisita era merito di un armaiolo di Toledo, uno dei migliori al mondo, e con un sorriso aveva inclinato appena la lama in modo che il sole giocasse con un’incisione sottile.
‘Aut Caesar aut Nihl’
Il suo motto.
‘O Cesare o niente’.
Il suo confessore, a Faenza, gli aveva insegnato che la superbia era un peccato mortale. Astorre, dopo aver conosciuto Cesare, sapeva che il padre si era sbagliato: non poteva esserci nulla di male nel cinoscere il proprio valore e nell’essere felici per quello.
In quel momento Astorre, in piedi di fronte a Cesare, con la spada che fiammeggiava tra di loro, si sarebbe gettato nel fuoco dell’inferno per lui.
Forse, addirittura, l’aveva fatto e non se ne ricordava. Forse non se ne era accorto.
Anche ora, ad un passo dalla morte, in quella cella umida ed orribile, non poteva smettere di pensare alle notti con lui.
Lui, con quel suo corpo perfetto, forte e elegante insieme, su cui le ferite spiccavano come segni d’onore e non come macchie alla sua bellezza, seduto tra i cuscini e i guanciali del letto, tra loro due che lo baciavano, e lo toccavano, e gli sorridevano e ridevano.
Si divertiva con loro quando non c’erano donne, o quando di donne non aveva voglia.
Giocava con loro, Astorre lo sapeva bene: era infatuato, avvinto, innamorato. Era in trappola, ma non era stupido.
Cesare giocava, però li amava con passione. Con forza e attenzione. Era impositivo, ma mai violento. Voleva il loro piacere, da mischiare al proprio.
Li guardava, dopo l’amore, e diceva che erano belli, e li sfiorava, quasi curioso, come se fosse anche lui affascinato.
A volte, prima, li prendeva entrambi per mano e li conduceva al letto. Chiedeva loro di baciarsi, per lui, e si sedeva ad osservarli.
Era semplice: loro si erano sempre amati, e anche se non fosse stato così, per Cesare avrebbe fatto qualsiasi cosa.
La pelle di Giovanni era sempre stata morbida come il velluto, e tiepida, meravigliosa, e la sua voce, poi, il suo corpo, i suoi baci e le mani che lo sfioravano con la perizia di chi lo conosceva bene, come conosceva se stesso. In fondo era un po’ come amare la propria immagine riflessa in uno specchio.
Se lui era un poco più alto, Giovanni era leggermente più sottile. Se la sua pelle era più candida, quella di suo fratello sapeva essere più calda. Sei lui era più elegante, Giovanni era più affamato.
Da sempre li avevano definiti, entrambi, belli, e Cesare non smentiva la loro fama. Li osservava a lungo, con desiderio fino a che riusciva a sopportarlo, poi li raggiungeva, unendosi a loro.
E le sue mani, il suo corpo, sapevano accendere un fuoco sconosciuto a loro due soli.
Dopo, ansimanti, giacevano immobili per un lungo periodo fra le sue braccia ed era semplice addormentarsi lì dov’erano.
Tra le braccia di Cesare.
Strinse Giovanni con più forza nell’udire le guardie lungo il corridoio. Suo fratello si destò, mugolando qualcosa.
Si misero seduti, composti, ma senza lasciarsi.
Quella volta non entrò il solito secondino con i pasti.
Quattro guardie si fermarono fuori, ad entrare nella cella fu un uomo austero. Nel buio non riusciva a riconoscerlo, ma dettagli della sua figura gli ricordavano qualcosa.
“Il principe Astorgio III della casata dei Manfredi, decimo Signore Sovrano e Vicario Pontificio di Faenza, Conte di Brisighella e della Val Lemone, Signore e Vicario Pontificio di Fusignano e Donigaglia, Signore di Savignano, Oriolo, Gesso, Cesate, Quarneto, Fognano, Cavina, Fornazzano, San Cassiano, Montalbergo, Santa Maria in Montalto, San Procolo, Castel Laderchio, Casola, Rio Secco, Fontanamoneta, Baffadi, Granarolo e Montebattaglia, Patrizio Veneto e Patrizio di Faenza, Capitano delle Armate della Repubblica di Firenze?”
Lui annuì.
Era uno degli uomini di Cesare, anche Giovanni l’aveva riconosciuto.
Ora non importava più nulla: Faenza era lontana, la sua gioventù, le galoppate, l’aria umida di nebbia, e scappare alla nutrice per arrampicarsi sugli alberi, e i capitani di ventura che tornavano a casa e raccontavano del mondo fuori dalle mura e lui che sognava.. sognava..
Tutto perduto, consumato da un fuoco che lui stesso aveva cercato e provocato.
L’uomo continuò a leggere ma Astorre non ascoltò. Gli importava.. di niente. Solo di Cesare.
Avrebbe voluto vederlo un’ultima volta. Avrebbe voluto che lo amasse di nuovo. Avrebbe voluto che fosse lui ad ucciderlo.
Già: se lo avesse almeno odiato! Se almeno avesse saputo di essere stata una piccola ossessione per lui, se almeno potesse essere certo di essere un ricordo, per lui!
Se.. Giovanni sbottò.
“Chi ha firmato quell’ordine?”
L’uomo ristette immobile dallo stupore.
Non capiva cosa importasse, ovvio. Lui non capiva, ma Astorre sì. Strinse la mano di suo fratello, in silenzio.
Almeno, almeno li odiasse, almeno li ricordasse con astio, con vergogna, con qualcosa! Almeno avesse ordinato la loro morte per vendicarsi, o per rimediare a una qualche onta, o per ..
“Il Santo Padre.”
La voce fu secca, dura. Annoiata quasi.
Astorre udì Giovanni soffocare un singhiozzo, lui si limitò a chinare il capo.
Li aveva dimenticati.
L’uomo uscì dalla cella, rivolgendosi ai soldati.
“Fate di loro quel che volete, ricordate solo che alla fine devono essere morti.”
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Il Principe Astorre Manfredi, insieme a suo fratello minore, fu ritrovato cadavere il 9 giugno 1502 nel Tevere. Il corpo mostrava segni di violenza, e di strangolamento. Undici giorni dopo avrebbe compiuto 18 anni.